Esiste una teologia ebraica?

Una mappatura di massimo giuliani

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    Esiste una teologia ebraica? Da Hirsh a Heshel, da Rosenzweig a Leibowitz… Ecco una mappatura

    7 Aprile 2016

    di Ugo Volli


    Mentre la ‘teologia’ contiene i pensieri dell’uomo su D-o e sulle cose divine, la Torà contiene i pensieri di D-o sull’uomo e le cose umane». In questa frase di Samson Raphael Hirsh c’è tutta la difficoltà di definire una “teologia ebraica”. Ancor più sinteticamente, Martin Buber usava dire che “noi non parliamo di D-o, ma a D-o”. Resta il fatto che la teologia, intesa come discorso sul divino, la sua struttura, la sua vita interiore, è sostanzialmente lontana dalla forma di vita e di pensiero principale dell’ebraismo. Non che speculazioni su questi temi siano mancate, soprattutto nell’ambito della Qabbalà: si pensi alle meditazioni sulle sefirot o emanazioni e sulla numerologia dei nomi divini, alla mistica del “Carro” e dei Palazzi. Ma si tratta di temi che fin dai tempi del Talmud sono stati considerati delicati e perfino pericolosi.

    Fuori dall’ambito della mistica, i discorsi ebraici sulla divinità e sui suoi rapporti col mondo si sono sviluppati soprattutto in epoca moderna e per confronto con il cristianesimo. <b>Ma generalmente in ambito ebraico, soprattutto in un ambiente culturalmente portato all’autodifesa come quello dell’ebraismo italiano (ma anche francese e sefardita) anche di queste cose si parla poco. Ne parla oggi un interessante libro di sintesi di Massimo Giuliani, documentato e intelligente studioso di ebraismo, che non a caso si chiama Teologia ebraica – Una mappatura (Morcelliana).

    La definizione “mappatura” è esplicitamente usata come un modo di far fronte a questa difficoltà di fondo. Si tratta cioè non di definire una teologia ebraica ma di elencare in maniera ordinata chi nella storia del pensiero ebraico si sia occupato, anche in modi molto contrastanti, di questi temi. Non a caso meno di un quarto del libro è dedicato alle fonti classiche del pensiero ebraico, dal Talmud al chassidismo. Tutto il resto esplora in notevole e crescente dettaglio il dibattito a partire dall’Ottocento, dando ragione del formarsi della “scienza dell’ebraismo” e del movimento riformato, della nuova ortodossia di Hirsh, incidentalmente degli ultimi grandi protagonisti italiani come lo Shadal e Benamozegh e poi del dibattito americano del Novecento, della “teologia della Shoà”, del tentativo di costruire una “teologia femminile” dell’ebraismo, del revival degli studi sulla Qabbalà, dell’“esistenzialismo” francese, fino alla cronaca del dibattito contemporaneo.

    Sono richiamati i maestri più noti del Novecento, da Heshel a Leibowitz da Solovetchick a Rosenzweig e Buber, da Levinas fino a Hartman, ma vi è soprattutto il gran numero di intellettuali, filosofi, rabbini che hanno discusso dei fondamenti dell’ebraismo negli ultimi decenni, con una netta prevalenza dell’ambiente nordamericano. Tale ricchezza di voci esclude l’approfondimento di ogni singola posizione (anche per i grandissimi non vi sono più di due o tre pagine) e può produrre un effetto di sconcerto per chi ha presente la gerarchia più comune del pensiero ebraico, basato sulla figura dei decisori halakhici. Oltre al filtro dell’interesse teologico, questa prospettiva poco comune deriva dal voler essere una mappatura trasversale, in cui si analizzano tutte le correnti del mondo ebraico, anche quelle più lontane dalla tradizione “ortodossa”. E’ una scelta precisa, naturalmente, che però rende certamente questo libro interessante e istruttivo anche per chi segua con passione il pensiero ebraico più noto della tradizione.

    Da qui

    www.mosaico-cem.it/vita-ebraica/ebr...o-una-mappatura


    Qui un articolo riassuntivo dello stesso autore in pdf gratis

    www.google.com/url?sa=t&source=web...q5gx2u1A6C9U6b-

    Edited by leviticus - 11/4/2019, 03:35
     
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    Riporto qualche stralcio che ho trovato interessante nell'articolo riassuntivo dell'autore:

    "Come notano Elliot N. Dorff e Louis E. Newman «la questione non è se i rabbini abbiano mai sentito il bisogno di esplorare interrogativi teologici sull’ontologia, la cosmologia, la dottrina della salvezza o la teodicea, ma solo quali strumenti essi abbiano usato per rispondere a quel bisogno» [Contemporary Jewish Theology]. Anche sulla natura di questi strumenti la tradizione ebraica non trova unanimità di consensi né univoche sono le risposte date al secolare dibattito se sia lecito o no parlare di dogmi in una religione che antepone l’ortoprassi (l’halakhà o giurisprudenza religiosa) all’ortodossia; e se questi dogmi richiedano assenso intellettuale oppure servano soltanto da «miti» e «simboli antropologici» per orientare e motivare l’obbedienza ai comandamenti; e se tra questi dogmi sia inclusa o meno la stessa conoscibilità di Dio. Il pluralismo di metodologie e di opinioni investe di fatto tutti i temi centrali dell’autocoscienza ebraica, a partire dall’interpretazione della rivelazione intesa anzitutto come evento: se la Torah sia davvero stata data da Dio a Mosè sul Sinai e come tale «dogma» si riconcili con l’esegesi storico-critica della moderna scienza filologica e con l’archeologia biblica; come spiegare l’alleanza ovvero il legame speciale che il Dio di Israele ha con il suo popolo e dunque
    se si possa ancora parlare di «popolo eletto» o se tale nozione vada reinterpretata alla radice; quale sia il valore del servizio divino (la
    preghiera liturgica che sostituisce i sacrifici nel tempio distrutto) e il senso della dottrina della retribuzione; come pensare il messia e la speranza della redenzione; il significato della terra promessa; il problema del male in rapporto alla creazione; l’interpretazione dei miracoli; il rapporto tra la
    religione di Israele e le altre religioni del mondo; le implicazioni teologiche della Shoah e dello Stato di Israele per una filosofia ebraica della storia.
    Sebbene non esista un corpus dottrinale unico e uniforme su tutti questi temi, un certo consenso è comunque rintracciabile sugli scopi generali a cui ogni sforzo di pensiero ebraico teologicamente connotato dovrebbe tendere. «Una teologia ebraica – spiega Louis Jacobs – si prefigge sempre il compito di comprendere più a fondo il significato della religione ebraica lavorando sull’eredità ricevuta dai maestri che ci hanno preceduto.
    Al contempo dovrebbe fare i conti con i problemi posti dal pensiero moderno senza peraltro ignorare le presentazioni sistematiche
    offerte dai giganti del[la filosofia ebraica del Medioevo» [A Jewish Theology, ]. E ancora: «Compito della teologia ebraica – scrive
    Byron Sherwin – è quello di stabilire la natura e i parametri del pensiero religioso ebraico, di articolare in modo coerente le visioni autentiche del giudaismo, e di mostrare come la sapienza ebraica del passato possa contribuire a risolvere le perplessità dell’esistenza
    ebraica contemporanea in una maniera compatibile con il pensiero e la vita delle comunità religiose ebraiche in tutte le circostanze
    date di tempo e di spazio» [Problems in Contemporary Jewish Theology, ]. Per tale compito Sherwin fissa quattro criteri validi, a suo
    avviso, non solo per la teologia ebraica ma per ogni teologia in quanto tale: l’autenticità, la coerenza, la contemporaneità e l’assenso della comunità. In queste coordinate, un teologo ebreo muove esattamente dal punto in cui si ferma il fenomenologo o lo storico della religione o lo scienziato sociale e si prefigge di avanzare nuove interpretazioni e aprire nuove prospettive sul significato e sul valore della vita ebraica intesa come prassi di obbedienza alla volontà divina e come impegno a trasformare il mondo con i mezzi offerti della propria tradizione."

    e nel secondo capitolo del libro (i pensieri "teologici" del Tanach)

    "Quasi tutto cio' che conosciamo, storicamente parlando, dell'Israele antico e dell'epoca cosiddetta biblica -istituzioni, prassi e credenze incluse - lo conosciamo come un'elaborazione di un Israele post-biblico e come frutto di una lunga trasmissione mnemonica di fonti orali e di alcuni testi a noi non pervenuti. Questo paradosso e' la premessa senza la quale ci e' precluso il processo di comprensione e di quella che, con la tradizione chiamiamo Tora' - insegnamento e istruzione, ma anche normativa di vita e dunque "legge" - in senso lato. E' dunque con grande circospezione critica ed ermeneutica che possiamo trattare della Bibbia ebraica - il Tanakh come fonte del pensiero ebraico antico, consapevoli che i contenuti teologici e non solo le forme letterarie del Tanakh, non sono che il risulatato di un evoluzione concettuale durata secoli e assestatasi probabilmente attorno al IV-II secolo avanti l'era volgare (a.C.), come "storia sacra" o meglio "storiosofia",letteratura religiosa e sapienziale di origini (soprattutto miti fondativi, exempla morali, rivendicazioni
    territoriali e genealogie regali) necessarie a dare legittimita' teologica e coesione politica e sociale a un determinato assetto istituzionale e religioso.
    Cio' premesso, non e' illegittimo o metodologicamente sbagliato tentare di enucleare alcune idee teologiche in quelle fonti scritturali ed analizzarle in se stesse, oltre che nella loro supposta evoluzione.

    A partire dall'idea monoteista che Dio sia uno e assoluto, santo e giusto - spiegata attraverso la saga di Abramo che esce da Ur e viaggia verso la terra promessa;
    l'idea della rivelazione e della profezia, che inizia "privatamente" sempre con Abramo, e poi con Mose', e si compie "pubblicamente" con gli eventi del Sinai;
    l'idea che il mondo sia il prodotto di una creazione divina e che esista una trascendenza al mondo stesso;
    l'idea che l'uomo sia a sua volta una creatura, che possa commettere una colpa a motivo della trasgressione di un comando divino, a cui segue una punizione;
    l'idea che le colpe umane siano espiabili attraverso i sacrifici animali; e via elencando.

    Sono tutte idee squisitamente teologiche, che innervano la tradizione occidentale in modo così pervasivo e storicamente consolidato che quasi fatichiamo a prenderne distanza critica onde coglierle appunto come idee e che hanno avuto un 'origine e uno sviluppo ben determinato e che possano essere studiate non diversamente da come si studia il mito platonico della caverna o la dottrina etica di Aristotele"
     
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    E qualcosa che ho trovato su moked.it:

    Esiste una teologia ebraica? Troppo spesso si sente dire che l’ebraismo è una ortoprassi, che l’ebraismo non ha dogmi di fede, che l’ebraismo non ha una teologia sviluppata. Ma è proprio vero?
    Questa idea, assai diffusa, ha una origine filosofica ben precisa: Spinoza, Mendelson, la Askalah, la Riforma. Troppo spesso si confonde l’osservanza della Torah con il comportamentismo religioso. L’idea del giudaismo senza dogmi di fede, finalizzata allo svuotamento spirituale dell’osservanza (cambiando il concetto di ‘rivelazione’ della Torah orale), non vuole tenere conto del fatto che la tradizione insegna a priori molte verità di fede di carattere perfettamente teologico (senza arrivare ai 13 principi di Rambam): D-o è Uno ed è Creatore e D-o della Storia; D-o ha rivelato là Torah scritta e orale che contiene la sua volontà (il patto con i Beneh Noach e il patto con Israele). Queste verità di fede non sono affermazioni folcloristiche di una tradizione antica, ma interpretazioni religiose fondamentali per ogni ebreo e devono essere considerati come teologia. Il fatto che si possa essere “halachikamente ebrei” (cioè figli di madre ebrea) pur non essendo credenti, non implica affatto che L’ebraismo non abbia a priori dei presupposti di fede, dei principi teologici fondamentali.

    Rav Paolo Mordechay Hirsch ben David Sciunnach.
     
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