I Falascia

Che storia quella degli ebrei d’Etiopia! Una storia che ci dice tanto sulle minacce che oggigiorno pesano sulle lingue, le culture, le civiltà quando esse non sono collegate a una comunità-madre, capace di prendersi cura di loro. Poiché, come tante altre entità europee, africane, amerindie, dell’India o dell’Oceania, sarebbero scomparsi senza lasciare tracce se altre comunità ebraiche non si fossero occupate di loro.
Quelli che l’Occidente chiama falashà (‘stranieri’ in guez, la lingua liturgica dei cristiani etiopi) chiamano se stessi, in ebraico, i “Beta Israel” (‘Casa di Israele’). La loro esistenza è un enigma storico. Vivono da almeno tremila anni in Etiopia. Alcuni li dicono discendenti degli ebrei che rifiutarono di lasciare l’Egitto con Mosè; essi stessi si dicono compagni di viaggio di Menelik, ipotetico figlio del re Salomone e della regina di Saba e primo re di Abissina. Altri ancora li ritengono membri della tribù di Dan, una delle “dieci tribù perdute” che nel 722 a.e.v. gli assiri deportarono dalla Samaria; o dagli ebrei deportati da Gerusalemme nel 587 a.e.v. dai babilonesi. Altri ancora li considerano discendenti delle più recenti comunità ebraiche dell’Egitto, o anche di certi cristiani che riconoscono come testo sacro solo il Pentateuco, come fanno oggigiorno anche alcuni cristiani russi e americani.
Di fatto, la presenza di ebrei in questa regione è attestata nel secolo IV della nostra era, al momento stesso in cui vi appare con certezza il primo regno cristiano d’Africa. Un testo etiope del XIII secolo menziona ancora la presenza, nel nord del paese, di una «comunità ebraica governata da una regina ebrea chiamata Yodit». Poi un leggero slittamento: nel XIV secolo gli archivi reali rendono conto di una battaglia, nel nord del paese, contro dei «rinnegati che sono come degli ebrei»: essi sono ora soltanto «come degli ebrei». All’inizio del XV secolo, il re etiope (sempre cristiano), il Negus Yeshaq I, decreta che «chi non è battezzato nella religione cristiana non può ereditare la terra dei suoi antenati e diventa un falasi» (cioè uno straniero
Nel XVI secolo l’ebraismo mondiale comincia a interrogarsi su queste comunità ebraiche abissine che attirano ancora qualche raro mercante. Un rabbino egiziano, David ben Zimra, li riconosce come ebrei membri della tribù di Dan, scomparsa a Ninive ventitré secoli prima. Nel 1624 l’ultimo di questi principati è sconfitto dall’esercito del sovrano etiope sostenuto dai portoghesi; i loro libri sacri (delle Torah scritte in guez) sono distrutti. È la fine dell’ultima entità ebraica ancora indipendente in tutto il mondo.
Nel 1769 un esploratore inglese alla ricerca delle sorgenti del Nilo descrive quel che ne resta: circa centomila persone, gli uomini impiegati come fabbri, le donne come vasaie, considerati tutti stregoni e accusati di portare sfortuna.
Nel 1867 l’Alleanza Israelitica Universale (che è stata appena fondata a Parigi in seguito al massacro della comunità ebraica di Damasco e della forzata conversione al cristianesimo di un bambino ebreo allevato a Bologna nel 1858, Edgardo Mortara) apprende che dei missionari protestanti inglesi specializzati nella conversione degli ebrei hanno avvicinato i falashà. L’Alleanza invia una missione che scopre che questi “Beta Israel” leggono, in guez, il Pentateuco e alcuni altri libri della letteratura biblica, detti “Apocrifi” (come quelli di Judith, dei Maccabei e i Giubilei); che osservano lo shabbat e rispettano le regole della kosherut; che festeggiano l’anno nuovo a Rosh ha-Shanà; che sacrificano un agnello e mangiano pane azzimo a Pasqua; che digiunano a Kippur. Ma non conoscono alcuna festa successiva all’esilio a Ninive, come Purim o Chanukkà, e neanche conoscono il Talmud. Non usano la stella di David, che i re cristiani, i quali si dichiarano discendenti di Salomone, hanno preso come loro simbolo. I falashà accolgono facilmente i loro vicini nella propria fede e si mischiano a loro: non sono diversi, fisicamente, dagli altri etiopi; si considerano “rossi” e designano come “neri” alcuni di loro, i “Baryas”, schiavi ereditati, nelle famiglie “rosse”, da una generazione all’altra; altri ancora, i falashà Mura, convertiti a forza al cristianesimo, sono talvolta ancora ebrei in segreto. Dodici anni prima della fondazione del movimento sionista, il rapporto dell’Alleanza Israelitica propone di «ricondurre in Palestina migliaia di coloni falashà»; ma essa non trova i mezzi e, tra il 1888 e il 1892, spaventose carestie fanno sparire due terzi di quelle comunità.
Nel 1904 una nuova missione dell’Alleanza, proveniente dalla Francia, fa un giro di quei villaggi affamati, poi, ritornata in Europa, raccoglie fondi per impiantare scuole ebraiche in Etiopia. Nel 1921 un influentissimo rabbino palestinese, Rav Kook, li riconosce come ebrei. Nel 1945 alcune donne falashà, avendo sposato soldati ebrei yemeniti dell’esercito inglese, si trasferiscono in Palestina con loro. Ma il primo governo di Israele non li riconosce come ebrei, a differenza di due altri gruppi venuti anch’essi dalla notte dei tempi e riconosciuti, stavolta loro malgrado, ebrei: i samaritani (ultimi discendenti degli abitanti del regno di Israele sorto 2800 anni prima) e i karaiti (che rifiutano tutti i testi scritti negli ultimi ventiquattro secoli, tra cui il Talmud).
Gli ultimi falashà sarebbero sicuramente scomparsi mescolandosi al resto della società etiope e morendo con gli altri rifugiati affamati se non fossero stati riconosciuti, nel 1973, come ebrei discendenti dalla tribù di Dan dal gran rabbino sefardita Ovadia Yossef, che faceva riferimento alla decisione del rabbino egiziano del XVI secolo; due anni dopo il gran rabbino ashkenazita Chomo Goren si allinea a questa decisione.
Era ora: si scatena una grande carestia ed essi sono soltanto quarantamila quando, nel 1984, il governo israeliano, aiutato dagli americani, dà il via all’”operazione Mosè”, che evacua seimilacinquecento falashà d’Etiopia, recuperati nei campi delle ONG; poi l’”operazione regina di Saba”, che ne cerca altri seicentocinquanta nel Sudan. Nel 1990 ancora altri seimila sono evacuati verso Israele. Nel 1991, dopo la dissoluzione del regime comunista etiope, gli ultimi quindicimila falashà, rifugiati ad Addis Abeba, sono evacuati in due giorni per mezzo del ponte aereo dell’”operazione Salomone”.
Oggi vivono in Israele ottantamila persone di origine etiope, di cui trentamila sono nate nel paese; il 90 per cento degli adulti oltre i trentacinque anni che appartengono a questa comunità è rimasto analfabeta. Un terzo soltanto di ogni generazione di giovani falashà entra all’università, il che costituisce la percentuale più bassa, in Israele.
Non avendo avuto la stessa opportunità, poiché nessuno Stato era allora là per soccorrerle, altre comunità ebraiche sono scomparse nel corso dei secoli: prima quelle di Ninive, ventisette secoli fa, poi quella dei cazari nell’XI secolo, forse partita verso la Polonia, così come alcune comunità disperse in Cina e in India.
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Quindi i samaritani oggi sono riconosciuti come "ebrei"?
E dallo stesso ragionamento possiamo derivare il fatto che se un Falascia fosse arrivato a Gerusalemme mettiamo nel 40 e.v. egli sarebbe considerato come all'epoca erano considerati i samaritani cioè idolatri?

Grazie ancora per le precedenti risposte che sono state già di loro esistive sui Falascia