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_____Un Rabbino Parla con Gesù_____
In questo libro spiegherò in modo franco e privo di argomenti
apologetici perché, se fossi vissuto nella Terra
d’Israele durante il primo secolo, non mi sarei unito ai
discepoli di Gesù.
Avrei di certo dissentito - spero in maniera corretta -
discutendo, adducendo delle ragioni concrete e dei dati
di fatto.
Se avessi ascoltato ciò che egli disse nel “Discorso
della Montagna”, per buone e sostanziali ragioni, non lo
avrei seguito.
Questo è difficilmente immaginabile per la gente, poiché
è arduo pensare a parole più profondamente radicate
nella nostra civiltà e a principi più elevati di quelli contenuti
nel “Discorso della Montagna” e negli altri insegnamenti
di Gesù. Ma è anche difficile immaginare, allora,
di ascoltare queste parole per la prima volta, come qualcosa
di sorprendente e di imperioso, non come meri stereotipi
culturali. Questo è precisamente ciò che mi propongo
in questa sede: ascoltare e discutere.
Ho scritto questo libro per fare luce sul perché, mentre
i cristiani credono in Gesù Cristo e nella buona novella
della sua signoria nel regno dei cieli, gli ebrei credono
Un Rabbino Parla con Gesù
nella Torah di Mosè e costituiscono, in terra e nella propria
carne, un regno di sacerdoti di Dio e un popolo santo.
E questa fede esige dall’ebreo osservante di dissentire
dagli insegnamenti di Gesù, poiché questi insegnamenti
contraddicono la Torah in punti cruciali. Laddove Gesù
diverge da quanto Dio rivelò a Mosè sul monte Sinai,
egli sbaglia e Mosè ha ragione. Esponendo le ragioni di
questo franco dissenso, intendo rafforzare il dialogo religioso
fra credenti, ebrei e cristiani.
Per molto tempo gli ebrei hanno lodato Gesù come un
rabbino, un ebreo simile a loro, ma questa affermazione
è del tutto irrilevante per la fede cristiana. Da parte loro i
cristiani hanno lodato l’ebraismo poiché era la religione
dalla quale proveniva Gesù, ma questo non rappresenta
per noi ebrei un complimento.
Ebrei e cristiani hanno evitato in passato di affrontare
francamente i punti di sostanziale divergenza fra di loro,
non soltanto riguardo alla persona e alle rivendicazioni
di Gesù, ma soprattutto in queste pagine, discutendo i
suoi insegnamenti. Egli pretese di riformare e migliorare:
«Voi avete sentito dire... ma io vi dico...». Noi ebrei affermiamo,
e io qui lo sostengo, che la Torah1 era ed è
perfetta e non suscettibile di miglioramenti e che l’ebraismo
- basato sulla Torah, sui Profeti e sugli Scritti2, sulla
legge orale contenuta nella Mishnah3, nel Talmud4, nel
1 Abbiamo deciso di non tradurre Torah, dal momento che questo termine
indica sia la Legge mosaica, contenuta nel Pentateuco, sia la Legge orale che
sarebbe stata rivelata, secondo la tradizione, a Mosè sul Sinai. Il termine
“Legge” sembrava, dunque, troppo riduttivo (N.d.C.).
2 Torah, Profeti, Scritti rappresentano le tre sezioni in cui si divide la Bibbia
ebraica.
3 Mishnah, in ebraico “ripetizione” e, in senso traslato, “studio”: è una
raccolta di sessantatré trattati, divisi in sei ordini, che rappresenta un compendio
della Legge orale. La tradizione ne fa risalire la redazione a Giuda il
Patriarca, verso il 200 d.C. (N.d.C.).
4 Talmud, in ebraico “studio”: è un commento alla Mishnah. Ci è giunto
10
Midrash5 - era ed è ciò che Dio desidera per l’umanità.
Alla luce di questo criterio intendo illustrare il mio dissenso
di ebreo su alcuni punti importanti degli insegnamenti
di Gesù. Si tratta di un gesto di rispetto per i cristiani
e di onore per la loro fede. Infatti noi possiamo
discutere solo se ci prendiamo reciprocamente sul serio.
Ma noi possiamo instaurare un dialogo solo se ci rispettiamo
reciprocamente. In queste pagine io tratto Gesù
con rispetto, ma nondimeno voglio discutere con lui sulle
cose che egli dice.
Che cosa c ’è in gioco qui? Se avrò successo, i cristiani
troveranno un’occasione di rinnovamento per la loro fede,
ma rispetteranno pure l’ebraismo. Intendo spiegare ai
cristiani perché io credo nell’ebraismo e ciò deve aiutarli
a riconoscere i motivi fondamentali che li conducono in
chiesa ogni domenica. Gli ebrei, dal canto loro, rafforzeranno
il proprio attaccamento alla Torah di Mosè, ma rispetteranno
anche il cristianesimo. Voglio che gli ebrei
comprendano perché l’ebraismo esige il consenso: «il
Misericordioso cerca il cuore», «la Torah fu data soltanto
per purificare il cuore umano». Tanto gli ebrei quanto i
cristiani dovrebbero trovare in queste pagine delle ragioni
per sentirsi rafforzati nella propria fede, perché ciascuna
delle due parti troverà qui soprattutto i punti nei
quali risiede la differenza fra ebraismo e cristianesimo.
Che cosa mi rende così sicuro di questo successo?
Credo che, quando ciascuna delle due parti comprende
in due redazioni databili verso il v i i secolo d.C.: il Talmud Babilonese, proveniente
dalle accademie rabbiniche di Babilonia, e il Talmud Palestinese,
composto invece nelle accademie rabbiniche di Palestina. Esso consiste di
materiali giuridici, aneddotici, storici che commentano e interpretano sia la
Legge mosaica, sia la Mishnah (N.d.C.).
5 Midrashim, dall’ebraico darash, “cercare”, costituiscono dei commenti
ai testi biblici, di carattere legale o letterario, che attualizzano il testo biblico
(N.d.C.).
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allo stesso modo i problemi che la dividono dall’altra ed
entrambe sostengono con fondate ragioni le loro verità,
allora tutti possono amare e venerare Dio in pace, consci
che è davvero l’unico e il solo Dio che essi venerano insieme,
nella differenza. Così questo è un libro religioso
sulla differenza religiosa: una discussione su Dio.
Intendo aiutare i cristiani a diventare cristiani migliori,
perché possano giungere, attraverso queste pagine, a una
più chiara percezione di ciò che essi affermano nella loro
fede; e voglio aiutare gli ebrei a diventare ebrei migliori,
perché essi comprenderanno qui - così io spero - che la
Torah di Dio è la Via (non solo la nostra Via, ma la Via)
per amare e servire l’unico Dio, Creatore del cielo e della
terra, che ci ha chiamato a servire e a santificare il Nome
di Dio. Il mio ragionamento è semplice.
Secondo la verità della Torah, molto di ciò che Gesù
ha detto è sbagliato. Secondo il criterio della Torah, la
religione di Israele all’epoca di Gesù era autentica e del
tutto degna di fede: essa non aveva bisogno di riforme né
di rinnovamento, ma esigeva fede e fiducia in Dio da
parte dei credenti, ai quali si chiedeva di santificare la
propria vita mettendo in pratica la volontà di Dio.
Non propongo affatto che i cristiani, dopo aver letto il
mio libro, riconsiderino le loro convinzioni sul cristianesimo.
La fede cristiana trova un’infinità di ragioni per
credere in Gesù Cristo (non semplicemente il fatto che
Gesù era ed è il Cristo); tutto ciò che io obietto è: forse è
davvero così, ma non per il fatto che egli completò o rafforzò
la Torah o le si uniformò; neanche perché la migliorò.
La fede cristiana non si è mai preoccupata, tuttavia,
della propria autonomia: essa non è, in realtà, semplice
continuazione o riforma di una fede più antica, vale
a dire l’ebraismo (visto sempre come corrotto, venale o
senza speranza), ma rappresenta un nuovo inizio. Così
questo problema - posto su un livello ben delimitato -
non dovrebbe turbare il fedele. Né lo vorrei. Ma se i cristiani
prendono sul serio l’affermazione che il criterio di
Matteo è valido - «non per distruggere, ma per dare
compimento» - allora penso che debbano proprio riconsiderare
la Torah, vale a dire l’ebraismo nel linguaggio
corrente. Il Sinai chiama, la Torah ci dice come Dio vuole
che noi siamo.
Intendo riprendere, allora, la posizione degli apologisti
ebraici che consiste nell’affermazione piuttosto abusata,
sì al Gesù storico, no al Cristo del cristianesimo? Non
pochi apologisti dell’ebraismo (inclusi gli apologisti cristiani
dell’ebraismo) distinguono, infatti, fra il Gesù che
visse ed insegnò - che essi onorano e stimano - e il Cristo
che la Chiesa (così essi dicono) avrebbe inventato.
Essi sostengono che fu l’apostolo Paolo ad inventare il
cristianesimo. Da parte sua Gesù insegnò soltanto la verità
che, come credenti neh’ebraismo, noi possiamo sostenere.
In queste pagine io seguirò tuttavia una strada
diversa. Non mi interessa ciò che accadde più tardi. Voglio
sapere come avrei reagito io se mi fossi trovato ai
piedi della montagna dalla quale Gesù pronunciò le parole
che furono chiamate il “Discorso della Montagna”.
Il mio dissenso non è diretto, perciò, contro il cristianesimo
in tutte le sue forme e versioni, né contro l’apostolo
Paolo e nemmeno contro il complesso ed enorme “Corpo
di Cristo” che la Chiesa era e sarebbe diventata. E non
intendo giustificare un certo ebraismo concentrato sulla
negazione “perché non Cristo?”. L’ebraismo non deve
spiegare sempre “perché no?”, dal momento che il messaggio
della Torah illustra sempre il motivo di ogni precetto.
L’ebraismo in tutte le sue complesse forme è altra
cosa rispetto al cristianesimo senza Cristo: è l’Antico Testamento
senza il Nuovo, in termini di Scritture rivelate,
l’ebraismo è semplicemente un’altra religione, non soltanto
un non-cristianesimo; e non è qui in discussione
l’ebraismo contro il cristianesimo, tanto meno Gesù contro
Cristo (per dirla con una formula così strettamente
storico-biografica da essere irrilevante, a mio avviso, per
la discussione).
Questo non è un libro di erudizione. Esaminerò solo un
aspetto di ciò che Gesù disse, quello trasmessoci dal Vangelo
secondo Matteo. Per ragioni che saranno spiegate
nella discussione seguente, ho scelto questo Vangelo
perché particolarmente adatto per il dialogo con la Torah
o ebraismo. Il Gesù con il quale immagino di discutere
non è il Gesù storico nato dall’immaginazione attenta di
uno studioso, e questo per una semplice ragione: queste
figure storiche create a tavolino sono troppe e troppo diverse
per un dibattito. Inoltre, non vedo come persone
religiose possano dissentire su argomenti che esse incontrano
soltanto nelle opere erudite. Quando gli ebrei aprono
il Nuovo Testamento, essi ritengono di ascoltare il
Gesù Cristo del cristianesimo e quando i cristiani aprono
10 stesso libro, essi sono sicuramente dello stesso avviso.
Ciò non significa che il Gesù storico non sia presente
dentro e oltre i Vangeli; si vuole solo affermare che i
Vangeli, così come li leggiamo, descrivono Gesù ai molti
di noi che vogliono conoscerlo. Scrivo per i cristiani credenti
e per gli ebrei osservanti; essi conoscono Gesù attraverso
i Vangeli. Ho scelto uno di questi Vangeli.
Dal momento che possediamo nel I secolo una varietà
di ritratti di Gesù: chi era, che cosa disse e fece e perché
è importante, lasciatemi spiegare perché ho scelto di discutere
con il Gesù di Matteo, sebbene disponessimo per
11 primo secolo di immagini differenti di Gesù, della sua
persona, delle sue parole e delle sue azioni, della sua importanza.
Ho deciso di discutere con questo particolare
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Gesù, cioè con la rappresentazione di Gesù esposta nel
Vangelo di san Matteo (usando la terminologia cristiana),
perché il Vangelo secondo Matteo è, per consenso
unanime, il più “ebraico” dei Vangeli, visto l’accento che
pone su problemi di particolare interesse per la Torah e
per il popolo di Israele al quale Gesù parlò.
Matteo parla proprio a noi, perché noi, Israele, siamo
coloro per i quali il problema della Torah ha la precedenza,
quelli per i quali risuona l’affermazione: «Non pensiate
che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti;
non son venuto per abolire, ma per dare compimento. In
verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra,
non passerà dalla Legge neppure un iota o un segno,
senza che tutto sia compiuto. Chi dunque trasgredirà
uno solo di questi precetti anche minimi ed insegnerà
agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo
nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà
agli uomini, sarà considerato grande nel regno dei cieli
». Dall’ebraismo, a questo io replico: «Amen, fratello».
Io credo a questo, proprio come voi, con tutto il mio cuore,
con tutta la mia anima e tutte le mie forze. Il Gesù di
Matteo si avvicina alla descrizione di Gesù che un ebreo
credente e osservante potrebbe comprendere in termini
di ebraismo. E Matteo descrive Gesù come un ebreo fra
altri ebrei, come un israelita a suo agio in Israele, ben diverso,
per esempio, dal ritratto del Vangelo di Giovanni
che parla con odio dei “Giudei”.
Che cosa rende credibile la discussione e perché proprio
adesso?
Una discussione con il Gesù di Matteo è credibile perché,
avendo davvero in comune la Torah, noi possiamo
essere ben d’accordo sul punto principale e possiamo
dissentire sul resto.
Di contro, c’è una fondata ragione che non mi permet-
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te di essere d’accordo con il Gesù di Giovanni o con
quello di Luca o di Marco. Giovanni e di conseguenza il
suo Gesù detesta i “Giudei” e tanto basta. I Gesù di Marco
e di Luca che hanno, in verità, molto in comune con
quello di Matteo non sono dei personaggi che evocano il
legame “ebraico”.
Scritto probabilmente fra il 50 e il 75 d.C., fuori dalla
terra di Israele, il Vangelo secondo san Matteo, nato da
una scuola o da una Chiesa che trasmise i suoi scritti sotto
il nome di Matteo, narra di eventi della vita, degli insegnamenti
e dei miracoli, della morte e della risurrezione
di Gesù di Nazaret. Fra questi argomenti uno è particolarmente
importante: la rappresentazione di Gesù come
un maestro, il cui importante messaggio costituisce
parte della prova che egli è il Cristo, nel quale Israele dovrebbe
credere.
In maniera assai più pertinente il messaggio, e non solo
la vita e i miracoli, costituisce una parte importante
delle credenziali del Gesù di Matteo, mentre manca nelle
lettere paoline. Ciò che Gesù dice rappresenta per Matteo
una testimonianza, sia pur parziale, delle sue pretese.
Noi, l’Eterno Israele, al quale Gesù fu mandato da Dio e
al quale Gesù portò il suo messaggio, dovremmo essere
persuasi dal carattere di questi insegnamenti, rappresentati
in realtà come l’adempiersi della Torah. Di conseguenza,
fra le molte rappresentazioni della figura di Cristo,
questa storia mette l’accento non solo sulla sua morte
e sulla sua risurrezione, ma anche sulle sue azioni e
sulle sue parole: miracoli, istruzioni, parabole.
Matteo afferma per conto di Gesù che il suo è un insieme
di insegnamenti che contiene verità così ovvie che
tutti quelli che le ascoltano debbono confessare il nome
di chi le ha dette: Gesù Cristo. Se questi insegnamenti
nel pensiero del Gesù di Matteo non occupano una parte
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centrale di quello che Gesù vuol dire, allora perché narrarci,
oltre a quello che lui fece e quello che Dio fece di
lui, quello che disse? Se, dopo tutto, questa non è la pretesa
dell’Evangelista, allora dalla prospettiva della fede,
nessuna ragione stringente richiedeva di mettere per
iscritto un resoconto così ricco e dettagliato del messaggio
del maestro. In risposta al messaggio del Gesù di
Matteo, un ebreo praticante come me - sto parlando naturalmente
solo per me stesso - ma ben dentro la fede di
Israele, può intavolare una discussione. Perché è possibile
intavolare una discussione con i detti, ma non con i
racconti? Se qualcuno afferma categoricamente di fare
questo e non quello, se ne può discutere. Ma come si può
discutere con un miracolo? Puoi crederci o meno. Se ci
credi, ne trarrai sul serio quelle conseguenze che la fede
esige oppure ne trarrai delle altre. Ma i miracoli valgono
solo per i fedeli. Nessun essere umano, e certamente nessun
ebreo che appartiene a una tradizione secondo la
quale Dio preferisce il perseguitato al persecutore - cioè
l’agnello, la pecora, la capra al leone o all’orso -, vorrebbe
dissentire con il racconto tragico e sconvolgente
della Passione.
Né posso concepire una discussione con le lacrime di
una madre o con una tomba vuota. Anche fra i detti che
Matteo attribuisce a Gesù, molte cose espongono semplicemente
alcuni ben noti insegnamenti della Torah di Mosè,
come per esempio, la ben nota parafrasi di Levitico
19,18: «Ama il tuo prossimo come te stesso». Nessun
ebreo osservante vorrebbe discutere con questi e altri
buoni insegnamenti della Torah. Molto di quanto viene
esposto ad adempimento della Torah, viola in effetti l’insegnamento
e la volontà della Torah oppure offre un
messaggio religioso inferiore a quello della Torah nella
lettura di Israele. Una discussione sul complesso di inse-
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gnamenti per il quale valgono i giudizi succitati è proprio
quello che offro in queste pagine.
Mi sembra che un dialogo fra ebraismo e cristianesimo
possa cominciare al meglio col Vangelo di Matteo, anche
se io non affermo nulla sulla veridicità storica di quello
che Gesù fece e disse secondo Matteo. Questo è un problema
che affrontano gli studiosi. Ma io scrivo da ebreo
religioso per cristiani credenti e quello che io conosco
come fede cristiana contiene il racconto che Matteo fa di
Gesù. I cristiani con i quali voglio condurre una conversazione
non sono solo quelli che si definiscono “credenti
della Bibbia” (definiti da altri “fondamentalisti”) e che
accettano ogni parola così come è scritta, ma ogni cristiano
che ritrova Gesù (anche) nel Vangelo di Matteo.
Ci sono nel mondo milioni e milioni di cristiani che ritrovano
realmente Gesù nel Vangelo di Matteo e che saranno
disposti ad ascoltare il punto di vista ebraico rispetto
al Gesù presentato dal Vangelo di Matteo, che
vuole discutere, come vedremo, sulle verità fondamentali
della Torah e di Cristo.
Insisto sul fatto che dobbiamo incontrare il Gesù di
Matteo sul suo stesso terreno, considerando come fatti
concreti le cose che, secondo Matteo, egli disse. Io prendo
sul serio questo Vangelo. Per apprezzare questo mio
sforzo nel dialogo religioso, secondo uno spirito religioso,
incentrato su problemi religiosi, i lettori che hanno
avuto una formazione universitaria o teologica e che
hanno le loro idee su quanto Gesù disse o fece, dovranno
tacitare i propri dubbi. Gli altri, lo spero, mi seguiranno.
Affronto adesso il problema principale: perché prendere
sul serio i Vangeli allo scopo di un dialogo religioso?
Quando i fedeli nelle moschee, nelle sinagoghe e nelle
chiese, si occupano dei rispettivi libri sacri, vi trovano
quello che Dio disse a Maometto o a Mosè oppure a Ge18
sù, cioè storie vere e concrete su quanto i fondatori dell’Islam,
dell’ebraismo, del cristianesimo hanno detto e
fatto. Quando gli studiosi dell’Islam o dell’ebraismo o
del cristianesimo, leggono gli stessi libri, una buona parte
di essi li considera non come la parola di Dio, ma come
prove di quello che l’umanità ha scritto in nome di
Dio. Nel caso dei Vangeli, quindi, l’assemblea dei fedeli
nelle chiese legge le parole che secondo loro Gesù disse,
i racconti di ciò che fece, mentre gli studiosi nelle università
e nei seminari cristiani trovano nei Vangeli la prova
che - se correttamente interpretata - può parlarci delle
cose che Gesù disse o fece “realmente”. Ne consegue
che c ’è una notevole differenza fra la ricezione della
Scrittura da parte dei fedeli, per i quali è parola di Dio, e
la lettura della stessa Scrittura da parte degli studiosi, che
la considerano la semplice prova di quello che può essere
stato detto o non detto.
Questa differenza conta quando affrontiamo le affermazioni
della fede e quando conduciamo una discussione
sulla loro verità. Il credente cristiano indica l’uomo e
le sue parole: ecco Gesù ed ecco il Vangelo che parla di
lui. L’altro allora, proponendosi di prendere sul serio la
fede cristiana nei suoi enunciati, può articolare una risposta:
ecco quello che io voglio dire in risposta a quello
che lui è e a che cosa ha detto.
Ma come possiamo discutere non tanto col Gesù del
Vangelo, quanto piuttosto con le teorie degli studiosi sull’uomo,
la sua vita, i suoi insegnamenti? Essendo diversi
i pareri degli studiosi, la prima sfida è identificare il Gesù
con il quale vogliamo discutere. La seconda sfida riguarda
il superamento della differenza, importante per
gli studiosi, ma non per la maggioranza dei fedeli, fra il
Gesù della storia (cioè la formula degli studiosi) e il Cristo
della fede. A questo punto, allontanandoci dal rac-
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conto di un singolo Vangelo su Gesù Cristo e rivolgendo
la nostra attenzione alle ricostruzioni degli storici intorno
a quello che, fra i racconti dei Vangeli, dovremmo pensare
che Gesù disse e fece realmente, noi tradiamo completamente
il fedele. Noi discutiamo più con il Gesù di
qualcun altro che con il Gesù dei cristiani i quali trovano
nei Vangeli la persona di Gesù Cristo, Dio incarnato. Come
possono, dunque, delle persone religiose - musulmani,
cristiani o ebrei - discutere coerentemente fra loro?
Aderendo con fede sincera ad una religione, il credente
trova necessario confrontarsi non con la fede di un fedele,
ma con il composito racconto creato su basi assai
diverse da quelle della fede religiosa.
Quando un non cristiano propone, come faccio in questo
libro, di intavolare una discussione con Gesù, si trova
di fronte alla seguente scelta: con quale Gesù? Con il
Gesù che gli studiosi mi dicono (proprio questa mattina)
che visse ed agì realmente, che disse questa cosa (ma
non quella), che fece questa cosa (ma non l’altra)? Oppure
con il Gesù che i cristiani credono essere il figlio di
Dio, che insegnò e fece miracoli, che fu processato dal
sinedrio, condannato da Ponzio Pilato e crocifisso dai romani
e che risuscitò dai morti e che siede alla destra di
Dio? Posta in questi termini, la risposta è ovvia.
Spiegando perché io mi propongo di condurre un dialogo
religioso sulla base di uno dei Vangeli e non del racconto
degli studiosi sul Gesù storico, sono andato ben oltre
il mio racconto. Permettetemi di citare nuovamente
che cosa c’è in gioco in questo lavoro di carattere religioso
che, se avrò successo, renderà migliori sia i cristiani
sia gli ebrei e pur sottolineando le differenze, aprirà
una nuova era di dialogo religioso per un futuro di pace.
Una seconda domanda attende una risposta: perché ho
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scritto questo libro? L’ho scritto perché mi piacciono i
cristiani e perché rispetto il cristianesimo e volevo prendere
sul serio la fede di persone che stimo. Non posso
immaginare che un ebreo, cresciuto in un paese islamico,
potrebbe scrivere un libro simile su Maometto (e sopravvivere
molto a lungo alla sua pubblicazione). Ma la vita
in un paese cristiano, abitato da cattolici, da protestanti e
da ortodossi, mi ha reso orgoglioso dell’ebraismo e felice
di essere quello che sono, ma al tempo stesso mi ha
reso felice di avere per amici e vicini i fedeli di una religione
che promuove la buona volontà verso il prossimo
ed è interessata davvero all’esistenza di buone relazioni
con persone di religioni diverse.
Permettetemi di rendere omaggio a coloro che modellarono
le loro vite sull’insegnamento di Gesù, o almeno
ci provarono. Sono cresciuto nella città di West Hartford,
nello stato del Connecticut, ebreo riformato in un quartiere
abitato in maggioranza da protestanti. All’asilo c ’erano,
su trenta persone, solo altri tre bambini ebrei; non
molti di più erano i cattolici e a quell’epoca non c’erano
bambini neri. Quello che ricordo di un periodo in cui festeggiavamo
il Natale a scuola e Hanukkah a casa era la
buona accoglienza e il rispetto dei miei amici cristiani
verso di me. Fu davvero un brutto colpo scoprire, in terza
elementare, che i padri pellegrini - le figure dei quali
stavamo disegnando per la festa del Ringraziamento -
non andavano in sinagoga, ma in chiesa e non riuscii a
convincere Miss Melcher che essi frequentavano la mia
stessa sinagoga sulla Farmington Avenue.
Mi ricordo anche che la signora O’Brien, la madre di
Billy - il mio migliore amico -, voleva darmi in occasione
della Pasqua dei crackers, perché sapeva che noi ebrei,
quella settimana, non potevamo mangiare il pane lievitato.
Mi ricordo ancora che mia sorella impersonava, quasi
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sempre, nelle nostre recite la Vergine Maria e che i nostri
insegnanti volevano essere certi che noi ci sentissimo a
nostro agio. Ma mi ricordo anche di quando, in seconda
media, per la prima volta, la nostra scuola celebrò sia la
festa di Hanukkah, sia il Natale. West Hartford pensò di
aver fatto un bel passo in avanti quell’anno e così pensai
anch’io. Nel mondo che io ricordo il cristianesimo era
buono, amichevole, accogliente; l’ebraismo era accettato,
io non conobbi mai, né allora né dopo, il volto terribile
che il cristianesimo, in altri tempi, in altri luoghi e anche
alla mia epoca, aveva mostrato al mondo. Sono cresciuto
in un mondo che io ricordo come benevolo.
Dal momento che in quegli stessi anni, milioni di ebrei
venivano assassinati in Europa e l’antisemitismo fioriva
in tutto il mondo - compresi il mio stesso stato e la mia
stessa città - non do per scontata la normalità con la quale
sperimentai l’essere ebreo in un mondo in gran parte
protestante. E un mondo che io rispetto e ammiro, nel
quale scorgo delle virtù.
E non basta; la mia vita professionale di studioso dell’ebraismo,
aH’interno del mondo universitario dello studio
della Religione, si è svolta perché i protestanti e i
cattolici volevano che l’ebraismo venisse insegnato nelle
università e fecero sì che potessi realizzare il mio impegno
e la mia vocazione a insegnare. 11 mio sogno di studiare
l’ebraismo nell’ambiente universitario si concretizzò
in risposta ai miei insegnanti e poi ai colleghi, i quali
vollero che le cose che io stimavo fossero presenti in
quel centro vitale dell’insegnamento pubblico. Avevo desiderato,
per esempio, diventare rabbino (ovviamente
rabbino riformato per via della mia educazione). Quando
all’Università di Harvard spiegai al comitato che assegnava
una borsa di studio postuniversitaria, intitolata a
Henry, che volevo studiare all’Università di Oxford per
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migliorare la mia conoscenza della storia ebraica, fui
mandato là per un anno. Quando, più tardi, spiegai al comitato
del National Council fa r Religion in Higher Education
- che assegnava una borsa di studio postuniversitaria,
istituita da Charles Foster Kent, professore alla Facoltà
di Teologia dell’Università di Yale - che intendevo
laurearmi e fare il dottorato in storia delle religioni, specializzandomi
nello studio dell’ebraismo, il comitato mi
concesse una generosa borsa di studio e mi fece percorrere
la strada che avevo scelto. Questa è la storia della
mia vita: «Quella sarà la vostra saggezza e la vostra intelligenza
agli occhi dei popoli» (.Deuteronomio 4,6).
Quando mi recai alla Columbia University e all’Union
Theological Seminary per il dottorato, fui ben accolto,
fui trattato con gentilezza e mi fu offerta ogni possibilità.
Quando ebbi conseguito il dottorato, John Hutcheson, allora
presidente della Columbia University, mi invitò a insegnare
nella facoltà. Alcuni anni dopo, Fred Berthold,
presidente del Darmouth College, fece lo stesso. E in un
recente passato, Frank Borkowsky - cattolico romano e
presidente dell’University of South Florida, che dà inizio
al pranzo con una semplice preghiera alla quale tutti si
associano senza sentirsi imbarazzati - e alcuni professori
di fede metodista o battista, fecero causa comune per
portarmi e accogliermi in quella università, dove ho trovato
la mia casa.
La mia vita e la mia carriera, da allora ad oggi, si sono
svolte interamente all’interno della corrente principale
della vita intellettuale americana e la mia ambizione più
grande è stata quella di mettere la cultura dell’ebraismo a
disposizione del grande pubblico, poiché stimo la vita
del mio paese e voglio contribuire ad essa con quello che
stimo di più, sapendo che questo contributo è richiesto e
apprezzato. I colleghi a me più vicini, durante gli anni
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davvero belli trascorsi al Darmouth College e adesso all’University
of South Florida, sono cristiani osservanti
che professano grande stima per l’ebraismo. Ho avuto
moltissimi e svariati editori e li ringrazio tutti. Fra di loro,
però, le case editrici universitarie di orientamento cristiano
- Trinity Press International, Ausburg-Fortress,
Westminster-John Knox e Abington - occupano un posto
speciale nel mio cuore, perché hanno il grande vanto di
aver dato spazio all’ebraismo. Questo è lo spirito in cui
ho pensato questo e gli altri libri: restituire qualcosa. Il
cristianesimo - cattolico e protestante - ha fatto avanzare,
nella mia vita, persone, le cui convinzioni religiose le
hanno spinte a rispettare la mia religione e a volerla conoscere
meglio. L’unica maniera per ricambiare questo
atteggiamento era dimostrare un ragionevole interesse
per la loro religione e tentare di discutere con essa.
Poiché sono stato, così almeno credo, uno dei primi
studiosi dell’ebraismo, di origine ebraica e con una educazione
rabbinica, a svolgere la propria carriera in un
ambiente totalmente laico e a non esser mai stato pagato
da una istituzione ebraica (a parte i miei studi rabbinici),
mi si può comprendere quando affermo che le caratteristiche
di questo libro rispondono alle esperienze di una
lunga vita trascorsa - i sessantotto anni ormai si avvicinano,
mentre scrivo questa conclusione - nell’ambiente
universitario e religioso americano, che è in maggioranza
cristiano. Non stupisce, allora, né il fatto che io nutra
sentimenti di un pieno grande rispetto per il cristianesimo,
né che io abbia voluto spiegare in maniera ragionevole
proprio il punto in cui, a mio avviso, il cristianesimo,
a partire da Gesù (come è ritratto in uno dei Vangeli),
prese una direzione sbagliata abbandonando la Torah.
Che accadrà, dunque, se questo libro avrà successo,
cioè se il dialogo ebraico-cristiano diventerà sostanziale,
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rivolto ai problemi del vero e del falso, del giusto e dello
sbagliato, nel servizio di Dio? Quello che è in gioco è
compiere un primo passo nel definire un discorso di autonomia
dell’ebraismo. Per molto tempo, nei colloqui
ebraico-cristiani, l’ebraismo ha iniziato col difendere se
stesso, ma fino al Medioevo gli ebrei che partecipavano
al dialogo non affrontarono le convinzioni cristiane secondo
il loro punto di vista, non esposero le convinzioni
dell’ebraismo secondo il nostro punto di vista. Nel quadro
di questo libro voglio spiegare non solo perché non
sono cristiano, ma anche perché, a mio avviso, il cristianesimo
dovrebbe prendere sul serio, nella sua formazione,
le affermazioni che provengono dal Sinai. Questo libro
non vuole fare opera di proselitismo. Non l’ho scritto
per convincere i lettori cristiani a lasciare la Chiesa per
entrare nella sinagoga. Non si tratta di un opuscolo
ebraico, simile agli sgradevoli opuscoli cristiani che mi
arrivano ogni giorno per posta, chiedendomi di convertirmi
al cristianesimo.
Questo libro intende sfidare la fede cristiana, esponendo
i problemi che mi sembrano dividere in particolare
l’ebraismo e il cristianesimo e questa sfida ha in sé l’invito
a rispondere. Come ho detto nella prefazione, spero
e credo che i cristiani risponderanno riaffermando sinceramente
la propria fede, ben sapendo quali sono i problemi;
se io contribuirò a far vivere la vita cristiana in maniera
sincera e non come una mera abitudine, avrò servito
una buona causa.
Lo stesso vale per i miei compagni ebrei. A quelli che
immaginano un’esistenza laica per l ’Eterno Israele io
posso offrire solo la vita con il Dio che conosciamo nella
e attraverso la Torah. È tempo, a mio parere, di organizzare
per noi stessi un dialogo religioso in maniera libera
ed autonoma, secondo il linguaggio ed il contesto ameri-
25
cano, dove possiamo spiegarci reciprocamente, senza far
ricorso al fatto di essere una minoranza ebraica in un
mondo cristiano. Non intendo affatto affaticarmi ad
enunciare l’autonomia dell’ebraismo. Ho la sensazione
che i grandi teologi e filosofi ebrei vissuti in Europa nel
XX secolo stavano muovendosi nella direzione che io ho
seguito in queste pagine, verso una discussione in termini
ebraici con il cristianesimo visto in termini cristiani. Il
lavoro magistrale di Martin Buber, Due tipi di fede6, è
uno degli esempi migliori di questa analisi e risulta assai
superiore a qualsiasi opera che io potrei scrivere.
Se l’ebraismo europeo fosse sopravvissuto (a parte poche
sorgenti di ortodossia l’ebraismo rappresenta oggi in
Europa una religione morta), quei grandi intellettuali
avrebbero affermato quell’autonomia dell’ebraismo che
vorrei adombrare qui, semplicemente e in via preliminare.
Io sono stato definito un “teologo dell’Olocausto”, un
titolo che non ho rivendicato e che non ho meritato. La
mia vita ha potuto svilupparsi in questo modo perché mi
è stato permesso di svolgere il mio lavoro, non in risposta
all’Olocausto, ma dopo la catastrofe dell’Olocausto.
Persone più intelligenti di me hanno riflettuto su queste
cose. Quanto a me, posso fare soltanto del mio meglio.
Come sempre, le nostre vite scorrono al cospetto dei secoli
passati. Quando viene il nostro turno, facciamo del
nostro meglio. Poi passiamo il testimone a quelli che
vengono dopo di noi. Questo significa far parte dell’Eterno
Israele.
6 M. Buber, Due tipi di fede, Cinisello Balsamo (Milano) 1995, affermava
che la fede ebraica si fondava suU’emuna, quella cristiana sulla pistis.
(N.d.C.).
26
I
UN EBREO OSSERVANTE
DIALOGA CON GESÙ
2
«Gesù percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe
e predicando la buona novella del Regno e curando
ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo... E grandi
folle cominciarono a seguirlo dalla Galilea, dalla Decapoli,
da Gerusalemme, dalla Giudea e da oltre il Giordano...
Vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna e messosi a
sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli. Prendendo la
parola, li ammaestrava, dicendo...»
(Matteo 4,23-25; 5,1-2).
Immaginate di camminare, un’estate, per una strada
polverosa in Galilea, di imbattervi in un piccolo gruppo
di giovani, guidati da un giovane uomo. La personalità
dell’uomo attrae la vostra attenzione; egli parla, gli altri
ascoltano, rispondono, discutono, eseguono attentamente
ciò che egli dice, lo seguono. Voi non conoscete quell’uomo,
ma sapete che l’incontro con lui ha cambiato la
vita dei suoi discepoli e di molti fra coloro che l’hanno
incontrato. La gente reagisce, qualcuno con rabbia, qualcuno
con ammirazione, pochi con fede sincera. Ma nessuno
se ne va senza interesse per l’uomo e per le cose
che egli dice e fa.
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zio ot. -
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Adesso, se siete in grado di fare un salto in avanti di
più di duemila anni, provate a immaginare di non aver
mai sentito parlare del cristianesimo. Tutto ciò che conoscete
sono poche frasi dette da quell’uomo, poche storie
raccontate su di lui, qualcuna delle storie che egli raccontò,
qualcuna delle cose che egli fece. Potete tornare indietro
in Galilea a incontrarvi con Gesù prima della sua salita
a Gerusalemme? Potete ascoltare le parole ripetute
un’infinità di volte come se fossero state pronunciate proprio
per la prima volta? Allora, ma solo allora, potrete incontrare
l’uomo con i suoi discepoli e affrontare la discussione,
nel mondo semplice e immediato nel quale vivete:
se voi foste stati là, che cosa avreste fatto? Se non
aveste saputo che cosa egli sarebbe diventato (parlando
ora dalla prospettiva di un cristiano praticante) lo avreste
scelto come vostro maestro e lo avreste seguito?
Penso che possiamo leggere le parole che Matteo cita
in nome di Gesù se, con un atto di immaginazione, ci
mettiamo su una strada polverosa della Galilea e facciamo
finta di non aver mai udito le parole che sono risuonate
per secoli. Allora, e solo allora, trovando nuovo e
stimolante ciò che i secoli hanno reso vecchio, possiamo
rinnovare l’incontro - l’incontro, la discussione, il confronto
- che fonda, a mio avviso, il cristianesimo: l’incontro
con Gesù. Oggi, essendosi trasformati molti insegnamenti
in banalità e luoghi comuni, è difficile recepire
la sfida, il pungolo, la carica polemica di queste parole.
Questo è il nostro compito, tuttavia, se vogliamo discutere
seriamente di importanti verità. Ed è tempo - penso -
che alcuni particolari insegnamenti del Gesù di Matteo
ricevano un’attenzione seria e motivata, non come banalità
e ovvietà, ma come affermazioni controverse e forti
sulle quali si può essere d’accordo grazie a una discussione.
Perché, se leggete le storie narrate da Matteo, non
28
potete ignorare che Gesù era un uomo, il quale affermava
cose, a suo giudizio, nuove e importanti e che pretendeva
che i propri ammaestramenti costituissero il modo corretto
di eseguire e di adempiere la Torah, gli insegnamenti
che Dio diede a Mosè sul monte Sinai.
Quale vantaggio deriva dall’accettazione cristiana e
dal rifiuto ebraico di ciò che secondo Gesù Dio vuole da
noi? Le affermazioni di Gesù si pongono come una critica
ai punti di vista altrui e come spiegazione nuova, forte
e originale della rivelazione di Dio a Israele, all’interno e
per mezzo della Torah.
I cristiani dovrebbero forse accettare queste affermazioni
forti come un semplice dato di fatto, dal momento
che esse volevano cambiare il mondo... e dopo tutto lo
hanno cambiato? E gli ebrei dovrebbero ascoltare gentilmente
e banalizzare le affermazioni che Gesù presentò
come proprio insegnamento, affermazioni che formavano
chiaramente, a suo parere, l’insegnamento della Torah?
Gesù insegna la Torah al pari di altri maestri, ma pretende
di porsene al di sopra. Quanto più ascoltate Gesù come
se non lo aveste mai ascoltato, tanto più capite che
egli avanzò per se stesso pretese assai particolari, pretese
che non possono essere accettate troppo facilmente o
messe da parte troppo cortesemente, come i cristiani e
gli ebrei hanno fatto nel corso dei secoli.
Ecco un uomo, un uomo giovane e i suoi studenti, che
alcuni ammirarono, alcuni odiarono, ma nessuno ignorò.
Penso che dobbiamo ascoltarlo seriamente e ciò significa
un incontro nuovo e coinvolgente, non solo genuflessione
e obbedienza da un lato o casuale condiscendenza
dall’altro.
Perciò affermo assai semplicemente: io mi osservo,
mentre incontro quest’uomo e dialogo cortesemente con
lui. È la mia forma di rispetto, il solo complimento che
29
chiedo agli altri, l’unico serio omaggio che rendo alla gente
che prendo sul serio: dunque rispetto e anche amore.
Sono in grado di vedermi non soltanto mentre incontro
quest’uomo e discuto con lui, isolando alcune cose specifiche
che disse e sfidandolo sulla base della Torah che
condividiamo - le Scritture che i cristiani avrebbero
adottato più tardi come “Antico Testamento” -, ma anche
posso immaginarmi mentre dico: «Amico, va’ per la tua
strada, io andrò per la mia. Ti auguro ogni bene, senza di
me. La tua non è la Torah di Mosè e tutto ciò che io ho
ricevuto da Dio e tutto ciò di cui ho bisogno da parte di
Dio, è la Torah di Mosè».
Ci incontreremmo, dialogheremmo, ci lasceremmo da
amici - ma ci lasceremmo. Egli sarebbe andato per la
sua strada a Gerusalemme e al luogo che a suo parere
Dio aveva preparato per lui; io sarei andato per la mia
strada, a casa da mia moglie e dai miei figli, dal mio cane,
al mio giardino. Egli sarebbe andato per la sua strada
gloriosa, mentre io sarei andato ai miei compiti e alle
mie responsabilità.
Matteo fa diventare per noi, semplicemente, nuovo e
meraviglioso, ciò che prima sembrava estremamente ovvio.
Egli prepara la scena con poche semplici frasi: «Egli
salì sulla montagna e messosi a sedere, i discepoli si avvicinarono.
E prendendo allora la parola, li* ammaestrava
dicendo...». Con queste parole Matteo evoca l’immagine
di un maestro della Torah che insegna adesso la Torah ai
suoi discepoli. Gesù siede, fatto che indicava di solito -
lo sappiamo dagli scritti posteriori sui rabbini - che sta
iniziando un serio insegnamento. Sedersi indicava proprio
l’inizio della lezione. I discepoli lo circondano, fanno
cerchio in silenzio. È una scena piena di dignità e di
solennità. Gesù non conduce una conversazione; non tiene
neppure un discorso; egli espone alcune verità. I di30
scepoli ascoltano perché, a suo tempo, parteciperanno alla
discussione e all’analisi di queste verità, contestando,
spiegando, convincendosi attraverso un serrato dibattito.
In questo senso dobbiamo comprendere il senso della parola
Torah.
Essa ha due significati, l’uno con la T maiuscola, l’altro
con la t minuscola. Torah con la T maiuscola indica
la rivelazione di Dio a Mosè sul monte Sinai. Quando
noi scriviamo torah con la t minuscola, intendiamo “l’istruzione”
impartita da un maestro nel contesto dell’insegnamento
della Torah. Si tratta di un’oscillazione semantica
piuttosto strana; ciò che Gesù insegna è la Torah e
ciò che insegna è pure istruzione {torah). Perciò il suo
impegno nei confronti della Torah di Mosè - e Matteo
evidenzia quanto profondamente Gesù sia coinvolto nell’insegnamento
della Torah - indica che le cose che egli
dirà costituiranno pure una continuazione, un’espansione,
un’elaborazione e una spiegazione della Torah. Egli
insegna la Torah. Così nel quadro della Torah egli insegna
la Torah ed egli stesso amplia la Torah: così il suo è
anche un lavoro di torah.
Questa semplice affermazione, che descrive Gesù come
un maestro della Torah che espone la sua dottrina,
rende possibile una discussione su un solo argomento:
che cosa Dio desidera da me. Ciò che Dio insegnò a Mosè
sul monte Sinai e ciò che Mosè scrisse nella Torah
rappresentano un insieme di fatti che noi condividiamo.
Un singolo problema, un “ordine del giorno” concordato,
un insieme di fatti che condividiamo... Questi sono i requisiti
per una seria e valida discussione: un dialogo.
Perciò cercherò di narrare le ragioni di questo dissenso,
descrivendo la maniera in cui avrei discusso con Gesù e
il modo in cui avrei cercato di convincere, lui e quelli
che erano con lui, che la loro opinione sulla Torah - di
31
ciò che Dio vuole dall’umanità - era sbagliata in punti
importanti e sostanziali. E perciò, poiché quel particolare
insegnamento non coincideva affatto con la Torah e con
il Patto del Sinai, non lo avrei seguito né allora né adesso.
Ciò non accade perché sono ostinato o incredulo. Accade
perché credo che Dio abbia dato una Torah diversa
da quella che Gesù insegna; e quella Torah, che Mosè ricevette
sul Sinai, si contrappone alla Torah di Gesù, poiché
essa prescrive il vero e il falso, il giusto e l’erroneo,
nonostante tutte le altre Torah che la gente vuole insegnare
in nome di Dio.
Ciò che voglio discutere con Gesù è in che misura i
suoi insegnamenti coincidano con la Torah. 11 criterio
che ho stabilito non è valido per me soltanto, ma lo è anche
per Gesù, dal momento che Gesù pretende esplicitamente
di essere venuto a completare la Torah e non a distruggerla.
Citando le parole di Matteo:
«Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti;
non sono venuto per abolire, ma per dare compimento.
In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra,
non passerà dalla legge neppure un iota o un segno, senza
che tutto sia compiuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di
questi precetti, anche minimi, e insegnerà agii uomini a fare
altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi
invece li osserverà e li insegnerà agli uomini,' sarà considerato
grande nel regno dei cieli. Poiché io vi dico: se la vostra
giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei,
non entrerete nel regno dei cieli» (Matteo 5,17-20).
Pertanto la Torah è un legittimo criterio di verità, dal
momento che entrambi i partecipanti alla discussione sono
dello stesso avviso. E si tratta di un problema importante,
poiché, come vedremo, il Gesù di Matteo insegna
al popolo a violare almeno tre dei Dieci Comandamenti.
32
E io sto per chiedere direttamente a Gesù: «Come puoi
insegnare alla gente a violare alcuni dei Dieci Comandamenti
e pretendere, tuttavia, di insegnare la Torah, senza
tenere conto della Torah di Mosè data da Dio sul Sinai?
».
In quanto ebreo credente e praticante che si rivolge ad
un personaggio che, nonostante sia stato rappresentato in
modo diverso, si presenta anche lui come un ebreo praticante
e osservante, posso domandare se le affermazioni
di Gesù coincidono con ciò che dice la Torah del Sinai.
Secondo Matteo, Gesù ed io - in mezzo a tutto l’Israele
fedele e impegnato - crediamo che Dio ha dato la
Torah. Gesù ed io - insieme a quelli che si considerano
figli di Abramo, Isacco e Giacobbe - crediamo che sia
nostro dovere dare compimento alla Torah. Ciò spiega
perché, a mio parere, vi possa essere una franca discussione:
una discussione da svolgersi su un terreno ben delimitato.
Un dibattito e una discussione presuppongono
tuttavia un serio rispetto e io intendo esprimere, in ogni
riga di questo libro, la mia stima per un personaggio di
considerevole importanza.
Comprendo che è difficile per i cristiani, oggi come
tanto tempo fa, dare un senso alla continua vitalità della
Torah, cioè dell’ebraismo. Per spiegare 1’“incredulità” di
Israele i cristiani hanno chiamato gli ebrei “perfidi” cioè
“increduli”; li hanno definiti ostinati e di dura cervice;
hanno ascritto loro una invincibile ignoranza. I Vangeli
dividono Israele fra credenti e conniventi e, per venti secoli,
gli ebrei fedeli alla Torah di Mosè furono chiamati
assassini di Cristo. C’è stata quindi una certa “impazienza”,
forse comprensibile, verso di noi, l’Eterno Israele.
Ritornando a un momento particolare della vita di Gesù -
quando insegnava in Galilea prima dell’orrore della sua
crocifissione, ma pure, dal punto di vista cristiano, prima
33
del miracolo redentore della sua risurrezione - un’altra
posizione diviene possibile, al di là di quelle della fede o
del rifiuto di Gesù come Cristo. È la posizione che assunse
gran parte dell’Israele che conosceva Gesù quando visse
ed insegnò e che io stesso assumo in questo libro; né seguirlo
né tramare contro, ma rispondere gentilmente di no
e passare oltre, ad altri problemi. Questa posizione diviene
credibile, se immaginiamo noi stessi in Galilea mentre
ascoltiamo un maestro che insegna la sua Torah, molto
prima che egli entri nella storia e nell’eternità.
Questo incontro con Gesù non potrebbe sembrare allora
un atto del tutto irrispettoso? Come oso discutere proprio
con il maestro? La risposta è sia personale sia religiosa;
ho studiato intensamente per tutta la vita e, se non
avessi preso sul serio le idee altrui, mi sarei facilmente
arreso e sarei andato per la mia strada, oppure avrei finto
di assecondare gli altri. I soli insegnanti dai quali ho appreso
qualcosa, hanno ascoltato le mie idee e mi hanno
esposto le loro critiche, ed essi sono gli unici che io abbia
mai rispettato. Gli studenti di cui ho stima sono quelli
che io voglio sfidare con la mia scrupolosa attenzione
per ciò che essi dicono, dunque con la mia più rigorosa
risposta alle loro idee: la critica.
Ma la discussione rappresenta ben più di un modo personale
ed eccentrico di manifestare stima; essa non è
molto popolare, e uno dei miei amici più stretti in politica
mi chiama «la persona più litigiosa che io abbia mai
conosciuto» e lo considera un complimento, in particolare
per me. Una buona, argomentata discussione è considerata
dalla Torah il mezzo più giusto di rivolgersi a Dio,
ossia un atto di grandissima devozione. Abramo, il fondatore
dell’Eterno Israele, discusse con Dio per salvare
Sodoma. Mosè discusse di continuo con Dio. Molti profeti,
come per esempio Geremia, discussero. Perciò il no34
stro Dio, quello della Torah, è un Dio che si aspetta di
discutere; e la più profonda affermazione della signoria e
della volontà di Dio che la Torah contiene - cioè il libro
di Giobbe - è anch’esso una valida e sistematica discussione
con Dio.
Perciò come credente nella Torah, cioè nell’ebraismo,
approdo ad una posizione completamente differente.
Nella mia religione, la discussione rappresenta un aspetto
della liturgia allo stesso titolo della preghiera; una discussione
argomentata su problemi sostanziali, fondata
sul rispetto per l’altro e resa possibile dall’accordo sulle
premesse. Questo tipo di controversia non è soltanto un
gesto di stima e di rispetto per l’altro, ma offre anche,
nel contesto della Torah, il dono dell’intelletto sull’altare
della Torah. Non penso che un non cristiano possa rendere
un omaggio più sincero a colui che i cristiani conoscono
come il Cristo se non attraverso una valida, concreta
discussione.
Tanto basta per la scelta della discussione. Ma perché
rappresentare tale discussione? Che cos’è che la rende
così urgente ora che siamo all’inizio del terzo millennio?
Per duemila anni entrambe le parti si sono reciprocamente
ignorate, l’ebraismo diede per scontato che il cristianesimo
non avesse mai attribuito alcuna importanza alla
Torah. Il cristianesimo rappresentò l’ebraismo in modo
così repellente che, in tutta onestà, perché mai una persona
dabbene avrebbe dovuto instaurare un dialogo con
quella religione? Perciò perché dovremmo preoccuparci
di cominciare proprio ora una discussione rimandata per
quasi duemila anni?
Dovremmo preoccuparcene, in primo luogo, perché
nell’America del ventunesimo secolo si sta realizzando il
dialogo religioso; la nostra innata curiosità americana e
una fondamentale buona volontà lo ha reso possibile.
35
Dovremmo preoccuparcene, in secondo luogo, perché
nel clima libero della religiosità americana ci si chiede di
spiegare chi siamo e questo, in un paese a maggioranza
cristiana, significa: «Perché non siete cristiani come
noi?».
Dovremmo preoccuparcene, infine, perché nei diversi
cristianesimi di questo paese, ce n’è uno che si definisce
ebraismo, “ebraismo messianico”, che osserva (in tutto o
in parte) l’ebraismo e crede anche che Gesù sia il Cristo.
La gente vuole sapere, quindi, perché essi non possano
essere sia ebrei sia cristiani allo stesso tempo: l’ebraismo
tradizionale afferma che non possono esserlo. Perché
no? Che cosa c’è che non va in Gesù? Questa descrizione
dei problemi, per quanto poco felice, è normale
nell’ambito delle strettissime relazioni - intellettuali e
sentimentali - fra ebrei e cristiani, nelle quali prosperiamo
insieme, grazie alla libera e aperta società americana.
Allo stesso tempo, i cristiani sono attratti verso l’ebraismo
per le sue specifiche caratteristiche. E una parte del
loro interesse nella scelta dell’ebraismo è dovuta al fatto
che il cristianesimo li porta al Sinai (1’“Antico Testamento”)
che, per alcuni, si rivela essere l’unica destinazione.
Così da entrambe le parti assistiamo in questi giorni non
solo all’incontro di vicini, ma anche alla pretesa di incontrarsi
nella casa dello stesso Israele.
Ma c’è un’altra ragione, tuttavia, per uno stretto dialogo
racchiuso in una solida discussione. La discussione
rende compagni - come ho detto difendendo l’idea di
avere un dibattito con un’altra religione - ed ebrei e cristiani
si incontrano adesso nei matrimoni e nell’allevare
figli. La casa d’Israele ospita adesso cristiani, figli di cristiani
e di convertiti dal cristianesimo all’ebraismo. Ebrei
diventano cristiani, come cristiani diventano ebrei. E lo
scambio ebraico-cristiano ha luogo, in questi giorni, a
36
casa e a letto. Pertanto il matrimonio di ebrei e di cristiani
va avanti velocemente, con il risultato che l’intimità
porta a condividere adesso anche le convinzioni religiose.
Dove trovano allora ebrei e cristiani un punto di mutua
comprensione? E che cosa hanno da dirsi quando si
confrontano con le affermazioni fiduciose della religione
dominante di questo paese?
Dalla prospettiva della mia religione, noi ebrei troviamo
assai poco credibili le fondamentali convinzioni dell’altro.
Con molte di queste affermazioni è difficile dialogare,
se non attraverso un’argomentata discussione.
Che cosa farne dell’affermazione che Dio ha una madre
che lo ascolta? Come dobbiamo comprendere l’affermazione
che Gesù, unico in tutto il genere umano, fu Dio
incarnato, proprio “a nostra immagine, a nostra somiglianza”
- secondo il linguaggio del racconto della creazione
dell’uomo e della donna della Genesi: Dio incarnato?
Questa e altre credenze fondamentali del cristianesimo
sono incomprensibili per coloro che sono fuori dalla
fede. Da parte loro i cristiani, volendo essere giustamente
compresi, trovano incomprensibile lo stesso senso di
identità proprio deU’Eterno Israele. Perciò se gli ebrei
considerano incomprensibile la concezione di Dio incarnato
in un solo uomo, i cristiani trovano inattingibile la
nozione di Popolo di Dio, l’elezione di Israele. Nessuna
delle due parti può immaginare quindi un’analogia, in
termini comprensibili, per ciò che è più sacro all’altro. E
queste idee fondamentali, ognuna delle quali essenziale
all’autocomprensione dei fedeli, parlano di ciò che è unico
- cioè di ciò che per definizione può essere compreso
soltanto per intuizione. Dio incarnato, l’elezione di Israele
- le verità vincolanti di Cristo da una parte, la Torah
dall’altra - non possono essere oggetto di una discussione
ragionata fra noi e gli altri, per esempio, una discus-
37
sione per risolvere problemi sulla ragione e sul torto, il
vero e il falso, una discussione che si basi su premesse
condivise da entrambi e su argomenti scelti da entrambe
le parti.
Ma questa semplice affermazione porta ad uno stallo
che non possiamo accettare per sempre. Non abbiamo
niente da dire ai nostri amici, ai nostri vicini, e in non
pochi casi, anche alle mogli dei nostri figli, ai mariti delle
nostre figlie o anche ai nostri stessi figli? Ed essi non
hanno niente da dirci? La nostra situazione in una società
libera e aperta, con persone che vanno da ogni parte, non
può tollerare un silenzio irrazionale: voi credete, noi no;
oppure, ciò che voi credete è ciò in cui noi crediamo.
C’è un’altra ragione per prendere sul serio il dialogo
del cristianesimo con l’ebraismo. Avendo ascoltato venti
secoli di “no”, i cristiani videro naturalmente il popolo di
Gesù come ostinato e solo negativo. Ma se la negazione
ha una forte affermazione, c’è per l’ebraismo nell’incontro
con il cristianesimo più di un semplice no. C’è un no,
perché... E in questo perché risiede la forte discussione fra
di noi. Io mi propongo, pertanto, in queste pagine di mostrare
come Israele, il popolo di Dio, apparirebbe se si potesse
immaginare una ragionevole discussione fra le cose
che Gesù insegnò e gli insegnamenti della Torah. Ciò che
intendo è un dibattito sulla sostanza delle cose, come se
tutto ciò che è in discussione sia ciò che è vero, alla luce
del criterio accettato da entrambe le parti: la Torah.
Ma quali sono le regole per un dibattito franco ed
equilibrato?
Prima di tutto entrambe le parti devono parlare dello
stesso problema. Pertanto, come io ho spiegato in termini
di casa e di famiglia, ho scelto un racconto di Gesù modellato
per Israele proprio per confrontarsi: il Vangelo di
Matteo.
38
Una discussione sincera può nascere, dal momento che
il particolare ritratto che Matteo fece di Gesù proveniva
da un gruppo ebraico, fu rivolto al resto di Israele e sottolineò
che egli non era venuto a distruggere, ma a dare
compimento alla Torah. La ragione è che qui e solo qui,
una premessa sinceramente condivisa - la Torah - giudica
tutti gli insegnamenti e le azioni, ponendo le basi per
una discussione: la possibilità di fare riferimento a una
singola fonte di verità. Su che cosa l’Eterno Israele può
discutere con Paolo e Giovanni?
Per loro tutti i problemi che Matteo ha sollevato sono
stati risolti: il Gesù di Paolo è risorto dai morti; il Gesù
di Giovanni sta fuori da Israele e descrive “i Giudei” come
l’altro e come il nemico. Il Gesù di Matteo è descritto,
al contrario, come uno di noi.
In secondo luogo, ciascuna delle parti che partecipa alla
discussione deve accettare la buona fede dell’altra. La
quasi totalità della letteratura polemica cristiana sull’ebraismo
e gran parte degli studiosi cristiani, anche ai nostri
giorni, nega all’ebraismo qualsiasi rispetto. Nessun
dialogo è possibile con questa letteratura. Non solo non
avremmo nessuna ragione per parlare con loro, ma perché
essi vorrebbero parlare con noi, visto e considerato
che descrivono l’ebraismo come un mostro? Per esempio,
non posso immaginare una discussione con il Gesù
di Giovanni, poiché l’Eterno Israele è trattato in Giovanni
con odio evidente. Ma non è il caso del Vangelo di
Matteo.
Matteo presenta più di una figura soprannaturale. Il
suo Gesù della casa di Davide non soltanto compì miracoli,
ma morì, passò tre giorni negli “Inferi”, poi risuscitò
dai morti, lasciando una tomba vuota. Lo scritto di
Matteo offre anche, come prova del perché dovrei riconoscere
Gesù come il Cristo, gli insegnamenti che Gesù
39
espose mentre era qui in terra fra di noi. È giusto e opportuno,
perciò, che io esamini alcuni di questi insegnamenti
e che mi chieda se essi mi obblighino, all’interno
dell’Eterno Israele, ad accettarli come parte della Torah.
E questo è proprio ciò che mi propongo di fare. Facendo
questo, considero valide le convinzioni fermamente
accettate dell’altro che superano l’esame di un outsider,
oppure le metto da parte in quanto non pertinenti alla domanda
alla quale sono chiamato a rispondere: fate la vostra
scelta.
Terzo, ciascun partecipante alla discussione deve rispetto
all’altro. I cristiani che adorano Gesù Cristo considereranno
questa prolungata discussione con l’uomo che
essi venerano come Dio incarnato come una strana forma
di rispetto e non si sbagliano. Nella polemica ebraica
contro il cristianesimo e nella polemica cristiana contro
l’ebraismo nessuno ha mai affermato prima d’ora che noi
discutiamo sulle stesse cose e soltanto su queste cose, facendo
ricorso esclusivamente alla stesso criterio di verità.
Ciò può rendere strano questo libro. Ma, ancora, come
posso discutere con Dio incarnato? Evidentemente,
come ho detto, una volta che Dio incarnato dice di fare
una cosa invece di un’altra, ricorrendo alla Torah come
criterio che conferma questa affermazione, allora è giusto
e corretto discutere.
Ancora una volta, nell’ebraismo, il dibattito rappresenta
un modo importante della discussione religiosa; il modo
in cui parliamo con gli altri dimostra il nostro rispetto
e la nostra stima verso di loro. Un precetto religioso fondamentale
nell’ebraismo esige lo studio della Torah e
gran parte dello studio della Torah esige il dibattito: il dibattito
e la discussione sulle asserzioni, sulle prove, sulla
validità dell’analisi, su ciò che facciamo in ogni campo
del sapere. Io trascorro la mia vita studiando la Torah (in
modo particolare) e sono abituato a coniugare il mio impegno
religioso, espresso in un serio confronto con l’intelligenza
e con le idee dell’altro, con la mia professione
mondana che mi chiede di valutare seriamente il punto di
vista dell’altro.
Riguardo a questo aspetto chiedo al cristianesimo di
adottare una caratteristica della tradizione ebraica; come
i cristiani, noi diamo importanza alla ragione e alla fede
razionale. Esse formano nei nostri libri sacri una delle
grandi tradizioni intellettuali dell’umanità. Il più influente
libro dell’ebraismo è il Talmud di Babilonia (datato
verso il 600 d.C.) che è un prolungato commento su
un codice filosofico chiamato Mishnah (datato verso il
200 d.C.). Il Talmud è semplicemente una lunga discussione,
o piuttosto, sono appunti che ci permettono oggi
di ricostruire la discussione svoltasi tempo fa. E dall’epoca
in cui il Talmud raggiunse la sua forma finale,
chiunque lesse lo scritto non solo ascoltò la discussione,
ma cercò di parteciparvi. La vita religiosa della Torah -
cioè dell’ebraismo - prende perciò la forma di una lunghissima
discussione su questo e su quello. Altre persone
trascorrono molto tempo nella lettura dei Salmi o nella
preghiera e molti ebrei lo fanno. Ma la vera élite della
nostra fede, i maestri (e adesso anche le maestre) della
Torah passano lunghe ore a dibattere le affermazioni
della Torah, esposte nella Mishnah e nel Talmud. Questa
è la nostra più solenne azione nel servire Dio, una volta
che abbiamo compiuto il nostro dovere verso gli altri
uomini.
Perché questo? Perché noi diamo valore all’uso dell’intelligenza,
allo scambio di pensieri, di affermazioni,
di ragioni, di prove, di analisi; noi consideriamo la discussione
un esercizio nell’uso di ciò che ci fa simili a
Dio, cioè la nostra intelligenza. Qualora se ne presentas-
41
se l’occasione, discuterei volentieri con Dio, proprio come
fecero i grandi rabbini del Talmud: dunque perché
non posso discutere con il Dio incarnato? Come potrei
dimostrare meglio il mio rispetto verso quella religione e
verso quel personaggio se non facendo del mio meglio in
risposta al suo meglio?
La discussione, come ho detto, è un gesto di rispetto,
non di offesa. Abramo incontrò Dio faccia a faccia a Sodoma;
Mosè insistè per vedere Dio, anche nella fessura
della roccia; i profeti e Giobbe, dopo tutto, fanno parte
anche della nostra Torah. E la stessa Torah orale, quella
che ricevemmo dal Sinai ci insegna le regole di una discussione
ragionata sulle cose sacre, fra persone che credono
di servire Dio nell’esercizio della loro ragione applicata
e della pratica nello studio della Torah. Quando
saliremo in cielo, alcuni di noi almeno sperano di entrare
nell’accademia di lassù, la celeste Yeshivà1 e di prendere
parte alle discussioni di Mosè, nostro maestro, e dei grandi
saggi.
Nell’ottica di questa religione non c’è gesto di stima
più grande che una discussione. Respingo quell’atteggiamento
del dialogo ebraico-cristiano che per secoli, da
parte ebraica, è consistito: 1) nell’affermare che il cristianesimo
non esiste; 2) nel sostenere che, se il cristianesimo
esiste, non cambia nulla per l’ebraismo (nel linguaggio
dell’ebraismo, per “la Torah”)', 3) nel raccontare
storielle di cattivo gusto sulla figura di Gesù. Mi disgustano
le opere che screditano le religioni e gli uomini e le
donne di fede; condivido sia l’offesa patita dall’Islam per
la percezione musulmana dei Versetti Satanici di Rushdie
(se questo giudizio sia reale o meno non è qui in discussione),
sia la profonda offesa avvertita dai cristiani
1 Yeshivà: scuola di studi talmudici (N.d.C.).
42
per le spregevoli rappresentazioni di Gesù che di tanto in
tanto ricevono grande attenzione. Prestando servizio in
organismi statali legislativi, ho condiviso la posizione dei
cristiani che contestarono la concessione di fondi statali
usati per diffamare la loro fede e il suo fondatore. Gli atti
pubblici sono chiari: ne ho pagato volentieri il prezzo.
Non voglio pertanto recare offesa, ma discutere. Ciò
spiega ancora una volta perché enucleo ai fini della discussione
solo questa componente terrestre di una figura
completamente sovrannaturale - e nessuno può avvicinarsi
al Gesù di Matteo senza essere d’accordo che nella
mente dell’Evangelista, prima che nella nostra, è Dio incarnato.
In ogni riga di queste pagine mi rendo conto di
scrivere sul Dio di altri, al quale sono indirizzate tante
preghiere e consacrate tante vite, non ad un uomo, ma a
Dio incarnato, a cui grandi masse di uomini rivolgono la
loro speranza di vita eterna.
Non dubito affatto della fede del credente. Né è compito
dell 'outsider giudicare la fede di altre persone. Sarei
orgoglioso se i lettori cristiani rispondessero: «Sì, abbiamo
valutato i problemi che tu hai sollevato e, dopo averci
riflettuto e discusso mentalmente con te, confessiamo
con forza maggiore di prima la nostra fede in Gesù Cristo
». E niente mi farebbe più felice che sentir dire dai
lettori ebrei: «Ora comprendiamo perché siamo così; e
siamo orgogliosi di essere così».
In questa discussione non mi interessa vincere. Essa
vuole spiegare sia agli ebrei sia ai cristiani l’altra posizione,
quella della Torah, che gli ebrei hanno sostenuto per
quasi duemila anni da quando andarono per la propria
strada e scelsero di non seguire affatto Gesù. Lo affermo
senza scuse, senza inganno, senza infingimento. Ciò che
faccio è riaffermare semplicemente la Torah del Sinai sopra
e contro il Gesù di Matteo. Mosè non pretenderebbe
43
di meno da uno di noi oppure il Gesù di Matteo, a mio
parere, di più. Così quando io dico che, se quel giorno
avessi ascoltato quelle parole, avrei proposto una discussione,
è con l’uomo vivente, mortale, che cammina fra di
noi, che parla fra di noi, che voglio discutere. Se avessi a
disposizione solo queste parole, senza genealogia, miracoli,
crocifissione, risurrezione, intronizzazione alla destra
di Dio, quale risposta avrei dovuto trovare? Non saprei.
Non avrei lodato il grande maestro e rabbino e non
avrei affermato neppure che se non era il Messia, fu almeno
un profeta. È insincero offrire a Gesù una posizione,
dentro l’ebraismo, che il cristianesimo trova banale e
fuori luogo. Se Gesù non è il Messia, Dio incarnato, allora
a quale grande problema di fede appartiene quello che
10 chiamo l’insegnamento di un rabbino o di un profeta?
Queste concessioni evadono il problema in maniera insincera.
Esse nascondono un rifiuto più sincero: si può
ammettere che Gesù sia stato qualsiasi cosa fuorché ciò
che il cristianesimo ha preteso, cioè il Cristo, il Messia,
11 Dio incarnato. Perciò né in passato né oggi è mai stata
tentata una solida discussione con quella componente del
cristianesimo, Gesù Cristo, Dio incarnato, che l’ebraismo
deve affrontare: voi pensate, a mio giudizio, di sapere
il perché. Molte generazioni di apologisti ebraici hanno
lodato insinceramente questo “taumaturgo galileo”,
ponendolo nella tradizione di Elia, dei rabbini chassidici
del diciottesimo secolo e oltre. Altre generazioni hanno
esaltato Gesù come un grande rabbino. Questo schivare
le pretese cristiane di rappresentare la verità non serviranno
più. Il cristianesimo non crede in un taumaturgo
galileo, né venera un rabbino. Da parte mia non sfuggirò.
Neppure però farò concessioni. Non loderò con complimenti
esagerati, irrilevanti il Dio di qualcun altro: è degradante
e disonesto.
44
In conclusione, pertanto, rivolgendomi agli insegnamenti
di Gesù come Matteo lo ritrae, rivolgo una seria
attenzione a qualcosa che, finora, ha trovato scarsa attenzione
fra gli ebrei. Fino ad oggi, infatti, gli ebrei hanno
respinto il cristianesimo senza fare molta attenzione a
ciò che Gesù insegnò in particolare. Dal primo secolo ad
oggi, quando gli ebrei hanno risposto a Gesù, hanno risposto
al cristianesimo considerato come un tutto, alla
sua ricca e complessa visione dell’uomo e al suo significato.
Conoscendo bene che cosa accadde dopo - dalla
prospettiva cristiana, la sua morte e risurrezione, la fondazione
della sua Chiesa, l’espansione della Chiesa su
tutta la terra - gli ebrei a fatica hanno immaginato e raramente
hanno intrapreso il più modesto ma più credibile
confronto di idee sugli elementi di prova a favore di Gesù
in quanto Cristo.
Piuttosto che esaminare il racconto di Gesù secondo
Matteo, come fanno gli studiosi, lasciatecelo godere, lasciateci
immaginare di parteciparvi. Matteo fu, infatti, un
grande narratore e lo dimostra il fatto che, dalla sua epoca
fino alla nostra, i lettori hanno reagito con profonda
emozione alla storia che egli racconta. Perciò, perché
non possiamo apprezzare e godere fino in fondo la storia?
D’ora in poi, rinuncerò alle citazioni erudite sul
“Gesù di Matteo”. Questo non è un libro di erudizione:
non elencherò nemmeno i libri letti nel tentativo di capire
il Vangelo di Matteo; né questo è un libro sul Vangelo
di Matteo. Questo è un libro sull’incontro di due fedi e,
in ogni caso, ognuno comprende che il Gesù di Matteo è
solo uno dei racconti del Gesù che visse effettivamente e
insegnò, fece miracoli e prodigi, formò discepoli, patì
sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, risuscitò dai morti ed
ora siede sul trono nell’alto dei cieli. La strada di Matteo
è perciò solo una delle tante.
45
Eppure intendo leggerla in questo modo, come una
parte della Bibbia cristiana, come i fedeli nelle chiese e
come fanno anche gli ebrei quando aprono il Nuovo Testamento,
piuttosto che alla maniera altrettanto valida dei
teologi nelle università e nei seminari. La mia discussione
si svolge con il Gesù che il fedele cristiano venera,
quello a lui noto dai grandi racconti e, fra gli altri, in particolare
da quello scritto per gli ebrei. Adesso, allora,
prendiamo parte alla storia che Matteo racconta su Gesù,
parlando delle cose che il narratore ci narra come se fossero
proprio là, davanti a noi. Conosciamo soltanto due
cose: la Torah e le cose che Matteo narrò di Gesù - e
niente di più.
«Vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna e messosi
a sedere, gli si avvicinarono i discepoli. Prendendo la parola
li ammaestrava, dicendo...». Arriviamo immediatamente
a quella montagna in Galilea dove Gesù espose il
nucleo del suo insegnamento. Siamo ai piedi della montagna.
Guardando in alto, vediamo la figura dell’uomo.
Egli dice molte cose. Noi possiamo afferrarne solo alcune
- noi, l’Eterno Israele, che ricorda quell’altra montagna,
il Sinai - e ciò che Dio ordinò a Mosè.
46
3
«NON PER DISTRUGGERE,
MA PER COSTRUIRE»
CONTRO
«VOI AVETE SENTITO DIRE, MA IO VI DICO...»
«Non pensiate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti;
non sono venuto per abolire, ma per dare compimento.
In verità vi dico: finché non siano passati i cieli e la terra,
non passerà dalla legge neppure uno iota o un segno, senza
che tutto sia compiuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di
questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare
altrettanto, sarà considerato minimo anche nel regno dei
cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini, sarà
considerato grande nel regno dei cieli. Poiché vi dico: se
la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei,
non entrerete nel regno dei cieli»
(Matteo 5,17-20).
Non sarebbe servito un lungo viaggio per incontrare il
maestro. Era dovunque. Per ascoltare tutto il messaggio
dovetti aspettare, tuttavia, fino al giorno in cui salì sulla
montagna e parlò là ai suoi discepoli, facendosi ascoltare
anche da coloro che non lo conoscevano. Da parte mia
andai anch’io, curioso di sapere come la Torah avrebbe
governato la mia vita in quel luogo e in quel momento.
E feci bene ad andare. Quello che egli disse quel giorno,
infatti, arrivato fino a noi sotto il nome di “Discorso
della Montagna” e contenuto in Matteo 5,1 - 7,29, costi-
47. -
.
tuisce il nucleo principale degli insegnamenti di Gesù.
Essi sono formati da affermazioni ben ordinate con le
quali si può discutere, a differenza dei miracoli di Gesù,
della storia della sua vita, delle cose che fece e, naturalmente,
delle sue sofferenze sulla croce, della morte e
della risurrezione: «Egli non è qui. È risorto» (Matteo
28,6).
Tutte queste parti del Vangelo, cioè della Buona Novella,
hanno un senso per i credenti, poiché è al credente
che Matteo annuncia la Buona Novella. Ma Gesù, seduto
insieme ai suoi discepoli sulla montagna, insegna a loro
- ma anche a noi che assistiamo alla sua torcili (insegnamento).
E qui che egli dice alla gente come stanno le cose,
che cosa dovrebbe fare, come Dio desidera che essa
viva. E l’insegnamento (torah) di Gesù è importante e,
per sua esplicita ammissione, controverso. Egli invita,
perciò, alla discussione, aprendo la strada alla discussione,
come fa ogni insegnante che intende cambiare la
mente delle persone, per non parlare delle loro vite. Lasciatemi,
perciò, partecipare alla discussione su quei problemi
specifici che toccano la mia vita e il mio mondo,
che furono formulati sul Sinai.
Quando ascoltiamo Gesù per la prima volta egli sta
parlando del regno di Dio invece che di se stesso. Si tratta
per me di una preoccupazione ben nota, perché la Torah
l’ha resa anche mia. Quando accetto il giogo dei comandamenti
della Torah e li metto in pratica, accetto il
dominio di Dio. Vivo nel regno di Dio, cioè nel regno dei
cieli, qui sulla terra. In questo consiste per me vivere una
vita santa: vivere secondo la volontà di Dio qui ed ora.
Dal punto di vista dell’Eterno Israele e del suo Patto
con Dio, questo messaggio conquista di certo la nostra
approvazione, poiché la Torah struttura la vita di Israele
come un regno di sacerdoti e un popolo santo posti sotto
il dominio di Dio; quest’ultimo si attua per mezzo di un
profeta, lo stesso Mosè, e per mezzo del sacerdozio fondato
da Aronne, fratello di Mosè, ma di ordinazione divina.
Quando recitiamo la preghiera «Ascolta o Israele, il
Signore è il nostro Dio, il Signore è uno» (Deuteronomio
6,4-9) - che è chiamata Shema’ dalla parola iniziale
«Ascolta» - noi diciamo a noi stessi, al pari dei maestri
della legge, che così facendo «accettiamo il giogo del regno
dei cieli». In altre parole: accettiamo i comandamenti
che Dio ci ha dato nel Patto del Sinai. Sia in questo caso,
sia quando Gesù propone di insegnare la Torah a
Israele, delle sezioni importanti del suo insegnamento risultano
assai familiari. All’inizio, inoltre, egli afferma
che non è sua intenzione abolire la Torah e i Profeti, ma
dare loro compimento. La Torah rimane valida: questo è
il suo messaggio e su questa base vengo ad ascoltare.
Egli ha diritto ad essere ascoltato attentamente.
Sono qui, ascolto parole che impressionano, sto a sentire
con fiducia. Gesù inizia la sua predicazione del Vangelo
del regno con un messaggio sul quale nessun discepolo
di Mosè avrebbe trovato qualcosa da obiettare:
«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli;
beati i miti perché erediteranno la terra» (Matteo 5,3).
«Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia perché
saranno saziati. Beati i misericordiosi perché riceveranno
misericordia. Beati i puri di cuore perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli
di Dio» (Matteo 5,5-9). Non posso pensare di discutere
simili insegnamenti che mantengono la promessa della
Torah: «Colui che li esegue e li insegna sarà chiamato
grande nel regno dei cieli».
Nel contesto di Matteo, tuttavia, che cosa viene dopo?
«Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e,
mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per
causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la
vostra ricompensa nei cieli. Così infatti hanno perseguitato
i profeti prima di voi» (Matteo 5,11-12). Perché dovrebbero
essere perseguitati i discepoli di chi benedice i
puri di cuori, gli operatori di pace e i poveri in spirito?
L’attenzione di Gesù si è adesso spostata, tuttavia, dai
poveri in spirito, da quelli che sono in lutto, dai miti, da
quelli che hanno fame e sete di giustizia e dai misericordiosi
a “voi”. Questo evidente contrasto richiama la mia
attenzione. Ascoltando con attenzione presagisco delle
controversie, ma non ne vedo il motivo. Il “voi” sposta il
discorso, infatti, da tutti noi ebrei, l’Eterno Israele di oggi,
verso quelli che sono perseguitati a causa di Gesù.
Non c’è niente nel messaggio del maestro che mi porta a
sollevare obiezioni su un singolo punto di ciò che ha detto.
Nessuno dei suoi insegnamenti spiega perché questo
maestro speciale dovrebbe ammonirmi sul fatto che seguirlo
mi esporrà, in futuro, alle persecuzioni.
Mi sento rassicurato quando sento dire: «Non pensiate
che io sia venuto ad abolire la Legge e i Profeti; non sono
venuto ad abolirli, ma a dare loro compimento». E
questo significa che se c’è un rifiuto o una persecuzione,
non è dovuta al conflitto fra ciò che ho ascoltato da lui e
ciò che ho ascoltato dal Sinai. Da dove ha origine, perciò,
la persecuzione, perché essere consolati per aver sofferto
per lui? Il saggio stesso ne spiega, di fatto, il motivo.
Il contrasto fra il messaggio che echeggia dal Sinai e
ciò che sto ascoltando oggi è descritto esplicitamente. Mi
è stato detto di prepararmi ad ascoltare qualcosa di nuovo,
di originale, di più importante di ciò che era avvenuto
in passato e, tuttavia, conforme alla Torah rivelata da
Dio a Mosè sul Sinai. Il saggio si fissa un obiettivo importante
che ogni saggio nella propria generazione
50
avrebbe accettato: ricevere una tradizione integra e perfetta,
non trasmetterla mai uguale, ma sempre inalterata
così da assumere il posto legittimo nella catena di tradizione
dal Sinai.
Il compito di ciascuna generazione è pertanto, secondo
la frase iniziale del trattato della Mishnah chiamato Avot
- i detti dei Padri dell’ebraismo - , quello di ricevere e di
trasmettere la tradizione. La Mishnah è un codice di leggi,
completato verso il 200 d.C., che rappresenta il primo
scritto normativo e canonico dell’ebraismo dopo la Bibbia.
L’ebraismo che fa ricorso alla Mishnah non riconosce
altri libri sacri fra le Sacre Scritture o “Antico Testamento”
e quel documento; tutti i libri sacri più tardi cominciano
con la Bibbia o con la Mishnah. Quest’ultima
è lo scritto più importante dell’ebraismo dopo la Torah.
Il trattato in questione espone principi di fede e importanti
regole di condotta. Il testo comincia con queste parole:
«Mosè ricevette la legge al Sinai e la trasmise a Giosuè,
Giosuè agli anziani e gli anziani ai profeti. I profeti la trasmisero
agli uomini della grande assemblea. Essi solevano
dire tre cose: siate cauti nel giudizio, educate molti discepoli,
fate una siepe alla legge» (.Avot 1,1).
È giusto e opportuno, pertanto, per il saggio riceverne
e trasmetterne il senso, assumere l’eredità del Sinai e trasmetterla
alla generazione successiva, insieme a qualcosa
che egli stesso ha aggiunto. Dal momento che gli uomini
della grande assemblea non hanno affermato di citare la
Scrittura, ma di contribuire con il proprio insegnamento
alla catena di tradizione, mi aspetto da Gesù non soltanto
una ripresa, una semplice parafrasi della Scrittura, ma
qualcosa di originale e di nuovo, ma che sia pur sempre
51
parte integrante della Scrittura ricevuta. Mi aspetto ciò
che egli offre: ricevere la Torah, ma anche ascoltare il
rinnovamento della Torah da parte di questo maestro.
Sono a mio agio, dunque, quando viene esposta una
serie di lezioni, ognuna delle quali introdotta dall’affermazione
che Gesù insegna una verità più importante di
quelle che hanno insegnato i maestri che lo hanno preceduto.
Cinque frasi, fra quelle citate per dimostrare la volontà
di «non abolire, ma di dare compimento alla Legge
e ai Profeti», attirano la mia attenzione:
1 «Avete inteso che fu detto... “Non uccidere...”. Ma io
vi dico che chiunque si adira con il proprio fratello sarà
sottoposto a giudizio» (Matteo 5,21-22).
2 «Avete inteso che fu detto: “Non commettere adulterio”.
Ma io vi dico che ciascuno che guarda una donna
per desiderarla ha già commesso adulterio con lei nel
suo cuore» (Matteo 5,27-28).
3 «Avete anche inteso che fu detto agli antichi: “Non spergiurare,
ma adempì i tuoi giuramenti con il Signore”.
Ma io vi dico: non giurate affatto» (Matteo 5,33-34).
4 «Avete inteso dire: “Occhio per occhio, dente, per dente”.
Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se
qualcuno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche
l’altra» (Matteo 5,38-39).
5 «Voi avete inteso dire: “Amerai il tuo prossimo e odierni
il tuo nemico”. Ma io vi dico: amate i vostri nemici
e pregate per quelli che vi perseguitano... Siate voi
dunque perfetti come perfetto è il Padre vostro celeste
» (Matteo 5,43-44; 48).
Dobbiamo distinguere la sostanza di ciò che Gesù dice
dalla forma delle sue affermazioni; il messaggio giustifica
la mia fiducia, ma mi lascia, naturalmente, più perplesso
di prima sull’eventuale valenza polemica di questi
saggi e profondi commenti dei detti scritturistici. L’insegnamento
di un maestro è di certo conforme alla Torah, e
la rivelazione di Dio a Mosè sul Sinai lascia spazio in
tutte le epoche agli insegnamenti dei saggi. Le affermazioni
di Gesù in questi detti investono direttamente il
cuore del messaggio della Torah.
Per dimostrare concretamente di non «abolire la Legge
e i Profeti, ma di dare loro compimento», Gesù espone
una serie di insegnamenti che, messi insieme, esigono,
nei confronti della Torah, un impegno più profondo di
quello che la gente aveva compreso. Non basta da parte
mia non uccidere: io non devo nemmeno oltrepassare
quello stadio d’ira che porta, in ultima analisi, all’omicidio.
Non è sufficiente da parte mia non commettere adulterio:
non devo nemmeno incamminarmi sulla strada che
conduce fino al l’adulterio. Non basta da parte mia non
spergiurare in nome di Dio: non devo giurare affatto.
Queste affermazioni rappresentano un’elaborazione di
tre dei Dieci Comandamenti (più tardi ne incontreremo
altre due). Abbiamo visto in precedenza che il trattato
Avot, ascritto dalla tradizione a rabbini vissuti assai prima
dell’epoca di Gesù, consiglia di «fare una siepe intorno
alla legge», cioè di comportarsi in modo da evitare
non solo il peccato, ma persino le cose che possono condurre
al peccato.
Ricercando la riconciliazione, mi metto al riparo dalla
volontà di uccidere; per mezzo della castità di pensiero,
mi metto al riparo dal consumare l’adulterio; non giurando
mi metto al riparo contro i giuramenti falsi. Questo è
un messaggio che vale la pena ascoltare, che spiega il
53
contrasto piuttosto strano fra quello che io ho ascoltato e
quello che ascolto ora. Si tratta di uno stratagemma intelligente,
però, per attirare la mia attenzione; è riuscito nell’impresa
e ne sono molto impressionato. I rabbini avrebbero
raggiunto, indubbiamente, nei grandi testi rabbinici
posteriori la stessa conclusione per evitare l’ira, la tentazione,
i voti e giuramenti, ma questo fatto non rientra nella
nostra discussione. Degno di maggior attenzione è invece
il fatto che molti insegnamenti dei libri sapienziali e
profetici, per esempio il libro dei Proverbi, portano alla
stessa lodevole conclusione; il Signore odia, per esempio,
un falso testimone, odia che tu desideri in cuor tuo la bellezza
di una donna cattiva e non permette che tu sia adescato
dai suoi sguardi (cfr. Proverbi 6,25-26), e così via.
Ma non basta: l’insegnamento della Torah, attraverso
la sua parafrasi, formerà più tardi una “siepe” di insegnamenti
rabbinici. Possiamo far riferimento, infatti, a un
grande maestro, Johanan ben Zaccai (il nome è strano:
“Johanan” significa Giovanni e “ben Zaccai” può tradursi
“il giusto”; da qui “Giovanni il Giusto”, che suona meno
stravagante) per ritrovare, nei detti attribuiti a lui ed ai
suoi discepoli, lo stesso programma: riaffermare in termini
concreti e in un contesto più profondo le richieste
della Torah del Sinai. Una rapida occhiata alla maniera
in cui egli insegnò ai suoi discepoli e alla loro maniera di
parafrasare gli insegnamenti della Torah per farli allo
stesso tempo, più concreti e più profondi, dimostrerà
perché mi sento tanto a mio agio, ascoltando le parole
dalla montagna in Galilea:
«Rabban Johanan figlio di Zaccai ricevette la tradizione da
Hillel e da Shammài. Egli diceva: “Se tu hai studiato molto
la santa Legge non fartene un merito, perché a tal uopo fosti
creato”.
54
Cinque discepoli ebbe Rabban Johanan ben Zaccai, e questi
sono: R. Eliezer figlio di Ircano; R. Giosuè figlio di Hananià;
Rabbi Josè il Sacerdote; R. Simeone figlio di Netanèl e
Rabbi Eleazaro figlio di Aràch...
Ei disse loro: “Considerate un po’ quale sia la via retta a cui
l’uomo debba attenersi”. R. Eliezer disse: “Un buon occhio”.
R. Jehoshua disse: “Un buon compagno”. R. Josè
disse: “Un buon vicino”. R. Simeone disse: “Essere previdente”.
R. Eleazaro disse: “Un buon cuore”. Ei disse loro:
“Io approvo la sentenza di R. Eleazaro figlio di Aràch, più
che le vostre sentenze, perché nelle sue parole sono comprese
anche le vostre”. Ei disse loro altresì: “Considerate un
po’quale sia la via cattiva da cui l’uomo deve tenersi lontano”.
R. Eliezer disse: “Un cattivo occhio”. R. Giosuè disse:
“Un cattivo compagno”. R. Josè disse: “Un cattivo vicino”.
R. Simeone disse: “Prendere a prestito e non pagare...”. R.
Eleazaro disse: “Un cattivo cuore”. Ei disse loro: “Io approvo
la sentenza di R. Eleazaro figlio di Aràch più che le vostre
sentenze, perché nelle sue parole sono comprese anche
le vostre”.
Essi dicevano tre cose: R. Eliezer diceva: “ti sia l’onore del
tuo prossimo altrettanto caro che il tuo; non lasciarti trasportare
facilmente dall’ira; fa’ penitenza un giorno prima
della tua morte...”. Rabbi Josè diceva: “Gli averi del tuo
prossimo ti siano altrettanto cari quanto i tuoi; metti ogni
tua disposizione nello studio della Legge, perché essa non ti
può essere lasciata in retaggio, e tutte le opere tue sian&a
fine di Dio”» (Mishnah, Trattato Avot 2,8-13; traduzioni
italiana di V. Castiglioni, Mishnaiot - Ordine Quarto: Nezikin,
Roma 1962, pp. 293-294).
Se volessi spiegare il significato del grande comandamento
«Tu amerai il tuo prossimo come te stesso» (Levitico
19,18), non potrei far di meglio che rivolgermi ai discepoli
di Johanan ben Zaccai. La frase finale mi avvicina
alla sua massima estensione: «amare il mio prossimo
55
come me stesso» significa che debbo prendermi cura dell’onore
del mio vicino come del mio onore, del denaro
del mio vicino come del mio. Né Gesù né i discepoli di
Johanan ben Zaccai menzionano passi della Scrittura o
esempi. I discepoli replicano alle domande del maestro;
Levitico 19,18 non viene citato, ma è ben presente. Reso
alla maniera in cui Matteo presenta Gesù, dovrebbe suonare
così: «Avete inteso che fu detto: “Amerai il prossimo
tuo come te stesso”. Ma io vi dico: l’onore del tuo
prossimo ti sia caro quanto il tuo».
«Avete inteso che fu detto: “Amerai il tuo prossimo
come te stesso”. Ma io vi dico: il denaro del tuo prossimo
ti sia caro come il tuo».
Voi comprendete che cosa intendo dire quando affermo
che il messaggio riscuote la mia fiducia, ma che la
sua forma è scioccante. Facendo ricorso alla Torah e
spiegando che capirne le vere richieste travalica la comprensione
attuale della gente, Gesù raggiunge lo scopo
che i saggi si erano prefissi, che consiste non solo nel ricevere
la Torah, ma anche nel trasmetterla. E ciò significa
non solo ripetere o parafrasare, ma anche insegnare,
spiegare, estendere, ampliare, arricchire. In questi detti è
proprio questo ciò che Gesù realizza.
Ciò non significa che tutto quello che ho ascoltato nella
frase: «Voi avete inteso che fu detto» è addirittura migliore
dell’insegnamento a me familiare. Cerco invano
fra queste affermazioni l’ovvia conferma all’affermazione
di Gesù di non essere venuto a distruggere, ma a dare
compimento. Perché la quarta e la quinta affermazione
presentano, infatti, un problema diverso. Non bisogna resistere
al male? La Torah e i Profeti affermano il contrario.
Nessuno pensava, ovviamente, che sarebbe stata giusta
la precisa retribuzione fisica: il risarcimento in denaro
per lesioni personali non sorprende nessuno.
Ma non resistere a chi è cattivo non ha a che fare con
«occhio per occhio». Questo non rientra nella categoria
di «fare una siepe intorno alla legge». È un dovere religioso
resistere al male, combattere per il bene, amare
Dio e combattere quelli che diventeranno nemici di Dio.
La Torah non conosce l’idea di non resistere al male e
non ha stima né del codardo che si sottomette al male, né
del superbo che considera poco consono alla propria dignità
opporsi al male. Restare passivi di fronte al male fa
il gioco del male. La Torah richiede sempre dall’Eterno
Israele di combattere per la causa di Dio; la Torah ammette
la guerra, riconoscendo l’uso legittimo della forza.
Trovo sorprendente, perciò, l’affermazione di Gesù che è
un dovere religioso piegarsi di fronte al male.
Il libro dei Proverbi ci insegna, invero, che «una risposta
gentile calma la collera» (Proverbi 15,1). Chiunque
conosce questo versetto lo avrà paragonato al suo allargamento
da parte di Gesù. Non dovremmo ignorare,
inoltre, un altro versetto del libro dei Proverbi, che recita:
«Se il tuo nemico ha fame, dagli pane da mangiare; se
ha sete, dagli acqua da bere; così ammasserai tu stesso
carboni ardenti sul suo capo e il Signore ti ricompenserà
» (Proverbi 25,21-22). Questo consiglio, per quanto
sottile, ci prepara a fatica al comandamento: «Non opponete
resistenza a chi è malvagio», che esige qualcosa di
completamente diverso.
La quinta affermazione cita un detto assente nella Torah,
che non prescrive in nessun comandamento di odiare
i propri nemici. L’insegnamento dei rabbini posteriore
sostiene: «Odia il male, non colui che lo fa». Chiunque
conosca la Torah si chiederà stupito dove avremmo dovuto
ascoltare questo comandamento che Dio non comandò
a Mosè di dirci. I nemici di Dio rappresentano
però un altro problema e dobbiamo resistere contro questi,
come fa lo stesso Gesù in altre parti del racconto. Ma
non basta: la Torah ci dice chiaramente di combattere
contro i nemici di Dio. Fra i molti ne ricordiamo solo
due: Amalek e Core.
Nel tentativo di dare un senso a questi due casi, trovo
assai intelligente l’osservazione di C. G. Montefiore:
«Gesù non stava pensando alla giustizia pubblica, all’ordinamento
della comunità civile, all’organizzazione dello stato,
ma soltanto al comportamento che i membri della sua
associazione religiosa avrebbero dovuto tenere gli uni verso
gli altri e al loro esterno. La giustizia pubblica è fuori dal
suo pensiero»1.
Chi può dissentire se Gesù voleva insegnare ai suoi discepoli
seduti attorno a lui a porgere l’altra guancia, a
permettere all’altro di impadronirsi del mantello di qualcuno,
a camminare per un miglio in più?
Questa è la strada della pazienza che, dopo tutto, i discepoli
di Johanan ben Zaccai descrivevano, allo stesso
modo, come la strada buona: un cuore aperto che, soprattutto,
perdona. Ma allora il messaggio non si rivolge a
quelli che stanno ai piedi della montagna, ma soltanto a
quelli che siedono sulla cima. In questo contesto possiamo
notare, ancora una volta, che l’insegnamento di Qesù
si incentra soprattutto sul “noi”, cioè sul piccolo gruppo
di discepoli che gli siede intorno sulla cima della montagna,
mentre il resto della gente restava giù ai suoi piedi.
Gesù non si rivolge all’Eterno Israele, ma ad un gruppo
di discepoli. Egli ha in mente ripetutamente un obiettivo
limitato. L’Eterno Israele non nasce, tuttavia, dal Sinai,
come un insieme di famiglie, ma come qualcosa di
1 C.G. M ontefiore, The Synoptic Gospels, Ktav Publishing House, New
York, 1968 (1927), p. 71.
58
più: una collettività che è formata da qualcosa in più della
somma delle parti, da qualcosa in più delle famiglie,
ma piuttosto un popolo, una nazione, una società: «un regno
di sacerdoti e un popolo santo». Man mano che l’insegnamento
si svela, io comincio a domandarmi se in
questo caso il bersaglio non sia stato mancato: non si
tratta di un errore, ma di un bersaglio non perfettamente
centrato. Gesù si rivolge sulla montagna non a “tutto
Israele” formato da individui e famiglie. Egli parla alle
nostre vite, ma non a tutto quello che forma il mondo in
cui viviamo. Noi ci troviamo ad ascoltare, infatti, un
messaggio destinato alla nostra stessa casa, per crescere
e per invecchiare, ma non per la nostra comunità, per lo
stato, per l’ordine sociale futuro, del quale fa parte l’Eterno
Israele.
Come osserveremo più avanti, notiamo subito, in primo
luogo, che Gesù si sofferma sui poveri, su quelli che
sono in lutto, sui deboli, sui misericordiosi, sui portatori
di pace. E tutti questi costituiscono l’Eterno Israele, forse,
dal punto di vista divino, sono proprio la parte migliore.
Ma io attendo un messaggio rivolto non solo a me
stesso o alla mia vita o alla mia famiglia, ma anche a tutti
noi, all’Eterno Israele, che si trovò al Sinai non come
una folla eterogenea, ma come popolo di Dio, come figli
di Abramo, Isacco e Giacobbe. Lo stesso Gesù - così mi
racconta Matteo - è figlio di Davide, figlio di Abramo.
Quando sta sulla montagna, tuttavia, non è questo l’uditorio
che egli contempla. Questo è però il pubblico di cui
faccio parte. Questo è ciò che io intendo per bersaglio
mancato. Questo basta per la sostanza; il silenzio si rivela
di cattivo augurio. Noi - l’Eterno Israele - abbiamo
bisogno della Torah perché ci dica che cosa Dio desidera
da noi. Gesù ha parlato, tuttavia, soltanto di come io, in
particolare, posso realizzare ciò che Dio vuole da me.
59
Passando dal “noi” del Sinai all’“io” presente nell’insegnamento
del maestro galileo, Gesù fa un passo importante,
ma nella direzione sbagliata. E se fossi stato là, mi
sarei chiesto che cosa doveva dire non a me, ma a tutto
Israele, riunito davanti a lui quel giorno, nelle persone
presenti, per ascoltare il suo insegnamento.
Ma se il contenuto mi colpisce sia per i pregi sia per gli
errori, la forma in cui si esprime è meravigliosa, come
Matteo precisamente afferma. Se fossi stato là, avrei condiviso
lo stupore delle folle, proprio per la stessa ragione
offerta da Matteo: «perché egli insegnava loro come uno
che ha autorità e non come i loro scribi» (Matteo 7,29).
La frase «Voi avete inteso che fu detto» lascia inevase
le seguenti domande: da parte di chi? per che cosa? Un
maestro della Torah è giudicato dalla Torah e ne è responsabile.
Certamente, quando è in discussione la Torah, si richiede
un chiaro riferimento alla stessa Torah. E la perifrasi
qui è ambigua: chi non sa, infatti, se quel «fu detto
agli uomini antichi» si riferisca a ciò che Dio disse a
Mosè sul Sinai? Gesù sa questo lassù sulla montagna ed
io lo so come quelli intorno a me. Quello che ho udito è
infatti ciò che Dio disse a Mosè nella Torah'. «Non uccidere;
non commettere adulterio; non pronuncerai il nome
di Dio invano» e altri dei Dieci Comandamenti. Anche in
questo caso la corretta affermazione di interpretare quello
che dice la Torah è unita ad una formula davvero
sconcertante.
Confesso che sarei stato meravigliato. C’è qui un insegnante
della Torah che spiega in suo nome quello che la
Torah dice in nome di Dio. Una cosa è dire dal proprio
punto di vista in che modo un fondamentale insegnamento
della Torah orienta la vita di ogni giorno - per
esempio: «gli averi del tuo prossimo ti siano altrettanto
60
cari quanto i tuoi» -, ma tutt’altra è affermare che la Tornii
dice una cosa, «ma io sostengo...» e annunciare poi
in proprio nome quello che Dio espose sul monte Sinai.
Questo spiega sia la mia meraviglia, sia il mio apprezzamento
per l’insegnamento di un maestro della Torah che
mi aveva fatto comprendere meglio alcune delle cose
dette da Dio nella Torah. Egli mi aveva spiegato, nel
caso particolare, come innalzare una siepe intorno ad
alcuni dei Dieci Comandamenti e come comportarmi
in modo tale da mostrare la mia fede in Dio e nella Provvidenza
di Dio: «Non ti vantare del domani, perché non
sai neppure che cosa genera l’oggi» (Proverbi 27,1) e
così via.
Che tipo di insegnamento è quello che migliora gli insegnamenti
della Torah senza citarne la fonte e cioè Dio
stesso? Non sono tanto turbato dal messaggio, su alcuni
punti del quale potrei avanzare qualche obiezione, quanto
dal messaggero. La ragione sta nella forma scioccante
di questi insegnamenti. Mentre siede sulla montagna, la
frase di Gesù «voi avete inteso che fu detto... ma io vi dico
» si pone in aperto contrasto con la frase di Mosè sul
monte Sinai. I saggi, come abbiamo visto, dicono le cose
in base alla propria autorità, ma senza pretendere di migliorare
la Torah. Mosè, il profeta, non parla a proprio
nome, ma in nome di Dio, dichiarando quello che Dio gli
ha ordinato di dire. Gesù non parla né da saggio, né da
profeta. Dobbiamo notare che le prime parole dette da
Mosè quando si rivolse al popolo sul monte Sinai, furono
le seguenti: «Io sono il Signore Dio tuo che ti ha tratto
fuori dalla terra d’Egitto, fuori dalla casa di schiavitù».
Mosè parla da profeta di Dio, in nome di Dio, per gli
scopi di Dio.
Come debbo reagire, perciò, a questo “io” che contrasta
evidentemente con quello che gli ho sentire dire?
61
Lo stesso Matteo, a questo punto del racconto, evidenzia
il contrasto, affermando che «egli insegnava come uno
che ha autorità e non come i loro scribi». Il solo Mosè
aveva autorità. Gli scribi insegnano il messaggio e il significato
della Torah messa per iscritto da Mosè per ordine di
Dio. Eccoci, dunque, di fronte al problema di partenza:
come dare un senso, all’interno della Legge, a un maestro
che si stacca o si pone forse al di sopra di essa. Noi comprendiamo
adesso, da molti punti del dettagliato racconto
di Matteo sugli insegnamenti di Gesù, che alla fine c’è
proprio la figura di Gesù e non tanto i suoi insegnamenti.
Così, ripetutamente, nel contesto dei rapporti dei discepoli
con Gesù, viene detto loro: «Beati voi quando vi
insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno
ogni sorta di male contro di voi per causa mia» (Matteo
5,11); e ancora: «Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”,
entrerà nel Regno dei Cieli, ma colui che fa la
volontà del Padre mio che sta nei cieli» (Matteo 7,21); e
infine: «Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le
mette in pratica è simile ad un uomo saggio che ha costruito
la sua casa sulla roccia» (Matteo 7,24). Queste ed
altre simili affermazioni non sono rivolte all’“Eterno
Israele”, ma ai soli Israeliti (o altri) che riconoscono quel
“me”, che fa riferimento al “Padre mio” e che può parlare
di “queste mie parole”. Tutte queste cose producono
un solo risultato: sul Sinai Dio parlò per mezzo di Mosè,
ma su questa collina di Galilea Gesù parla per sé. Mosè
parlò per conto di Dio a “noi”, aH’“Eterno Israele” e noi,
Israele, rispondemmo tutti insieme: «Noi faremo, noi obbediremo
». In Galilea Gesù parla alle folle stupite per il
suo insegnamento, considerandole degli ascoltatori speciali,
singoli individui fra l’Eterno Israele, che ascoltano
questo maestro mentre si rivolge loro non come fanno «i
loro scribi», ma «come uno che ha autorità».
62
In futuro troverò il coraggio di avvicinarmi al maestro,.
di camminare con lui e di parlargli. Ma qui, durante questo
primo incontro, tengo i miei pensieri per me solo.
Quello che mi turba, tuttavia, è assai semplice e se quel
giorno avessi potuto salire sulla montagna e parlare sia
col maestro sia coi discepoli, avrei obiettato: «Come
puoi dire queste cose senza fondamento sulla base della
tua propria autorità e non sulla scorta degli insegnamenti
di Mosè sul Sinai? Sembra quasi che ti consideri Mosè o
superiore allo stesso Mosè. La Torah di Mosè non mi dice
che Dio sta per dare insegnamenti al di fuori di Mosè
e degli altri profeti oppure che ci sarà un’altra Torah.
Non so davvero che cosa fare di queste tue affermazioni.
Tu parli attraverso un “io”, ma la Torah parla soltanto a
“noi”, a noi che formiamo, insieme a te, Israele».
Perciò, sin dal primo giorno, comincia a farsi strada in
me l’idea che, se non credo già in questo “io” che contrasta
con la Torah, troverò straordinariamente difficile
capire il discorso che sto ascoltando. E questo vale specialmente
per quello specifico “obiettivo”, i «voi che sarete
perseguitati a causa mia», come se la massa di persone
ai piedi della montagna si fosse dileguata nelle colline
di Galilea. Nella scena che si svolge davanti ai nostri
occhi, Gesù comincia con un messaggio rivolto a tutto
Israele, ma, come abbiamo visto ora, finisce per rivolgersi
solo a quella parte di Israele che gli appartiene. Non
stupisce che il narratore ci parli dello stupore della folla,
quando Gesù ebbe finito di insegnare. Secondo il criterio
della Torah, Gesù ha chiesto quello che la Torah concede
soltanto a Dio.
E non basta: Gesù costruisce, ripetutamente, un muro
fra se stesso e gli altri Israeliti, che definisce ipocriti, come
provano i seguenti esempi: «Quando, dunque, fai l’elemosina,
non suonare la tromba davanti a te, come fan-
63
no gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade per essere
lodati dagli uomini» (Matteo 6,2). E ancora: «Quando
pregate, non siate simili agli ipocriti che amano pregare
stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze,
per essere visti dagli uomini... Ma quando tu preghi, entra
nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo
nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà
» (Matteo 6,5-6).
Prima di proseguire, permettetemi di rispondere a queste
critiche rivolte alla religiosità pubblica. Questi detti
presentano una solida critica contro le esagerazioni della
religiosità pubblica, ma, nello stesso tempo, respingono
la vita comunitaria di Israele. Una cosa è condannare gli
ipocriti perché ostentano la propria carità e la propria religiosità.
L’antico e il moderno Israele, il popolo eterno,
ha infatti una parte di ipocriti che si vantano della propria
religiosità. Ma tutt’altra cosa è dire che la vera preghiera
debba aver luogo individualmente, privatamente,
in segreto. Se Gesù intende dire che la preghiera pubblica
è sconveniente, egli mette allora in discussione la premessa
fondamentale della Torah, secondo la quale Israele
non serve Dio da solo, ma tutto insieme e allo stesso
tempo.
In verità la Torah riconosce le preghiere offerte da individui,
esclusivamente per proprio conta. La Torah
chiama tuttavia Israele a servire Dio in comunità - nel
tempio, per esempio - cosicché la Torah troverebbe difficilmente
sostenibile l’idea che la sola preghiera valida è
quella recitata in segreto. In una tale affermazione Gesù
mette in discussione tutta la tradizione della preghiera
comunitaria, di quel “noi” presente nella preghiera di
Israele.
Una cosa è rigettare quello che viene fatto in pubblico
perché la gente ostenta la propria religiosità - come ho
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visto fare nelle sinagoghe e nelle chiese a tal punto da
dubitare di codesta religiosità - , ma è ben altra cosa considerare
inutile la pratica del culto pubblico.
Ritornando al punto principale, come posso replicare,
restando all’interno della Torah, alle particolari affermazioni
sul giusto e sull’erroneo, sul vero e sul falso che
Gesù ha fatto questa mattina?
Intendo aprire un dialogo su un campo ben delimitato,
ricorrendo a un gruppo di fatti che condividiamo, cioè ai
dati della Torah.
La Torah non mi prepara ad ascoltare un messaggio
nel quale il suo messaggio contrasta con quel «io dico»,
né mi aiuta a capire un messaggio formulato in maniera
tale da mettere da parte la stessa Torah, cioè la fonte dell’insegnamento
impartito. Tutta la rivelazione sul Sinai
viene relegata, adesso, alla frase «fu detto» e questo in
netto contrasto con quell’“io”.
La Torah fu data, infine, a tutto Israele, riunito ai piedi
del Sinai, mentre questo insegnamento sembra avere un
valore speciale per quelli che lassù credono in colui che
lo impartisce come proprio. Costoro credono non tanto
che quel maestro conosca a fondo la Torah, quanto che
insegni molto sulla propria autorità, come se egli rivelasse
ciò che Dio vuole. Me ne vado via, portando con me
sia delle nuove ed originali interpretazioni dei Dieci Comandamenti,
sia un profondo turbamento. Evidentemente
c ’è qualcosa di diverso in gioco in questo insegnamento
rispetto all’insegnamento della Torah di Johanan ben
Zaccai e dei suoi discepoli.
Per fortuna, essendo sul posto, posso farmi largo fra la
folla, fino alle prime file e aspettare, per nulla intimidito,
che il maestro mi passi vicino.
Io: «Maestro, posso farti una domanda?». Lui: «Fammela
». Io: «Possiamo parlare di quello che hai detto que-
65
sta mattina, non dei dettagli, ma del punto fondamentale?
». Lui: «Quale credi che sia il punto fondamentale?».
Io: «Tu dici questo: “Non pensiate che io sia venuto ad
abolire la Torah e i Profeti; non sono venuto ad abolirli,
ma a dar loro compimento”. Ma se tu avessi voluto abolire
la Torah e non darle compimento, non avresti avuto
modo migliore che evitare di citare ciò che la Torah di
fatto dice, che, lo ammetto volentieri, tu migliori in modo
impressionante. Tu mi insegni come osservare alcuni
dei Dieci Comandamenti meglio di prima, ma dimentichi
di dirmi quello che hai davvero in mente. Mi consigli come
applicare alcune sagge massime dei Proverbi, ma non
citi i Proverbi. La gente è sorpresa da come parli, perché
non parli come un maestro della Torah, ma in un altro
modo».
Gesù non risponde allo stupore delle folle. Con questo
dettaglio si conclude il racconto del grande messaggio.
E tuttavia...
E tuttavia io ascolto invano questo messaggio dalla
montagna, alla ricerca di un insegnamento per la gente
che sta in basso, per tutti noi, tutti insieme, ugualmente:
Israele. Credo di non aver ascoltato cose più sconvolgenti
di quelle che ho ascoltato. In fin dei conti Gesù elabora
il proprio messaggio in un modo accattivante: «Voi avete
inteso che fu detto... ma io vi dico...» certamente sorprende.
Benissimo. Molto di quello che dice esige rispetto,
qualcosa strappa l’assenso, e una parte del dissenso è
costituito solo da cavilli.
Ma se i discepoli che stavano in prima fila fossero venuti
da me e mi avessero detto: «Non è poi così male, vero?
Vieni con noi?», avrei risposto: «Se venissi con voi,
abbandonerei Dio».
E replicando alla loro meraviglia avrei detto: «Quan
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do Dio parla attraverso Mosè, parla a tutto Israele, mentre
il vostro maestro parla soltanto a voi. Il resto di noi
sono fuori gioco. E Dio non conosce israeliti fuori gioco,
ma soltanto peccatori, ai quali la Torah insegna a
pentirsi.
Gesù mi ricorda un profeta che parla in virtù della sua
autorità, ma non un profeta d’Israele. Egli parla come
uno di fuori, oppure, se ammettiamo che egli è più iniziato
di noi, allora molto di quello che dice mette fuori il
resto di noi.
Egli è uno di noi, ma ci osserva da lontano, come un
altro profeta su un’altra montagna molto tempo fa, ma
quel profeta era sorto fra i gentili:
“La mattina Balak prese Balaam e lo fece salire a Bamot
Baal, da dove si vedeva un’estremità dell’accampamento
del popolo” (Numeri 22,41). “Dalla cima delle rupi
lo vedo, dalle alture lo contemplo” (Numeri 23,9).
Guardando sempre da lontano, [Balaam] venne per maledire,
ma fu costretto da Dio a benedire”.
Il vostro maestro benedice quelli che fanno ciò che
egli dice. Dammi piuttosto il rimprovero dei profeti di
Israele che non la benedizione del profeta dei gentili2. Il
suo insegnamento è per alcuni di noi, ma la Torah ci giudica
tutti».
No, se fossi stato là quel giorno, non mi sarei aggregato
a quei discepoli per seguire il maestro lungo la sua
strada. Me ne sarei tornato invece alla mia famiglia e al
mio villaggio, proseguendo la mia vita come una parte
deH’Etemo Israele e all’interno di esso. Montefiore spiega
il perché: «La giustizia pubblica è fuori dal suo sco-
2 II profeta dei gentili è Balaam, protagonista dei capitoli 22-24 del libro
dei Numeri. Chiamato da Balak, re di Moab, a maledire Israele, fu costretto
suo malgrado a benedirlo (N.d.C.).
67
po...», come pure tutto quanto l’Eterno Israele nel quale
esisto. Non intendo recare offesa. Ma eccepisco contro
un insegnamento che mi tocca solo personalmente, ma
non tocca la mia famiglia e il mio paese, l’Eterno Israele,
quale noi qui e ora l’incarniamo.
68
4
«ONORA TUO PADRE E TUA MADRE»
CONTRO
«NON CREDIATE CHE IO SIA VENUTO
A PORTARE PACE SULLA TERRA»
«Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra;
non sono venuto a portare la pace, ma una spada. Sono venuto
infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre,
la nuora dalla suocera e i nemici dell’uomo saranno
quelli della sua casa. Chi ama il padre e la madre più di me
non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me
non è degno di me»
(Matteo 10,34-37).
Anche se avevo deciso, dopo aver ascoltato il “Discorso
della Montagna”, di non seguire il maestro e di tornare
tranquillamente a casa, il mio interesse per quello che
il maestro aveva detto restava vivo e non credo che, se
fossi vissuto allora, sarebbe scemato facilmente. Nessuna
persona riflessiva avrebbe potuto ascoltare queste parole
stimolanti senza reagire, visto e considerato che,
grazie alla forza del loro messaggio e non soltanto grazie
alla potenza degli eserciti cristiani, gli insegnamenti di
Gesù conquistarono e costituirono larga parte della civiltà
mondiale. Così, dirigendomi verso casa, avrei passato
tutto il pomeriggio attraversando la Galilea e riflettendo
su quello che avevo ascoltato quel giorno.
69. -
.
Avendo in mente soprattutto la Torah, le impressionanti
formulazioni di Gesù sui Dieci Comandamenti -
non solo non debbo uccidere, ma non debbo neanche irritarmi;
non solo non debbo commettere adulterio, ma
non debbo nemmeno pensarlo; non solo non debbo giurare
il falso (non pronunciare il nome di Dio invano), ma
non debbo giurare affatto - mi avrebbero colpito come le
sue affermazioni più attraenti. La ragione non risiede
nell’attenzione per i Dieci Comandamenti, tanto puntigliosa
da respingere persino la possibilità di pensare di
violarli. Avrei ammirato questo precetto, ma non lo avrei
certamente considerato originale; qualcun altro disse di
«fare una siepe» intorno alla Torah. Questa particolare
“siepe” sposta, invero, il confine che protegge i comandamenti
da fuori a dentro, cioè al cuore, all’intelligenza,
all’immaginazione. Queste affermazioni toccano, certamente,
la mia vita quotidiana; in essa l’omicidio è insolito,
ma l’ira è abituale, l’adulterio è raro, ma fantasticarne
è frequente, il giuramento falso è eccezionale, ma giurare
è normale. Egli ha usato, perciò, il potere della sua immaginazione
per rendere questi comandamenti più diretti
e urgenti.
Ammirando la forza di queste affermazioni, io rifletto,
tuttavia, pure sul loro pathos perché laddove siamo forti
è proprio là che risiede anche la nostra debolezza.. Per
spiegare ciò che intendo, sottolineo che non viviamo soltanto
dentro di noi, cioè nella nostra coscienza. Viviamo
anche in comunità, in mezzo ad altra gente. Nessuno di
noi è soltanto un “io”; tutti noi facciamo parte anche di
un “noi”. E questo “noi” è fatto di case e di famiglie, ma
anche di comunità oltre i muri delle nostre case. E evidente,
adesso, che Gesù ha parlato alla sfera privata, così
come parlò della preghiera in una stanza chiusa. Ma noi,
l’Eterno Israele, preghiamo insieme, non solo e non tanto
per nostro conto, «in una stanza chiusa». Il parere di Gesù
contrasta con ciò che siamo e con chi siamo, cioè
sempre e comunque “Israele”, tutto un popolo, una comunità
di famiglie, ognuno di noi con gli stessi genitori e
con gli stessi nonni, Abramo e Sara, Isacco e Rebecca,
Giacobbe e Lia e Rachele, il cui Dio è il Dio di tutti noi.
Perciò preghiamo così: «Benedetto sei Tu, Signore, Dio
di Abramo, Isacco e Giacobbe...». Come ci può essere
spazio, in una stanza chiusa, per questo “noi”, per tutta
questa famiglia?
E questa idea della preghiera ha molto più valore come
insegnamento per la vita interiore; la forza del “Discorso
della Montagna”, per quanto io riesco a capirlo, governa
una sola dimensione della mia esistenza, quella individuale.
Le altre due dimensioni, quella comunitaria e
quella famigliare, sono purtroppo assenti. Nell’ordine naturale
prima viene la famiglia, poi il villaggio, e solo dopo
l’individuo trova il suo posto nell’ordine delle cose.
Perciò l’insegnamento che ho ascoltato dalla cima della
montagna trascura, a mio avviso, le prime due dimensioni
della vita.
Ma non subito. Colpito dall’originale e profonda lettura
dei comandamenti personali, sarei tornato a riflettere
soltanto più tardi sulle mie riserve iniziali su Gesù. E sarei
tornato al cuore del problema, solo dopo aver ripassato
nella mia mente gli altri comandamenti. Posso leggerli
nella maniera in cui il maestro insegnò gli altri? C’è un
messaggio che posso isolare - forse non così insistentemente
come «voi avete sentito che fu detto..., ma io vi
dico» - in risposta ad alcuni altri fra i Dieci Comandamenti,
oltre a quelli che Gesù insegnò con tanta forza?
Volevo non soltanto imparare ma anche trarre delle
conclusioni, non solo prendere appunti, ma anche prendere
dei rischi, cioè spingermi con il pensiero al di là di
quello che avevo ascoltato. La grandezza di questo maestro
e di questo insegnante sta, infatti, non solo in quello
che dice, ma anche nel modo in cui mi insegna a pensare
come lui. E il valore di un buon allievo, quale io voglio
essere in questa lezione di Torah, si manifesta non dalle
lezioni che impara, ma dalle conclusioni che sa trarne.
Mentre il maestro capace insegna e l’allievo diligente
impara, il grande maestro mostra come studiare e il grande
allievo sa trarne le conclusioni.
Perciò, per parlare adesso della nostra vita attuale, essendo
stato talvolta insegnante, ma sempre studente -
anche nel senso di allievo dei miei studenti passati -, ho
imparato che un allievo diligente prende appunti, ma uno
grande trae le conclusioni.
Tuttavia si possono trarre delle conclusioni soltanto se
si parla, se si espone un punto di vista, se si discute e si
dibatte, se si ascolta attentamente l’altro e si presta attenzione
a ciò che egli dice. Prendo Gesù sul serio; anche
ignorando quale sarà il seguito della sua vita e dei suoi
insegnamenti, capisco che sta sfidando la mia capacità di
comprensione della Torah. Perciò gli rendo l’omaggio di
un incontro approfondito coi suoi insegnamenti. Voglio
raggiungere delle conclusioni e questo significa usare
quello che ho imparato per mio conto, per passare dall’imitazione
alla ri-formazione.
Di conseguenza la conclusione che volevo raggiungere,
in questo lungo viaggio verso casa, vorrebbe riguardare
il modo corretto di intendere «Voi avete sentito...,
ma io vi dico» e poi quella meravigliosa “siepe per la
legge” esposta in un linguaggio insistente e provocatorio.
Nella mia mente penso ad uno studio parallelo per i tre
comandamenti che riguardano la condotta personale e
cioè non uccidere, non commettere adulterio, non nominare
il nome di Dio invano. Mentre penso e ripenso a
72
questi comandamenti, aspetto che essi mi indichino come
vivere la mia vita. Comincio perciò dai grandi comandamenti
teologici che formano il prologo: non avere
altri dei, non ti fare immagini scolpite.
Ma che cosa dire dello spazio fra ciò che è decisamente
pubblico e ciò che è più privato? Non si tratta di tutto
Israele in astratto, visto dalla prospettiva dei cieli, ma
neppure della semplice sfera della vita privata, della preghiera
nella stanza chiusa, autosufficiente. Ecco, noi siamo
nel “mondo di mezzo” dove la vita è vissuta, con la
gente: Israele in comunità. Che dire della famiglia, la
pietra d’angolo dell’ordine sociale?
Gesù parte da affermazioni basilari riguardo alla vita
con Dio e conclude con insegnamenti sulla vita personale.
Nel mezzo, fra i comandamenti teologici iniziali e
quelli personali conclusivi, trovo due comandamenti, entrambi
incentrati sulla vita nella società di qui e di adesso.
Io vivo in essa e in essa ferve la vita. Queste parole
attraggono perciò la mia attenzione:
«Ricordati del giorno di sabato per santificarlo; sei giorni
faticherai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il
sabato in onore del Signore, tuo Dio; tu non farai alcun lavoro,
né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né
la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora
presso di te. Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e
la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il settimo
giorno. Perciò il Signore ha benedetto il giorno di sabato
e lo ha dichiarato sacro» (Esodo 20,8-11).
«Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi
giorni nel paese che ti dà il Signore, tuo Dio» (Esodo
20,12).
Qui non abbiamo a che fare con Dio e con il popolo,
Israele, da un lato, o con il comportamento individuale,
73
con i problemi di un agire retto e - Gesù vi insiste giustamente,
e non è il solo fra i maestri della Torah - di un
giusto pensiero, dall’altro.
Un comandamento riguarda il sabato, facendo riferimento
alla creazione; l’altro fa riferimento in particolare
alla casa e alla famiglia: la vita domestica. Qui la mia riflessione
investe non tanto tutto Israele o il mio comportamento,
quanto la pietra fondante dell’Eterno Israele a
partire da Abramo, Isacco, Giacobbe fino a mia madre e
a mio padre. Nel prossimo capitolo cercherò di trattare
del comandamento sul sabato, ossia il momento in cui la
famiglia e la casa si uniscono ad altre famiglie e ad altre
case per un istante sacro in un unico posto e in questo
spazio sacro viene celebrata la creazione del mondo naturale:
la santificazione del tempo e dello spazio nella
natura.
Venendo proprio al punto, l’insegnamento di Gesù sul
comandamento che riguarda la famiglia - «Onora tuo
padre e tua madre perché si prolunghino i tuoi giorni nel
paese che ti dà il Signore, tuo Dio» (Esodo 20,12) - mi
spaventa e mi preoccupa. Egli contraddice direttamente
la Torah affermando che «Io sono venuto a mettere l’uomo
contro suo padre e la figlia contro sua madre...».
L’Eterno Israele possiede la terra - così dicono i Dieci
Comandamenti - perché onora il padre e la madre.
Quando Dio dice a Mosè: «perché si prolunghino i tuoi
giorni nella terra che ti dà il Signore, tuo Dio», gli interessi
non sono banali. Ora, nel contesto del messaggio di
Gesù, un discepolo può farmi notare che, per seguire Gesù,
io debbo porre il mio amore per lui al di sopra di
quello per i miei genitori. Si legge infatti: «Chi non prende
la sua croce e non mi segue, non è degno di me. Chi
avrà trovato la sua vita, la perderà; e chi avrà perduto la
sua vita per causa mia, la troverà» (Matteo 10,38-39).
74
Tuttavia se faccio come egli dice, abbandono mio padre
e mia madre, i miei fratelli e le mie sorelle, mia moglie e
i miei figli. Che cosa vuol dire, allora, far parte di Israele?
Se tutti noi facessimo quello che egli vuole, la famiglia
si disintegrerebbe, la casa crollerebbe e quello che
tiene unito il villaggio e la terra, il corpo della famiglia,
cederebbe. Per seguirlo, debbo violare uno dei Dieci Comandamenti?
Inoltre nella rappresentazione della Torah, “Israele” ,
forma una famiglia: vale a dire l’Israele reale, l’Israele
“secondo la carne”, per usare una frase cristiana posteriore,
la famiglia viva e presente di Abramo e Sara, Isacco
e Rebecca, Giacobbe, Lia e Rachele. Noi preghiamo il
Dio che conosciamo prima di tutto attraverso la testimonianza
della nostra famiglia, il Dio di Abramo e Sara,
Isacco e Rebecca, Giacobbe, Lia e Rachele. Perciò, per
spiegare chi siamo, l’Eterno Israele, i saggi fanno ricorso
alla metafora della genealogia, perché il legame della
carne, e della famiglia costituisce la ragione logica dell’esistenza
sociale di Israele. Gesù farebbe lo stesso, rovesciando
senza sforzo la metafora: la mia famiglia è
composta di persone che fanno quello che vuole Dio,
convertendo la genealogia in vera religiosità.
Perciò io non definisco personale, ma pubblico, sociale
e corporativo il comandamento che riguarda l’onore
dovuto al padre e alla madre. Gesù mette in discussione,
dunque, il primato della famiglia nella scala delle mie responsabilità,
la centralità della famiglia nell’ordine sociale.
Ma non basta, dal momento che Gesù afferma
esplicitamente:
«Mentre egli parlava ancora alla folla, sua madre e i suoi
fratelli, stando fuori in disparte, cercavano di parlargli.
Qualcuno gli disse: “Ecco, di fuori tua madre e i tuoi fratelli
75
che vogliono parlarti”. Ed egli, rispondendo a chi lo informava,
disse: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?”.
Poi stendendo la mano verso i suoi discepoli disse: “Ecco
mia madre ed ecco i miei fratelli; perché chiunque fa la volontà
del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello,
sorella, madre”» (Matteo 12,46-50).
Gesù non mi insegna, allora, a violare, fra tutti i Dieci
Comandamenti, uno dei due grandi comandamenti che
riguardano l’ordine sociale? Il discepolo potrebbe ribattere
che «per servirlo, noi dobbiamo andare con lui. Il
padre e la madre ti danno la vita in questo mondo, ma
Gesù, che noi conosciamo come il Cristo, dà la vita eterna
». Ed anche in un più semplice contesto accademico -
poiché noi possiamo occuparci soltanto degli insegnamenti
di Gesù, di Gesù come insegnante di principi specifici
- la maniera di imparare consiste nel seguire, imitare,
osservare e ancora nell’ascoltare e nel discutere e
non solo nel restare ai piedi della montagna per un’ora o
poco più. Il discepolo - forse lo stesso Matteo - concluderebbe
così: «Stargli accanto per un’ora non significa
imparare la sua Torah, ma solo ascoltare le sue parole».
Dopo tutto, ogni vero maestro non insegna forse con
l’esempio e con il gesto, più che con le parole? La Torah
muore se resta un semplice libro fatto di semplici parole
scritte su una pagina o su una pergamena. La Torah vive,
specialmente, nell’atteggiamento e nell’azione, nella maniera
in cui i maestri della Torah la incarnano. Perciò la
richiesta di studiare la Torah ad un certo punto contrasta
con la richiesta di onorare il padre e la madre. E non basta
poiché, dopo tutto, i discepoli di Gesù ancora oggi
trascurano sia i loro genitori sia i loro doveri famigliari.
Se un discepolo è sposato, che ne sarà della moglie e dei
figli? La Torah ci comanda non solo di onorare i genito76
ri, ma anche di comportarci in maniera responsabile verso
la nostra sposa: che ne è di questo?
In un mondo nel quale è dato per scontato che discepoli
e maestri sono tutti uomini, che ne è delle mogli? In
gioco non ci sono solo i genitori, ci sono la moglie e i figli,
la casa, l’intera famiglia, descritta con così tanti dettagli
nel comandamento che riguarda il sabato: «Tu, o
tuo figlio o tua figlia, la tua serva o il tuo servo, o il tuo
bestiame, o il forestiero che è presso di te» (Esodo
20,10). Ciò che mi turba profondamente, pertanto, è che
seguendo Gesù, abbandonerò la mia casa e la mia famiglia,
mentre la Torah mi ha imposto sacre responsabilità
proprio verso la casa, verso la famiglia e anche verso la
comunità.
Non afferma Gesù che è nostro compito eseguire i comandamenti
che Dio diede anche ad Adamo ed Èva: essere
fecondi e moltiplicarsi, per perpetuare la vita sulla
terra? Matteo non ci dice che fosse sposato o che avesse
una famiglia con figli; egli dice ai suoi discepoli, tuttavia,
di prendere la croce e di seguirlo, mentre, al contrario,
il principio fondamentale in vista del regno dei cieli
che la Torah chiede a Israele di realizzare è quello di formare
una società durevole nella santificazione.
I maestri della Torah ed i loro discepoli affronteranno
più tardi lo stesso problema e, dopo tutto, il discepolo
perspicace noterà che in seguito i maestri avrebbero
chiamato i loro discepoli ad abbandonare le loro case e
le loro famiglie ed essi stessi avrebbero lasciato per lunghi
periodi le proprie mogli e i propri figli per studiare la
Torah. In verità una delle più grandi storie d’amore dell’ebraismo
è costruita proprio su questo motivo: la volontà
della donna di mandare il proprio marito a studiare
la Torah anche a costo di essere trascurata. Gesù esige
per se stesso niente di più di quello che i maestri della
77
Torah esigevano per la Torah: anteporre la Torah alla casa
e alla famiglia.
Ma ecco cosa si racconta di questa storia d’amore in
un trattato del Talmud:
«Rabbi Aqiba, che non sapeva né leggere né scrivere, lavorava
come pastore presso Ben Kalba Sabua. La figlia di
quest’uomo, accortasi di quanto egli fosse morigerato e
gentile, gli disse: “Se noi fossimo fidanzati, andresti a
scuola a studiare la TorahT. Egli rispose di sì. Si fidanzò
segretamente con lui e lo mandò via. Quando suo padre lo
venne a sapere, la cacciò di casa e giurò di diseredarla. Egli
andò e studiò per dodici anni. Quando tornò a casa, portò
con sé dodicimila discepoli e sentì un saggio che diceva alla
sua promessa sposa: “Per quanto tempo ancora vivrai
come una vedova?”. Lei gli rispose: “Se facesse attenzione
a ciò che desidero, egli dovrebbe studiare per altri dodici
anni”. Egli disse: “È quello che farò con il suo permesso”.
Quando ritornò per la seconda volta, portò con sé ventiquattromila
discepoli. La moglie lo seppe e gli andò incontro.
I suoi vicini le dissero: “Prendi in prestito qualche bel
vestito ed indossalo”, ma lei rispose loro: “Il giusto ha cura
del suo bestiame” (Proverbi 12,10). Quando venne da lui,
si prostrò e gli baciò i piedi. I suoi servi stavano per allontanarla,
ma egli ordinò loro: “Lasciatela stare: quello che è
mio e quello che è vostro appartengono interamente a lei”.
Avendo suo padre udito che un importante studioso era venuto
in città si disse: “Mi recherò da lui e forse scioglierà il
voto che ho fatto”. Andò da lui e quello gli disse: “Hai fatto
questo voto perché volevi avere un importante studioso
[come genero]?”. Ben Kalba Sabua gli rispose: “Se avessi
studiato un solo capitolo oppure una sola legge [non avrei
fatto questo voto]”. Rabbi Akiba gli disse: “Quell’uomo
sono io”. L’altro si prostrò davanti a lui baciandogli i piedi
e gli diede metà dei suoi beni» (Talmud Babilonese, Trattato
Ketubot 62b-63a).
78
Che motivo c’è, perciò, di discutere con Gesù, visto
che egli ha detto ai suoi discepoli: «Chi ama suo padre o
sua madre più di me non è degno di me; e chi ama suo
figlio o sua figlia più di me, non è degno di me»? Se la
Torah fosse personificata, così come lo è la Sapienza
nella Scrittura, non avrebbe potuto dire di meno. Tutto
quello che Gesù chiese ai discepoli fu di amarlo più di
quanto essi amassero la propria famiglia. E Gesù non
sta forse costruendo una famiglia, edificandola sulle
fondamenta della fedeltà e dell’amore? E non si tratta,
forse, di una famiglia soprannaturale, nel cui amore alla
fine si riflette qualcosa di soprannaturale? E la famiglia
non è forse il fondamento del regno dei cieli, la nuova
casa d’Israele? Così il discepolo potrebbe dire per conto
del maestro.
Ma non basta: il discepolo perspicace potrebbe giustamente
osservare che altri maestri, in seguito, non avrebbero
avanzato pretese minori, e, anche in questo caso,
quel discepolo avrebbe ragione.
Nella Torah, secondo l’interpretazione di altri saggi,
ad Israele sarebbe stato ordinato di anteporre l’onore per
la Torah, vista anche nella persona del saggio, a quello
del padre e della madre. In che cosa differisce questa
prescrizione da quella di Gesù? Tra un momento ritorneremo
all’unica differenza, nella quale risiede, naturalmente,
il contrasto: la Torah contro Cristo. In seguito,
nelle affermazioni dei saggi, troviamo lo stesso contrasto
che abbiamo tracciato seguendo Gesù: la genealogia
contrapposta ad un altro legame, che va oltre quello della
famiglia, un legame soprannaturale: propriamente “una
famiglia santa”, fondata sulla santità, sull’amore che travalica
la comprensione, sull’amore sovrannaturale, se
vogliamo descriverlo in termini profani. Non meraviglia
che tanto i cattolici quanto gli ortodossi si trovino così a
79
proprio agio fra le braccia della Vergine Maria, per usare
in questo contesto il loro linguaggio.
Nel testo seguente lo studio della Torah è posto prima
di tutto in contrasto con lo status genealogico che a quel
tempo aveva grande importanza in Israele. Benché le
classi del tempio, i sacerdoti e i leviti, avessero la precedenza,
sulla base della genealogia che, secondo la Torah,
risaliva rispettivamente fino ad Aronne e a Mosè, nondimeno
il discepolo di un maestro aveva la precedenza:
«Il sacerdote precede il levita, il levita l’israelita laico, un
israelita precede un bastardo... Quando vigono queste norme?
Quando si trovano nelle medesime condizioni. Ma se il
bastardo era un conoscitore della Legge e il Sommo Pontefice
un ignorante, il bastardo istruito nella Legge ha la precedenza
sul Sommo Pontefice ignorante» (Mishnah, Trattato
Horaiot 3,8; traduzione italiana di V. Castiglioni, op. cit.,
p. 376).
Poiché una persona i cui genitori non potevano legalmente
contrarre matrimonio (per esempio fratello e sorella)
ha alle spalle un albero genealogico assai complicato
e di conseguenza anche uno status sociale altrettanto
problematico, è in certo modo rivoluzionario affermare
che questa persona abbia la precedenza su un
Sommo Sacerdote. Proiettando questa affermazione
nella realtà attuale, potremmo immaginare che, in un
pranzo ufficiale, un modesto professore associato di
scienze politiche abbia la precedenza non sul rettore
della propria università, ma sul presidente degli Stati
Uniti d ’America senza afferrare, però, completamente
quanto sia rivoluzionaria questa affermazione. Perché
la figlia di un rettore o del presidente degli Stati Uniti
d’America può sposare, infatti, un professore associato
80
0 un semplice laureato, ma la figlia di un sacerdote non
potrebbe, mai e poi mai, sposare il figlio nato da un’unione
illegittima.
Questa è la forza dell’affermazione: «Ma se il bastardo
era un conoscitore della Legge e il Sommo Pontefice era
ignorante, ora il bastardo istruito nella Legge ha la precedenza
sul Sommo Pontefice ignorante». Così, se Gesù
intende dire che la sua chiamata ha la precedenza su tutte
le altre chiamate, allora nel contesto che esaminerò più
avanti, potrei identificare certamente la sua chiamata con
l’insegnamento della Torah, come l’ho capito. Cioè: il
più umile discepolo del maestro aveva la precedenza sul
più illustre lignaggio familiare.
La Torah prende allora il posto della genealogia e il
maestro della Torah acquista un nuovo lignaggio. In questo
contesto comprendo che anche Gesù mi offre qualcosa
che è definibile come un nuovo lignaggio.
Egli è paragonabile, in verità, ad un padre spirituale.
In tale contesto, posso accettare la sua pretesa di riconoscere
una nuova famiglia, formata in risposta alla paternità
di Dio e al discepolato di Gesù? «Ecco mia madre e
1 miei fratelli! Chi fa la volontà del Padre mio che è nei
cieli è mio fratello, e mia sorella e mia madre» (Matteo
12,49-50). Posso dare un senso a questa affermazione in
rapporto alla Torah come io la comprendo adesso? Sì,
senza difficoltà.
Tuttavia è proprio su questo punto dello svolgimento
del dibattito che intendo discutere. Non è così semplice
capire come gli altri maestri della Torah, all’infuori di
Gesù, intendano il discepolato. Essi non pensano che il
discepolo debba rinnegare il proprio padre naturale in favore
di un nuovo padre, il maestro, che lo condurrà nella
vita futura. Ciò che essi pensano è abbastanza differente:
il maestro ha la precedenza sul padre; il padre e il mae-
81
stro restano accomunati, tuttavia, da un unico legame, da
un ordine sociale durevole. Leggiamo per esempio:
«Se uno deve ricuperare una cosa smarrita da lui e un’altra
smarrita da suo padre, la sua ha la precedenza; se una cosa
smarrita da lui e un’altra smarrita dal suo maestro, la sua ha
la precedenza; per una cosa smarrita dal padre e un’altra
smarrita dal maestro, quella del maestro ha la precedenza.
Perché il padre lo ha messo a questo mondo, ma il maestro
che gli ha insegnato sapienza gli procura la vita avvenire.
Se il padre è un sapiente ha la precedenza quella del padre.
Se suo padre e il suo maestro portano un peso, scarichi prima
quello del suo maestro, poi quello del padre. Se suo padre
e il suo maestro erano prigionieri, libera prima il maestro
e poi libera il padre. Se però il padre era un sapiente, libera
il padre e poi libera il maestro» (Mishnah, Trattato Baba
Metzia 2,11; traduzione di V. Castiglioni, op. cit., p. 53).
Ognuno è dunque responsabile di se stesso. Ma quello
che colpisce qui è, tuttavia, che il maestro e il padre possono
entrare in concorrenza, ma solo se quest’ultimo non
è un maestro della Torah', se lo è, allora il maestro della
Torah non ha la precedenza sul padre che gode della
stessa posizione.
L’analogia che ho illustrato qui - Cristo ha la precedenza
sulla famiglia, nel senso che la relazione sovrannaturale
ha la meglio su quella naturale così come la Torah
ha la precedenza sulla famiglia - viene meno perché
non è completamente esatta. Secondo l’interpretazione
dei saggi, la Torah rende uguale tutto Israele (ieri solo gli
uomini; oggi sia gli uomini sia le donne).
In caso di contrasto fra due richieste avanzate rispettivamente
da un maestro e da un genitore che non sa né
leggere né scrivere, la preminenza è stabilita dalla conoscenza
della Torah. Ma se il genitore è un saggio, allora
82
la sua richiesta, basata sia sulla Torah sia sulla genealogia,
prevale su quella del maestro.
Nel quadro di questa esposizione, l’analogia originale
sembra piuttosto confusa e fuori luogo. Ho comparato
Cristo e la Torah, ma la comparazione è errata, perché al
centro non sta né il maestro né il padre, ma la Torah. È la
conoscenza della Torah che conferisce all’uomo un certo
rango; ma se entrambi gli uomini godono dello stesso
rango, allora il padre ha la precedenza. Il detto di Gesù
può essere letto allo stesso modo? No di certo, poiché il
discepolato nei riguardi di Gesù è unico. Non è il discepolato
nei riguardi della Torah, che ognuno può studiare
approfonditamente, che conferirà un rango sovrannaturale
al rapporto fra due persone, il maestro e il discepolo. E
unicamente il discepolato nei riguardi di Gesù Cristo ad
essere in discussione e solo Gesù è chiamato alla missione
di Cristo. «Chiunque fa il volere del Padre mio che sta
nei cieli è mio fratello e mia sorella» non equivale a dire
«chiunque diviene un saggio, maestro della Torah, entra
nel rango della Torah». La prima affermazione è peculiare,
specifica rispetto a Gesù, l’altra è generale e applicabile
a chiunque. La Torah sta in un mondo, Cristo in un
altro.
Osserviamo ancora una volta quanto sia personale il
centro della predicazione di Gesù: esso ruota intorno a
lui e non intorno al suo messaggio. Comprendiamo perfettamente
che ognuno può padroneggiare la Torah e godere
dello stesso status rispetto agli altri studiosi, mentre
Gesù è l’unico modello. «Prendi la tua croce e seguimi»
non equivale a dire «Studia la Torah che io insegno e che
ho appreso dal mio maestro prima di me». «Seguimi» e
«Segui la Torah» sembrano simili, ma non lo sono. Sono,
invece, quasi il contrario. Ciascun israelita (allora solo
uomo; ma oggi uomo o donna) può studiare a fondo la
83
Torah e diventare un saggio, ma soltanto Gesù può essere
Gesù Cristo.
Le analogie che ho tracciato fra i due modelli di discepolato
a un saggio - quello di Gesù e quello della Mishnah
- non mi preparano affatto a questa pretesa, che va
ben oltre i confini della Torah, e che non è in ultima analisi
rilevante per la Torah. È davvero irrilevante discutere
sul fatto che Gesù, chiedendomi di amarlo più di quanto
io ami mio padre e mia madre, mi dica di violare uno dei
Dieci Comandamenti: questo non è in discussione. Fino
a ora ho tracciato solo un parallelo che ha condotto ad un
contrasto stupefacente. Ma non si può discutere in base a
teoremi che affermano che le linee parallele non si incontrano.
Perciò come posso discutere con Gesù, in quel
tempo e in quel luogo, su problemi che tutti noi dobbiamo
dibattere dovunque e sempre?
Per discutere dobbiamo enucleare un argomento in cui
non ci sia in gioco la Torah, ma piuttosto ciò di cui siamo
debitori verso Dio. Qual è l’interesse di Dio nell’onorare
il padre e la madre? Gesù è assai esplicito su questo
punto nello stesso passaggio: «Chi riceve voi riceve
me e chi riceve me riceve colui che mi ha mandato»
(Matteo 10,40). In gioco non c’è soltanto l’onore dovuto
al padre e alla madre rispetto all’onore dovuto al maestro,
né è specificato fin dove possiamo spingerci nel trascurare
i genitori per seguire Gesù (o per studiare la Torah).
Qui troviamo un’affermazione, connessa all’onore
per il padre e la madre, equivalente a quella di Gesù:
«Rabbi [Giuda il Patriarca] dice: “L’onore del padre e della
madre è caro a colui che parlò e il mondo fu perché l’onore
dato a loro è pari all’onore dato a Lui, il timore di loro è pari
al timore di Lui e chi maledice loro è come se maledicesse
Lui.
84
Sta scritto, infatti: ‘Onora tuo padre e tua madre’ e a questo
corrisponde: ‘Onora il Signore con i tuoi averi’ (.Proverbi
3.9). In tal modo, l’onore dovuto al padre o alla madre viene
equiparato a quello dovuto al Luogo (a Dio).
Sta scritto, infatti: ‘Ciascuno tema suo padre e sua madre’
(.Levitico 19,3) e a questo corrisponde: ‘Temerai il Signore
tuo Dio’ (Deuteronomio 6,13; 10,20). Così il timore del padre
e della madre è equiparato al timore del Luogo (di Dio).
Infine, sta scritto: ‘Chi maledice suo padre e sua madre dovrà
morire’ (Esodo 21,17), a cui corrisponde: ‘Se qualcuno
maledirà il suo Dio, porterà il peso del proprio peccato’ (Levitico
24,15).
Anche la maledizione del padre e della madre viene pertanto
equiparata a quella del Luogo (di Dio).
Considera, inoltre, quanto sia simile la ricompensa che è
promessa per l’osservanza di questi comandamenti. Sta
scritto, infatti: ‘Onora il Signore con i tuoi averi’ (Proverbi
3.9) e come ricompensa sta scritto: ‘I tuoi granai si riempiranno
in abbondanza’ (Proverbi 3,10).
Parallelamente, sta scritto: ‘Onora tuo padre e tua madre’ e
la ricompensa è: ‘Perché si prolunghino i tuoi giorni nella
terra che ti ha dato il Signore, tuo Dio’.
‘Temerai il Signore, tuo Dio’ (Deuteronomio 6,13) e come
ricompensa sta scritto: ‘Sorgerà un sole di giustizia per voi
che temete il mio nome’ (Malachia 3,20).
‘Ciascuno tema sua madre e suo padre e osservate i miei sabati’
(Levitico 19,3). Qual è dunque la ricompensa per l’osservanza
del sabato? ‘Se tratterrai il tuo piede dal sabato, allora
ti delizierai nel Signore che ti farà cavalcare sulle alture
della terra’ (Isaia 58,13-14)”» (Mekhilta di R. Ishmael su
Esodo 20,12; traduzione di A. Mello tratta da: Il dono della
Torah. Commento al Decalogo di Es 20 nella Mekhilta di R.
Ishmael, Roma 1982).
Adesso possiamo vedere che cosa c’è veramente in
gioco: l’onore dovuto ai genitori forma un’analogia
85
mondana rispetto all’onore di Dio. Il problema non è
perciò il solo discepolato, ma la comparazione delle e fra
le diverse relazioni: relazione del discepolo verso il maestro,
del figlio verso il padre, relazione dell’essere umano
verso Dio. E questo mi riporta alla discussione che io
avrei voluto intavolare se non con Gesù quel giorno, con
un suo discepolo il giorno seguente: «Il tuo maestro è
Dio?». Comprendo, infatti, che solo Dio può esigere da
me quello che sta chiedendo Gesù.
Se perciò non posso seguire il discepolo nell’affermare
che “seguendo Gesù io seguo Dio”; se non posso fare
questo, allora non posso nemmeno seguire quel maestro
lungo il sentiero che egli ha tracciato davanti a me con le
sue parole. Alla fine Gesù avanza una richiesta che soltanto
Dio fa, come Giuda il Patriarca avrebbe evidenziato
molto tempo dopo, alla fine del secondo secolo, in un
testo che gli fu attribuito. Il legame famigliare che si instaura
in Gesù fra maestro ed allievo costituisce soltanto
il primo passo che non porta ad onorare il maestro come
o più del genitore, ma, in ultima analisi, ad onorare il
maestro come e più di Dio.
Avevo osservato in precedenza che alcuni vogliono
tracciare una distinzione fra il “Gesù della storia” e il
“Gesù della fede” oppure vogliono distinguere la fede di
Gesù da quella di Paolo o ancora separare Gesù Cristo
dalla Chiesa che rappresenta il suo corpo mistico. Alcuni
cristiani sostengono che il Gesù storico, l’uomo che realmente
visse ed insegnò, non avrebbe riconosciuto la fede
che la Chiesa cristiana avrebbe formulato più tardi. Essi
si riconoscono negli insegnamenti dell’uomo Gesù, ma
non nelle dottrine che la Chiesa, a loro avviso, avrebbe
formulato in seguito.
E non basta: i critici ebraici del cristianesimo, distinguono
fra il Gesù che essi onorano come un grande rab86
bino o come un grande profeta in virtù dei suoi insegnamenti
e il cristianesimo; essi descrivono Gesù come un
taumaturgo galileo o un rabbino o un profeta, ma non come
il Cristo. Ci sono studiosi sia ebrei sia cristiani che
distinguono fra il Gesù che ammirano e l’apostolo Paolo
che, a loro avviso, avrebbe cambiato la fede di Gesù -
rabbino o profeta - nella religione di Cristo. Sia la lettura
cristiana sia quella ebraica del Nuovo Testamento producono,
insomma, una distinzione importante nelle parole e
nel contesto.
Non posso addentrarmi a discutere su questi problemi
assai più complicati, dal momento che la mia discussione
è limitata ad un solo Vangelo, al racconto dell’evangelista
Matteo su Gesù e ai detti che lui trasmise in nome di
Gesù. Debbo chiedermi, tuttavia, perché non possiamo
riconoscere nei detti di Matteo non solo il Gesù della
storia, ma anche il Gesù della fede. La distinzione fra
l’uno e l’altro, importante per alcuni settori del cristianesimo
e per alcuni teologi ed apologisti tanto ebrei quanto
cristiani, mi colpisce perché è poco fondata.
Infatti se la gente crede, generalmente, che Gesù pronunciò
davvero quelle affermazioni che stiamo esaminando,
allora dobbiamo ripensare alla distinzione fra il
Gesù della storia e il Cristo della fede. In queste osservazioni
che riguardano un problema assai modesto, scaturito
dal confronto fra «Onora tuo padre e tua madre» e
«Chi ama suo padre e sua madre più di me non è degno
di me», io non sono in grado di riconoscere l’abisso che
separa Gesù, come uomo, dal Cristo della fede. Gesù ha
senso, come abbiamo visto, soltanto nel contesto del Gesù
della fede. Quando paragoniamo in maniera puntuale
- cioè in modo che ogni membro dell’equazione corrisponda
all’altro - quello che Gesù disse sul comandamento
che prescrive di onorare il padre e la madre con
87
quello che dissero gli altri saggi, vediamo nel Gesù della
storia precisamente quel Cristo della fede che, per venti
secoli, i cristiani hanno ritrovato tanto nel Gesù di Matteo
quanto nel Cristo di Paolo.
Dove troviamo, allora, la discussione che io vorrei intrattenere
con l’uomo Gesù? Se potessi sul serio scambiare
qualche parola con Gesù, il saggio, vorrei sapere
ancora: «Maestro, che ne sarà delle famiglie e dei villaggi
che formano Israele? Hai un insegnamento che ci prescrive
di amare i nostri padri e le nostre madri, i nostri figli
e le nostre figlie? E che ne sarà di noi, i capifamiglia
nelle nostre case, che formiamo in questo luogo e in questo
momento l’Eterno Israele che sta davanti alla Torah
del Sinai?».
Quello che caratterizza il maestro è la capacità di
ascoltare il discepolo, rispondere alla domanda che viene
proposta e non a quella a cui il maestro vuole rispondere
e queste domande non saranno mai le stesse. Il vero saggio
(e non è piaggeria dire che, in tutti i racconti evangelici,
Gesù offre un modello per l’insegnante) porrà perciò
una domanda per chiarire un’altra domanda (e anche per
rispondere ad essa). Perciò Gesù potrebbe voler sapere
che cosa intendo quando dico: «Che cosa ne sarà di
noi?».
Ed io risponderò subito a questa domanda piuttosto
che chiedere a Gesù di indovinarlo: «Capisco il tuo insegnamento
sui comandamenti che prescrivono di non uccidere,
non commettere adulterio, non giurare il falso. La
tua siepe intorno a questi comandamenti della Torah è alta
e solida. Sono una persona migliore perché ho ascoltato
il tuo insegnamento, sono più fedele alla Torah di Dio
di quanto lo fossi stato prima: tu hai davvero dato compimento,
chiarificato, elaborato, tu non abolisci o distruggi
affatto. Ma allora, tutto il tuo insegnamento dà compi
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mento alla Torah facendo riferimento solo alla mia condotta
individuale? Non c’è nessun insegnamento che mi
riguardi in quanto parte di una famiglia, in quanto parte
di quell’Israele che esisteva già prima del Sinai e che si
radunò ai piedi del Sinai: figli di Abramo e Sara, Isacco e
Rebecca, Giacobbe, Lia e Rachele? Io sono parte della
famiglia di Israele? Che cosa hai da dirmi in questa famiglia?
».
Sarebbe presuntuoso da parte mia chiedere al maestro
di ripetere qualcosa che aveva già detto forse in precedenza.
Perciò, prima di proseguire, ripenso all’insegnamento
che ho ascoltato nel “Discorso della Montagna”.
Alla ricerca di un messaggio per le famiglie che formano
Israele, lo cerco in questo discorso, specialmente in ciò
che, secondo Matteo 5-7, Gesù avrebbe detto quel giorno.
C’è qualcosa che riguarda non “tutto Israele” in rapporto
a Dio - «Non avrai altri dèi al di fuori di me» - né
me personalmente in rapporto a Dio, ma me, in quanto
parte della mia famiglia, pietra fondante dell’ordine sociale
di Israele?
La risposta verrà, naturalmente, dall’identificazione di
quel “voi” al quale Gesù si rivolse sulla montagna. Do
per certo che si tratta proprio di “me”; ma “voi” è plurale
non solo singolare e di fronte a Gesù c’erano molti “io”.
E per sapere chi intendesse con il suo “voi”, dobbiamo
giocare con i due tipi di ascoltatori: «E messosi a sedere,
gli si avvicinarono i suoi discepoli. Prendendo allora la
parola, li ammaestrava dicendo...» (Matteo 5,1-2). C’è
perciò il gruppo dei discepoli in cima alla collina e c’è la
massa d’Israele ai piedi della collina.
«Maestro, a chi ti rivolgi? Solo ai discepoli? Certamente
no. Molto di quello che hai detto quel giorno era
rivolto a tutti noi. A tutti noi in generale, allora? Certamente
no. Alcune cose riguardavano in particolare i tuoi
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discepoli, ad esempio: “Beati voi quando vi insulteranno,
vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di
male contro di voi a causa mia”» (.Matteo 5,11).
«Maestro, nel tuo “voi” è compreso anche Israele, ma
non in astratto, bensì come esso è qui ed ora nel mio villaggio
e nella mia famiglia?».
«Maestro, tu parli soltanto a me e non alla mia famiglia?
Solo alla famiglia dei tuoi discepoli e non alla tua
famiglia secondo la carne?».
«Perciò, maestro, dov’è il luogo e il tempo nel tuo
“voi”, per quel “noi” che costituisce Israele?».
Il maestro non deve rispondere alla domanda, perché
lo ha già fatto. Sta pensando ad altre cose. Io sto facendo
le mie domande e lui sta dando le sue risposte. Se non
faccio mie le sue domande, non sto ascoltando le sue risposte.
Nelle sue risposte io odo anche una risposta alle
mie domande.
«Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello
che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di
quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e
il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo; non
seminano, non mietono, né ammassano nei granai; eppure il
Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di
loro? E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere
un’ora sola alla sua vita? Non affannatevi dunque dicendo:
che cosa mangeremo? o che cosa berremo? che cosa indosseremo?
Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il vostro
Padre celeste infatti sa che ne avete bisogno. Cercate
prima il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi
saranno date in aggiunta» (Matteo 6,25-27.31-33).
In questo caso il maestro certamente si rivolge ad
Israele, attraverso un “voi” che ci comprende tutti. Egli è
esplicito, quando mette in opposizione questo “voi” con i
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pagani; i pagani cercano, perciò, queste cose, ma «il Padre
celeste sa che ne avete bisogno». Gesù ha così un
messaggio per me in Israele. Ma Israele, in questo caso,
non è formato dalla famiglia e dal villaggio; alle preoccupazioni
della famiglia e del villaggio - l’Israele attuale
e presente - , al cibo, all’acqua, ai vestiti e al riparo,
provvederà naturalmente Dio. Ma allora, se ciò che mi
preoccupa è il suo regno e la sua giustizia, dove e con chi
vivo non ha davvero importanza. Ancora una volta anche
nel silenzio troviamo un messaggio, come ne ricevemmo
uno anche nel discorso che ascoltammo dalla cima della
montagna. Questo “Israele” è qualcosa d’altro, differente
dall’Israele che conosco, fatto di case e di famiglie. E la
mia discussione consiste soltanto di un “ma”:
«Ma, maestro, l’Israele fatto di case e di famiglie è il posto
dove io vivo».
Questa risposta mi porta a farmi, anche, altre domande
scaturite dalla mia meditazione sui Dieci Comandamenti.
Che ne è di Israele dove esso è, che ne è di Israele dove
vive? E per chiarire queste domande piuttosto oscure e
spiegare che cosa significano, ci volgiamo ad uno dei comandamenti,
a quello che ci prescrive di santificare il sabato,
il comandamento che ci parla del tempo e dello
spazio: Israele che vive qui e ora nella famiglia e nel villaggio.
91. -
.
«RICORDATI DEL GIORNO DI SABATO
PER SANTIFICARLO»
contro
«GUARDA, I TUOI DISCEPOLI STANNO
FACENDO QUELLO CHE NON È LECITO FARE
DI SABATO»
«In quel tempo Gesù passò fra le messi in giorno di sabato
e i suoi discepoli ebbero fame e cominciarono a cogliere
spighe e le mangiavano. Vedendo ciò, i farisei gli dissero:
“Ecco, i tuoi discepoli stanno facendo quello che non è lecito
fare in giorno di sabato ”. Ed egli rispose: “Non avete
letto quello che fece Davide quando ebbe fame insieme ai
suoi compagni? Come entrò nella casa di Dio e mangiarono
i pani dell’offerta, che non era lecito mangiare né a lui
né ai suoi compagni, ma solo ai sacerdoti? O non avete letto
nella Legge che nei giorni di sabato i sacerdoti nel tempio
infrangono il sabato e tuttavia sono senza colpa? Ora vi
dico che c ’è qualcosa più grande del tempio. Se aveste
compreso che cosa significa: ‘Misericordia io voglio e non
sacrificio’ [Osea 6,6], non avreste condannato persone senza
colpa. Perché il Figlio d e ll’uomo è signore del sabato”»
(Matteo 12,1-8).
I racconti sui molti miracoli del maestro - guarigione
dei lebbrosi, delle paralisi e delle febbri; acquietamento
della tempesta; espulsione dei demoni - dovrebbero attirare
la mia attenzione. Ma io dovrei essere abituato ai
miracoli; la Torah mi induceva ad attenderli e i taumaturghi
di quel tempo non mi avrebbero deluso. Queste cose
possono apparire necessarie, ma erano banali ai miei occhi.
La mia preoccupazione, infatti, non era tanto quella
di trovare prove sovrannaturali per le affermazioni del
maestro, ma imparare ciò che lui aveva da insegnarmi
sulla Torah: analisi, discussione, prove. E va a merito di
Gesù aver mandato via la gente che chiedeva un segno,
perché quello che importava era il messaggio.
Perciò, mentre il maestro percorreva le città e i villaggi,
insegnando nelle “loro” sinagoghe, «predicando il
vangelo del regno e curando ogni malattia e infermità»
(Matteo 9,35), io avrei manifestato un amichevole e paziente
interesse. In ogni caso, il discorso che gli avrei
sentito fare sulla montagna in Galilea mi avrebbe lasciato
pensieroso.
Benché avessi ancora in mente i Dieci Comandamenti,
avrei dovuto prestare più attenzione del consueto a quello
che il maestro fece e disse di sabato. Il sabato rappresenta,
infatti, il culmine e la realizzazione nella vita quotidiana
della Torah. Ricordare di santificare il giorno di
sabato formava e forma adesso quello che l’Eterno Israele
fa insieme, è ciò che rende l’Eterno Israele ciò che è:
il popolo che, come fece Dio quando creò il mondo, si riposò
dalla creazione il settimo giorno. Il sabato presenta
sia lati positivi sia negativi: in quel giorno non facciamo
lavori manuali; in quel giorno celebriamo la creazione.
Per sei giorni facciamo cose, ma nel settimo le apprezziamo.
Osservare quello che il maestro e i discepoli fanno
o non fanno di sabato e giudicarli su questa base mi
esporrebbe, in verità, all’accusa di essere più “santo di
te”. Chi sono io per controllare la santificazione della vita
di qualcun altro?
Dio si prende cura di tutti noi, ma soltanto Dio giudica
tutti quanti. Non è questo il tipo di problema che avrei
voluto sollevare. Ma se Gesù lo ha sollevato o se i discepoli
agirono in un modo che la gente trovava, in generale,
sorprendente o sconcertante, questa sarebbe un’altra
faccenda. E le cose sarebbero andate così. Non ci sarebbe
stata nemmeno la pretesa di osservare il sabato come
la gente faceva abitualmente.
Perché allora dovrebbe essere così importante? La Torah
non è affatto una mera raccolta di formule magiche,
di prescrizioni e di divieti. La posta in gioco per il sabato
è assai alta e questo spiega perché Gesù e i suoi discepoli
avrebbero esposto la loro dottrina anche nel contesto del
sabato e della santità. Non lavorare di sabato, infatti, rappresenta
ben più di un semplice rito. E un modo di imitare
Dio. Dio riposò nel giorno di sabato e lo dichiarò santo
(Genesi 2,1-4). Questo spiega perché noi, che formiamo
l’Eterno Israele, riposiamo di sabato, lo “godiamo”,
ne facciamo un giorno santo. Il settimo giorno della settimana
noi imitiamo quello che Dio fece nel settimo
giorno della creazione.
Questo rende più sorprendente la maniera in cui Gesù
presenta il problema. Scegliendo il sabato come argomento
di discussione, Gesù individua un problema controverso
piuttosto che andarsene in giro a compiere miracoli
e prodigi che non trasmettono alcun messaggio e
non hanno alcun significato. Gesù tratta del sabato, in
particolare e con grande interesse, in due dichiarazioni
parallele. Le due dichiarazioni trattano, appropriatamente,
innanzitutto del sabato in rapporto con Dio e solo in
un secondo momento in rapporto alle cose da fare e da
non fare in quel giorno. Perciò Gesù si colloca, con il
suo messaggio sul sabato, ben all’intemo della Torah: un
istante mondano che ci rivela l’eternità.
Il sabato costituisce il momento più importante della
nostra vita con Dio e Gesù lo considera come il punto
più importante del suo insegnamento; solo in un secondo
94
momento tratta delle cose da fare e da non fare e delle
cose di cui non preoccuparsi.
Queste dichiarazioni sul sabato (come Matteo me le
racconta) si trovano, giustamente, in successione immediata.
Gesù parla prima del riposo dal lavoro, e poi, solo
in un secondo tempo, del sabato. Unendole insieme noi
troviamo un messaggio veramente notevole:
«Tutto mi è stato dato dal Padre mio e nessuno conosce il
Figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il
Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare. Venite a
me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò.
Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me che sono
mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre
anime. 11 mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero»
(Matteo 11,27-30).
Dal momento che, di sabato, riposo, come Dio riposò
nel settimo giorno della creazione, qui trovo del tutto appropriate
due domande: come arrivo a Dio? Come trovo
riposo?
Queste due domande, considerate in qualsiasi altro
contesto che non fosse quello della Torah, sembreranno
sconnesse. Ma i Dieci Comandamenti includono anche
quello che recita: «Ricordati di santificare il giorno di sabato...
perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la
terra, il mare e quanto vi è in essi, ma si è riposato il settimo
giorno; perciò il Signore ha benedetto il giorno di
sabato e lo ha dichiarato sacro». Quando ricordiamo,
adesso, che osserviamo il sabato perché Dio si riposò di
sabato, comprendiamo che osservare il sabato ci fa simili
a Dio. Il tema del lavoro e dei carichi gravosi, da un lato,
e il riposo dall’altro, formano allora uno stretto legame
con «Venite a me, e vi darò riposo».
95
Presa da sola, la dichiarazione di Gesù parla soltanto
del riposo. Ma, come abbiamo visto, nello stesso contesto
egli parla del sabato. Ascoltando quello che dice, io
penso solo al sabato che rappresenta il modo in cui l’Eterno
Israele trova riposo: «Sei giorni faticherai e farai
ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore
del Signore, tuo Dio: tu non farai alcun lavoro» (Esodo
20,9-10). Il problema non è banale e non può essere trattato
alla stregua di uno stupido rito, come non camminare
sulle buche dei marciapiedi. La posta in gioco è davvero
molta alta.
Dio ci disse per bocca di Isaia: «Se... chiamerai il sabato
delizia, se... lo onorerai evitando di metterti in cammino,
di sbrigare affari e di contrattare; allora troverai la
delizia nel Signore» (Isaia 58,13). Quando sento parlare
del riposo per la mia anima, di sosta per il mio lavoro,
Gesù sta parlando di scambiare il mio carico pesante col
suo e di trovare così riposo. E nello stesso contesto apprendo
nel racconto di Matteo come i discepoli di Gesù
raccolsero cibo di sabato - Isaia lo avrebbe chiamato
«sbrigare affari e contrattare» (Isaia 58,13) - e come egli
spiegò chi fosse e che cosa fosse importante: «Il Figlio
dell’uomo è il signore del sabato».
Questo insegnamento è illustrato dall’azione seguente,
secondo la quale «è permesso compiere il bene di sabato»:
«Allontanatosi di là, andò nella loro sinagoga. Ed ecco, c’era
un uomo che aveva la mano inaridita, ed essi chiesero a
Gesù: “È permesso curare di sabato?”. Dicevano ciò per accusarlo.
Ed egli disse loro: “Chi tra di voi, avendo una pecora,
se questa gli cade di sabato in una fossa, non l’afferra
e non la tira fuori? Ora, quanto più prezioso è un uomo di
una pecora! Perciò è permesso fare del bene anche di sabato”
» (Matteo 12,9-12).
96
Tuttavia, come vediamo, in discussione nel sabato non
c’è un problema etico («è lecito fare il bene»). Quando
ricordiamo perché riposiamo di sabato, dobbiamo trovare
piuttosto scioccante l’asserzione: «E lecito fare il bene
di sabato». La ragione sta nel fatto che questa affermazione
è semplicemente fuori luogo; il sabato non concerne
il fare oppure il non fare il bene; il problema del sabato
è la santità e, nella Torah, essere santi è essere come
Dio.
Il comandamento del sabato è, in verità, esplicito, e offre
due distinte e altrettanto valide ragioni per il precetto
del sabato:
«Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il
mare e quanto è in essi, ma si è riposato il settimo giorno;
perciò il Signore ha benedetto il giorno di sabato e lo ha dichiarato
sacro» (Esodo 20,11).
«Osserva il giorno di sabato per santificarlo... Ricordati che
sei stato schiavo nel paese d’Egitto e il Signore tuo Dio ti
ha fatto uscire di là con mano potente, con braccio teso;
perciò il Signore tuo Dio ti ordina di osservare il giorno di
sabato» (Deuteronomio 5,12-15).
Il sabato celebra la creazione; mi riposo dalla mia
creazione perché Dio si riposò quel giorno dopo aver
creato il mondo; mi riposo in quel giorno per ricordare
che non sono uno schiavo e il mio schiavo si riposa in
quel giorno anche lui, perché sia ricordato che lo schiavo
non è uno schiavo. In entrambi i casi, il sabato si impone
sull’ordine sociale, il momento che definisce la società,
in particolare un ordine sociale che si organizza intorno
ai giorni della settimana.
Affrontando la questione del sabato, perciò, Gesù e i
suoi discepoli attaccano direttamente un problema deci-
97
sivo: che cosa dobbiamo fare per imitare Dio? Come
dobbiamo vivere per trasformarci nell’Eterno Israele che
Dio, attraverso la Torah, ha portato alla vita?
Come l’onore che dobbiamo al padre e alla madre,
perciò, la celebrazione del sabato definisce che cosa
rende Israele Israele. L’intero modo di vita della comunità
ruota intorno a quel giorno. Ecco un esempio di come
ogni momento della settimana si rivolge verso quel
giorno:
«Elazar b. Hanania b. Hizqia b. Hanania b. Garon dice: “Ricorda
il giorno di sabato per santificarlo. Ricordatene fin
dal primo giorno della settimana, perché se ti capitasse
qualcosa di buono da mangiare, tu possa prepararlo per il
sabato”. R. Itzhaq dice: “Non contare i giorni della settimana
nel modo in cui li contano gli altri, ma contali a partire
dal sabato [il primo, il secondo giorno fino al settimo che è
il sabato]”» (Mekhilta di Rabbi Ishmael 53,2.7, traduzione
di A. Mello, op. cit., p. 86).
Il primo punto da osservare è che i sei giorni lavorativi
sono rivolti verso il settimo giorno e, durante la settimana,
dobbiamo ricordarci del sabato, contando persino i
giorni che mancano al suo arrivo. Come dobbiamo, allora,
celebrare il sabato?
E uno stato d’animo: riposarci dal pensiero stesso del
lavoro.
«Per sei giorni lavorerai, compiendo ogni tuo lavoro. È forse
possibile all’uomo compiere in sei giorni tutto il suo lavoro?
Ma tu riposa, come se ogni tuo lavoro fosse compiuto.
Altra spiegazione (che riguarda sempre “per sei giorni
lavorerai, compiendo ogni tuo lavoro”). Riposa persino dal
pensiero di lavorare. Infatti si dice: “Se tratterrai il tuo piede
dal sabato {Isaia 58,13), allora ti delizierai nel Signore”»
98
(Mekhilta R. Ishmael 53,2,9,10; traduzione di A. Mello, op.
cit., p. 87).
Nessuno finisce l’opera della creazione in sei giorni,
anche l’opera della creazione da parte di Dio va avanti
continuamente. Questo non è allora il punto centrale del
sabato. Ciò che costituisce il punto centrale del sabato è
invece che, in quel giorno, non pensiamo alla creazione,
ma alla celebrazione della creazione: un giorno di lode.
E l’ultima frase contiene la chiave: se eviti di lavorare di
sabato, allora tu hai gioia in Dio. Noi apprezziamo, ancora
una volta, che il sabato è il nostro modo di avere
gioia in Dio. E non è sorprendente che il sabato sia il dono
di Dio all’umanità, dal momento che per noi e non
per Dio era necessario il riposo:
«“Ma si riposò nel settimo giorno”. Forse che Egli conosce
stanchezza? Non si dice al contrario: “Il creatore di tutta la
terra non si affatica e non si stanca” (Isaia 40,28). “Egli dà
forza all’affaticato” (Isaia 40,29). “Dalla parola del Signore
fu fatto il cielo e la terra” (Salmo 33,6)?
Come può dire dunque la scrittura che si riposò? In realtà,
è come se Egli abbia permesso che si scrivesse di lui
che, dopo aver creato il suo mondo in sei giorni, nel settimo
si riposò. Cosicché noi possiamo applicare il criterio
qal wahomer1', se infatti Colui che non conosce stanchezza
ha permesso che si scrivesse di lui che, dopo aver
creato il suo mondo in sei giorni, nel settimo si riposò,
quanto più nel settimo giorno deve riposarsi l’uomo, del
quale sta scritto: “Per la fatica è nato l’uomo” (Giobbe
1 Qal wahomer:
secondo questa regola ermeneutica, enunciata dal rabbino
Hillel, vissuto tra il i sec. a.C. e il I sec. d.C., è possibile inferire da un caso
meno rilevante (qal significa “leggero”) una chiave di lettura per un caso
più importante (homer significa “pesante”) (N.d.C.).
99
5,7)»
(Mekhilta di R. Ishmael 53,2,17; traduzione di A.
Mello, op. cit., p. 90).
In tutte queste affermazioni, noi comprendiamo un po’
di più sulle discussioni del sabato e, in questo contesto,
noi vediamo che, di sabato, i cieli e la terra si incontrano;
Dio e l’umanità si uniscono, mentre l’umanità imita Dio
in un modo assai concreto e particolare.
L’ordine sociale dell’Eterno Israele prende forma non
nella sola divisione del tempo. Esso concerne anche la
delimitazione dello spazio, perché la società diviene concreta
sia nello spazio sia nel tempo. Quando, perciò, vediamo
il sabato come il momento determinante nella vita
deH’Eterno Israele, anticipiamo che questa affermazione
racconta solo una parte della storia. L’altra parte riguarda
dove Israele colloca se stesso e non solo quando il sabato
arriva per santificare Israele. La definizione di dove deve
essere trovato Israele diviene concreta nel sabato, in virtù
di una semplice regola della Torah.
Dio disse a Mosè di dire al popolo di restare a casa nel
settimo giorno: «Vedete che il Signore vi ha dato il sabato!
Per questo vi dà al sesto giorno il pane per due giorni.
Restate ciascuno al proprio posto! Nel settimo giorno
nessuno esca dal luogo dove si trova. Il popolo dunque
riposò nel settimo giorno» {Esodo 16,29-30). Perciò per
rispettare il sabato si rimane a casa. Non basta soltanto
non lavorare. Si deve anche riposare. E riposare significa
anche formare di nuovo, una volta alla settimana, il cerchio
della casa e della famiglia, ciascuno a casa e al suo
posto; rientrare nella vita del villaggio e della comunità,
indipendentemente da come è vissuta la vita negli altri
sei giorni della creazione.
Anch’io posso capire questa preoccupazione profonda
per il ritorno alla vita nella propria comunità che l’arrivo
100
del giorno santo - tempo sacro - provoca. Quando i miei
bambini stavano crescendo, io considerai un mio preciso
dovere passare il sabato con loro, a partire dalla cena del
venerdì sera, quando la nostra famiglia si riuniva. Allora
portavo i miei studenti a casa mia perché fossero parte
della mia famiglia e perché i miei figli avessero davvero
un’idea allargata di che cosa sia una famiglia. È il sabato
che fa di una famiglia ebraica una famiglia santa, ed è rimanendo
all’interno dei confini fisici della casa che la famiglia,
in questo luogo e in questo momento della vita
concreta e reale, si realizza compiutamente, si concretizza.
Non stiamo parlando perciò qui di una formula magica,
di una linea magica che non possiamo attraversare.
Stiamo trattando, invece, dell’interazione tra spazio e
tempo, in un giorno incantato: il giorno che ci trasforma
in qualcos’altro rispetto a ciò che pensiamo di essere.
Nel quadro del versetto citato che comanda al popolo di
non andare nei campi a raccogliere la manna, risulta che
ci si aspetta che la gente non porti dei pesi da un luogo
all’altro. Ci si aspetta che rimangano a casa e che non
trasportino cose da un luogo ad un altro luogo: due facce
della stessa medaglia. Quello che comprendo è che non
debbo lavorare di sabato, non debbo raccogliere cibo o
portare pesi. Per contrasto, tuttavia, io resto al mio posto:
“rimango al mio posto” significa che mi godo il riposo
nel mio villaggio.
Il divieto di sollevare e portare pesi da un posto all’altro,
di sabato, diviene davvero effettivo all’inizio del sabato.
In questa legge della Torah, pertanto, ci si presenta
un giorno che definisce Israele nello spazio e nel tempo.
Di conseguenza la Torah pone le basi per la costruzione
della vita santa dell’Eterno Israele nel giorno di sabato.
Esodo 16,29-30 esige da ogni persona di restare dove si
trova nel giorno di sabato: «Vedete, il Signore vi ha dato
101
il sabato, perciò nel sesto giorno vi dà il pane per due
giorni. Restate ciascuno al proprio posto! Nel settimo
giorno nessuno esca dal luogo dove si trova. Il popolo
dunque riposò nel settimo giorno». Restare al proprio
posto non vuol dire, in verità, che una persona non possa
lasciare la propria casa, ma significa che bisogna rimanere
nel proprio villaggio che consiste dell’area abitata e
delle sue immediate vicinanze.
Isaia allude all’importanza di celebrare il giorno del riposo
“senza sbrigare i propri affari”. «Se tratterrai il piede
dal violare il sabato, dallo sbrigare affari nel giorno a
me sacro... Io ti farò calcare le alture della terra» (Isaia
58,13-14).
Resto a casa nel mio villaggio, insieme a Dio cammino
sulle alture. Quando viene il giorno santo, pertanto,
esso mi incanta e mi trasforma. Io ero carico ed adesso
lascio il mio fardello. Con il tramonto del sole, tutto è
cambiato; io sono cambiato. Andavo dovunque. Ora sto
a casa. Facevo ogni cosa; adesso faccio una sola cosa: ristorarmi
e rallegrarmi. Non c’è da stupirsi se, nell’inno
del sabato, noi cantiamo: «Coloro che osservano il sabato,
gioiranno nel tuo regno». Il sabato è quando il regno
di Dio viene. Giustamente, allora, Gesù collegò i due
messaggi: prendete il mio giogo, il Figlio dell’uomo è il
signore del sabato. Egli non avrebbe potuto rendere il
problema più chiaro.
Allora, quando io noto la condotta dei discepoli di Gesù,
che raccolgono spighe nel giorno di sabato, facendo
un lavoro manuale all’interno della creazione piuttosto
che celebrare la creazione, la mia curiosità diviene più
profonda. L’obiezione di Gesù fa riferimento al fatto che
i seguaci di Davide presero del cibo riservato ai sacerdoti.
Ne consegue che se abbiamo fame, possiamo fare
qualsiasi cosa per procurarci cibo. Il sabato esige, però,
102
di preparare il cibo in anticipo, senza cucinare in quel
giorno. Questo è il significato dell’affermazione che abbiamo
notato prima, cioè di fare di ogni giorno della settimana
una preparazione per il settimo giorno. Non accendere
il fuoco, non portare oggetti, non cuocere cibo
non sono dei divieti sciocchi, ma rappresentano l’espressione
mondana di quell’atto di santificazione che imita
l’atto di santificazione divina nel settimo giorno.
Quando Gesù giustifica, in seguito, le azioni dei suoi
seguaci sottolineando che il loro comportamento è corretto,
dal momento che, nel tempio, i sacerdoti eseguono
i riti cultuali, egli avanza un’obiezione assai profonda e
afferma per sé qualcosa di paragonabile, per il suo grandissimo
valore, a quello che disse sull'abbandonare il padre
e la madre e seguirlo. Per capire quello che disse (e
per cercare di afferrare quanto lo trovo sorprendente) dovete
sapere che il tempio e il mondo che sta fuori di esso
sono delle immagini specularmente opposte. Quello che
facciamo nel tempio è l’opposto di quello che facciamo
altrove.
La Torah afferma esplicitamente che i sacrifici debbono
essere offerti in quel giorno. Numeri 28,3-8; 28,9-10
prescrive, per esempio, di offrire per il sabato un ulteriore
sacrificio; il pane di presentazione era sostituito di sabato
(Levitico 24,8).
Ciascuno aveva ben chiaro, perciò, che quello che non
doveva essere fatto fuori dal tempio, cioè nello spazio
profano, doveva essere fatto nello spazio sacro, cioè nel
tempio stesso. Quando, perciò, Gesù afferma che qui c’è
qualcosa di più grande del tempio, può solo voler dire
che egli e i suoi discepoli hanno compiuto, di sabato,
quell’azione, perché essi hanno preso il posto dei sacerdoti
nel tempio; il luogo santo è cambiato e si identifica
con il gruppo formato da Gesù e dai suoi discepoli.
103
A turbarmi non è, pertanto, la disobbedienza dei discepoli
a una delle leggi della Torah; si tratta di un fatto banale
che esula dalla questione. A catturare la mia attenzione
è l’affermazione di Gesù - un’esposizione davvero
originale dei problemi -, che non mette in discussione il
sabato, ma il tempio. La sua affermazione non riguarda,
allora, se il sabato vada o meno santificato, ma dove sia
e che cosa sia il tempio, il luogo dove si fanno, di sabato,
delle cose che altrove non si debbono fare affatto. E non
basta: come è permesso, di sabato, porre sull’altare il cibo
da offrire a Dio, così è permesso ai discepoli di Gesù
di preparare, di sabato, il loro cibo. È ancora un cambiamento
davvero sbalorditivo.
Per quale ragione non si dovrebbe convenire che l’intento
di queste affermazioni - «Venite a me voi che siete
stanchi e oppressi ed io vi ristorerò; ... voi troverete riposo
per le vostre anime, perché il mio giogo è dolce e il
mio peso è leggero... È lecito fare il bene di sabato» - è
riassunto completamente nella semplice e necessaria conclusione:
«Il Figlio dell’uomo è, infatti, il signore del sabato
». Proprio questo è in discussione negli insegnamenti
del maestro su quel comandamento che riguarda il sabato.
Sto per violare due fra i Dieci Comandamenti cioè
«onorare il padre e la madre» e «osservare il sabato»? La
stessa Scrittura, come abbiamo già notato, li ha legati insieme:
«“Ognuno rispetti sua madre e suo padre e osservi i miei sabati”
(Levitico 19,3). E come ricompensa? “Se tu tratterrai il
tuo piede dal violare il sabato, allora troverai la delizia nel Signore”
{Isaia 58,13-14)» (Mekhilta R. Ishmael, Bahodesh 8).
Ancora una volta, superficialmente, c’è in gioco l’insegnamento
di Gesù a violare due fra i Dieci Comanda
104
menti, entrambi connessi con la vita santa dell’Eterno
Israele.
Perché dubitare che Gesù conoscesse gli stessi versetti
della Scrittura che i passi citati presentano? E perché domandarsi
se Gesù avesse o meno compreso che, attraverso
questi insegnamenti sul sabato, egli non dava affatto
compimento al sabato, ma lo aboliva? Naturalmente egli
sapeva bene che cosa significasse il sabato nella presentazione
che ne fa la Torah e ovviamente egli comprendeva
quanto era stata rivoluzionaria la sua decisione sul
corretto comportamento dei suoi discepoli di sabato. Mi
sembra chiarissimo, perciò, che ci troviamo di fronte ad
un conflitto inconciliabile. L’alternativa è tra: «Ricordati
di santificare il sabato» e «Il Figlio dell’uomo è il signore
del sabato». Non possiamo scegliere entrambi.
Una volta che abbiamo posto la questione in questi termini,
allora la soluzione è ovvia. Gesù non propone di
abolire, ma di dare compimento alla Torah, e anche: Gesù
è il signore del sabato. Osservando allora il sabato nel
modo in cui lo rappresenta Gesù, noi diamo compimento
alla Torah alla maniera in cui Gesù le vuole dare compimento.
E poiché la sua maniera differisce radicalmente
dalla mia, è chiaro che stiamo ascoltando due diverse voci
dal Sinai: lui per la sua parte, io per la mia. Ogni altra
conclusione banalizza la sbalorditiva contrapposizione
che il Cristo della fede sta esprimendo qui.
Tornando ancora una volta al primo dei due discorsi sul
sabato, a quello che parla di riposo e di ristoro, ricordiamo
che venire a Dio è proprio ciò che è in gioco nel sabato
e nel suo riposo: «Tutte queste cose mi sono state rivelate
dal Padre mio, e nessuno conosce il Figlio fuorché il
Padre, e nessuno conosce il Padre fuorché il Figlio e colui
al quale il Figlio decide di rivelarlo». Queste parole, prese
da sole, non hanno nessun chiaro collegamento con il sa-
105
bato. Esse non stanno, tuttavia, da sole, perché portano
direttamente alla preghiera successiva rivolta al Padre attraverso
il Figlio che così recita: «Venite a me, voi tutti,
che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il
mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite
ed umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime.
Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero».
Il messaggio del Sinai per il sabato si ode a fatica sopra
l’orizzonte lontano. E tuttavia se faccio di sabato
quello che Dio fece il primo sabato, allora, sia pure in
termini diversi, Gesù dice ai suoi discepoli quello che
Mosè disse a tutto Israele. Di sabato ricordo e faccio
quello che fece Dio: «Ricorda il giorno di sabato... perché
in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra... e
si è riposato nel settimo giorno; perciò il Signore ha benedetto
il giorno di sabato, e lo ha reso sacro». Quelli
che cercano riposo, secondo la revisione radicale di Gesù,
cercano Dio così come noi lo cerchiamo; ma anziché
lasciare i loro pesi, essi ne prendono uno nuovo: un giogo
che è facile e leggero.
Non fa meraviglia, allora, che il Figlio dell’uomo sia il
signore del sabato! La ragione non sta né nell’interpretazione
liberale che egli dà delle restrizioni del sabato, né
nei motivi più o meno fondati che egli adduce per permettere
alla gente di mietere e di mangiare il proprio raccolto
in quel giorno o per curare i malati o fare ancora
del bene in quel giorno. Gesù non fu affatto un nuovo
rabbino riformatore che rendeva la vita più facile alla
gente. E nessuno che osservi il sabato per imitare Dio fa
molta attenzione alle interpretazioni di maggiore o minore
rigore se non per sapere, attraverso la Torah, che cosa
Dio vuole da noi.
Il problema non sta nella leggerezza del peso, ma altrove.
106
In discussione è la rivendicazione di autorità da parte
di Gesù e non il carattere più o meno rigoroso della sua
decisione su ciò che dobbiamo fare nel giorno santo.
Questi consigli esprimono semplicemente e concretamente
una convinzione molto più profonda e se egli disse
davvero queste cose, come dobbiamo riconoscere per
lo scopo di questa discussione, egli volle affermare, dunque,
per mezzo loro, che lui e i suoi discepoli formavano
una nuova entità al posto di quella vecchia. E le sue decisioni
legali - intese nel contesto che la Torah avrebbe assunto
in futuro - non derivano da quella ristretta lettura
di passi scritturistici che noi chiameremmo esegesi, benché
esse nascano da un’attenta lettura esegetica di racconti,
di fatti e di obiezioni comunemente accettate. La
storia di Davide, il fatto che i sacerdoti officino nel tempio
di sabato, il richiamo all’ovvio diritto di fare il bene
di sabato, indicano che un cambiamento fondamentale
ha avuto luogo nella sua persona e in sua presenza. In
discussione non c’è né l’osservare né l’infrangere il comandamento
sul sabato, ma invece, qui come altrove, la
persona di Gesù o secondo il linguaggio cristiano, di Gesù
Cristo. Quello che importa di più è la semplice affermazione:
«Nessuno conosce il Padre tranne il Figlio e
chiunque al quale il Figlio decida di rivelarlo». Qui, in
questa frase allarmante e poco consequenziale rispetto a
quanto precede e segue, sta l’essenza dell’insegnamento
sul sabato: il mio giogo è leggero, io vi do ristoro, il Figlio
dell’uomo è invero signore del sabato, perché il Figlio
dell’uomo è ora il sabato di Israele: il nostro agire
come Dio.
Nel contesto stesso del sabato, quando, nello spazio
sacro e nel tempo sacro, Israele agisce come Dio, afferriamo
che Gesù affronta proprio il problema del significato
della conoscenza di Dio, e lo fa precisamente nel
107
modo in cui, dal Sinai in poi, Israele conosce Dio e agisce
come Dio: il sabato. Gesù ha scelto con grande precisione
il messaggio che desiderava esporre sul sabato, sia
riguardo al punto principale, sia riguardo ai dettagli e alle
conseguenze che scaturiscono da esso.
Quando si arrivò a discutere di questi tre comandamenti
che Gesù rese così ricchi di significato, volevo interrogarlo
sulla dimensione pubblica e su quella privata
della mia esistenza - cioè sulla comunità, sulla famiglia
e sulla casa - che mi sembravano trascurate. Che cosa ne
pensa Gesù della vita di Israele in quanto comunità? Nel
tempo e nello spazio, Israele visto come comunità, diviene
santo nell’incanto del sabato. Il villaggio si isola: le
famiglie si radunano, allora, in casa, formando una comunità
in preghiera, che prende parte ai riti religiosi e
che studia la Torah, in sinagoga.
Israele è Israele di sabato: santo, ogni persona che fa
quello che fece Dio, tutto Israele che vive fuori della perfetta
creazione che fu benedetta e fu santificata in quel
giorno. Mi domando allora: dove è il messaggio di Gesù
per me, non come individuo preoccupato di non uccidere,
di non commettere adulterio, di non giurare il falso,
ma come membro di una famiglia e come membro di
una comunità che condivide l’ordine sociale del popolo
santo?
Gesù mi ha allora insegnato a violare uno dei due
grandi comandamenti, fra i Dieci Comandamenti, quelli
che riguardano l’ordine sociale? La risposta positiva o
negativa dipende dalla vostra prospettiva.
Dalla prospettiva della Torah, così come io la comprendo,
solo Dio è il signore del sabato. Tutto quello che
Dio vuole che io conosca, me lo ha rivelato sul Sinai.
Tutti noi conosciamo Dio attraverso la Torah ed è a tutto
quanto Israele che Dio ha rivelato la Torah. La Torah mi
108
insegna a riposare di sabato, perché questo è il modo in
cui imparo ad agire come Dio. Gesù insegna tutto questo
in un modo differente e per un altro scopo. Anche lui ha
ascoltato il messaggio dal Sinai, ma quando si tratta del
sabato, egli ha inteso individualmente quello che il resto
d’Israele ha inteso dire a noi tutti, ugualmente e allo stesso
tempo.
Il discepolo incontrato lungo la strada può obiettare
che è proprio così: attraverso lui conosciamo il Padre; attraverso
il sabato fatto a suo modo noi portiamo quel
giogo lieve, quel peso leggero che è il suo. Ancora una
volta io e il discepolo siamo d’accordo: Cristo sta adesso
sulla montagna, egli prende adesso il posto della Torah.
Questa è la ragione per cui egli è il signore del sabato per
quelli che possono affermare che noi conosciamo il Padre
per mezzo del Figlio, soltanto attraverso questo Figlio.
Ancora una volta noi ci troviamo ad un punto morto,
che è lontano dal disaccordo del passato ma non molto
vicino ad una discussione coerente.
Dov’è allora la discussione? Dov’è l’interesse di Dio
nel ricordare il sabato? La Torah mi insegna che facendo
questo celebro la creazione e mi comporto di sabato come
si comporta Dio nel giorno in cui la creazione cessa:
benedicendo il sabato e santificandolo. Anche Gesù insegna
che il sabato porta il dono del riposo, ma è il riposo
che Dio dà attraverso il Figlio. Ci troviamo precisamente
nel punto dove eravamo quando ci domandammo che cosa
c’era in discussione nell’onorare il padre e la madre:
osservare il sabato rappresenta il modo terreno di imitare
Dio. Il signore del sabato rappresenta un modello terreno,
secondo la frase della Torah: «Perché in sei giorni il
Signore ha fatto il cielo e la terra... perciò il Signore ha
benedetto...» e perciò: «Ricorda di santificare il giorno di
sabato» non lavorando, come Dio che smise di lavorare.
109
Perciò io chiedo al discepolo se è proprio vero che il
suo maestro, il Figlio dell’uomo, sia il signore del sabato.
E soggiungerei, rifacendogli la domanda che già gli
posi: «Il tuo maestro è Dio?».
E questo è il nocciolo della questione. Non è possibile
nessuna discussione? Al contrario, noi possiamo svolgere
una discussione seria incentrata sulla perfezione. Che
cosa dobbiamo fare per essere simili a Dio? Tutto mi ha
preparato ad affrontare questo problema, e a rapppresentare
una discussione non con il discepolo, ma con lo stesso
maestro.
«Maestro, se tu sei il signore del sabato, e se, nell’osservare
il sabato mi comporto come Dio, allora che cos’altro
devo fare per essere come Dio? So che cosa mi
insegna la Torah; fammi ascoltare anche la tua lezione».
110
«VOI SARETE SANTI, PERCHÉ IO,
IL SIGNORE VOSTRO DIO, SONO SANTO»
Contro
«SE VUOI ESSERE PERFETTO, VA’, VENDI
TUTTO QUELLO CHE POSSIEDI; POI VIENI
E SEGUIMI»
«Ed ecco un tale gli si avvicinò e gli disse: “Maestro, cosa
devo fare per ottenere la vita eterna?”. Egli rispose: “Perché
mi interroghi su ciò che è buono? Uno solo è buono. Se
vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti”. Ed egli
chiese: “Quali?”. Gesù rispose: “Non uccidere, non commettere
adulterio, non rubare, non testimoniare il falso,
onora il padre e la madre [Esodo 20,12-16], ama il prossimo
tuo come te stesso” [Levitico 19,18]. Il giovane gli disse:
“Ho sempre osservato tutte queste cose; che mi manca
ancora?”. Gli disse Gesù: “Se vuoi essere perfetto, v a ’,
vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro
nel cielo; poi vieni e seguimi”. Udito questo, il giovane se
ne andò triste, poiché aveva molte ricchezze»
(Matteo 19,16-22).
I dettagli dei Dieci Comandamenti, cioè onorare i genitori
o seguire il Cristo, osservare la santità del sabato o
riconoscere il Figlio dell’uomo come signore del sabato,
stanno in verità in secondo piano. Essi sono importanti,
ma esemplificano soltanto il problema fondamentale affrontato
da Gesù.
Ma che cosa dire del problema davvero fondamentale:
che cosa vuole Dio da me? E come posso trasformarmi
111. -
cogito.
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Secondo il pensiero cristiano, con Gesù si instaura una Nuova, ovvero, Seconda Alleanza, nella quale la Legge viene "iscritta nei cuori"(Ger31,31)
Allora, non è più la Legge scritta esternamente(Torah) a stabilire come deve essere rispettato il Sabato, ma quello che è stato "iscritto nel cuore" mi istruisce in proposito.
Ciò che vale per il Sabato vale naturalmente anche per gli altri Comandamenti.
L'essenza del Comandamento, cioè l'imitazione di D-o, insita nel rispetto del Sabato, rimane inalterata, perché facendo del Bene si imita molto di più e molto più pienamente D-o ("Uno solo è Buono")
Gesù presenta e si presenta come un nuovo modello di imitazione di D-o.
Quando invita ad andare da Lui per "trovare riposo" intende un tipo di riposo sabatico nuovo, un'imitazione nuova di D-o.
Quindi, nell'ottica del cristiano, Gesù il Cristo, rappresenta la Legge Vivente.
Riporto questa citazione da una sintesi di "Il Vangelo ebraico" di Daniel Boyarin fatta da Marco Fasol.
"Ricapitolando, Boyarin arriva a sostenere che già nell’antico ebraismo erano presenti, anche se in forma misteriosa e profetica, le idee dell’Incarnazione divina e della Trinità. Mi sembra che si tratti proprio di una svolta interessantissima per i rapporti contemporanei tra ebraismo e cristianesimo. Le tesi di questa “autorità rabbinica” di fama mondiale possono aprire la porta ad un dialogo tra ebraismo e cristianesimo capace di trovare un terreno comune molto più ampio di quanto si è creduto finora. Leggiamo le testuali parole di Boyarin: “Gli ebrei dovranno smetterla di svilire le idee cristiane su Dio, considerandole una congerie di fantasie ‘non ebree’, forse pagane, sicuramente strampalate… le idee cristiane non sono del tutto aliene alle nostre, sono nate dalle nostre, ed a volte , forse, da alcune antichissime idee ebraico-israelitiche.” (p. 27).. -
.
Ho letto il libro in questione, certamente molto interessante.L'autore tuttavia limita il suo campo di indagine al vangelo secondo Matteo; ora, sono personalmente convinto che nel complesso il messaggio di Gesù si sia meglio conservato nel Vangelo secondo Luca,a dispetto della affermata "ebraicità" attinente al testo di Matteo ( uso questi nomi per tradizione;concordo infatti con l'opinione accademica secondo cui tali opere siano state redatte da più autori rimasti anonimi, ed in fasi storiche diverse).Personalmente non credo che Gesù concepisse la sua attività con particolare riferimento all'approfondimento della Torah;certo,era un ebreo osservante della Legge, ma non mi sembra che traspaia dal complesso delle fonti una sua particolare inclinazione a disquisizioni di carattere halachico; la sua è una visione di stampo prettamente escatologico:Gesù mi appare come un "hasid" galileo, e già come tale più orientato all'azione che all' Halachah ( quindi secondo una dimensione essenzialmente etico-sapienziale) ,convinto che fosse imminente un intervento diretto di HaShem nella storia d'Israele e del mondo ( il Regno di Dio appunto); di conseguenza, Gesù si sentiva investito dal Gran Re ( un messia quindi, anche se forse non si considerava "Il Messia") della missione di recuperare "le pecorelle perdute della casa d'Israele" e di condurle verso il Regno, insieme ai giusti. La visione di Gesù come "nuovo Mosè" mi sembra una caratteristica del solo Matteo.Opinione meramente personale la mia .
HaShem vi benedica. -
.
in ciò che Dio vuole che io sia e in che cosa Dio mi fa
diventare? Si può intavolare una discussione su quel problema
fondamentale? E se fossi stato là, che cosa avrei
dovuto ascoltare e come avrei dovuto reagire di fronte al
nucleo degli insegnamenti di Gesù?
Immaginate dunque che quel giorno io fossi là vicino
e fossi testimone di questo meraviglioso dialogo: «Che
cosa devo fare per avere la vita eterna?». Io mi sarei avvicinato
al maestro per ascoltare ogni sua parola; questo
è il nocciolo del problema: che cosa mi accadrà quando
morirò, che è un altro modo di chiedere che cosa Dio
vuole davvero che io faccia, e che io sia in questa vita.
Gesù, come tutti noi ebrei, darebbe per scontato che la
Torah risponde alla domanda e tutti noi insieme avremmo
compreso che quello che io faccio in questa vita concorre
a decidere quello che mi capiterà nell’eternità. La
domanda del giovane è meditata e giusta e quello che
realmente vuole che il maestro ci dica, a conti fatti, è:
che cosa conta davvero?
Questa domanda, normale e pressante per gli Israeliti
che credono nella vita dopo la morte e nel mondo a venire,
dà per scontato che quello che faccio interessa a Dio e
che Dio mi ricompenserà o mi punirà per come agisco in
questa vita.
Il giovane che fece questa domanda, Gesù e i suoi discepoli
e tutti noi condividiamo questa fede. È naturale
per noi domandarci che cosa fare per meritare la vita
eterna e la risposta di Gesù è fedele alla Torah: «Osserva
i Dieci Comandamenti e il Grande Comandamento» (Levitico
19,18).
Abbiamo qui una risposta totalmente coerente con gli
insegnamenti della Torah. Se la storia fosse finita qui, mi
sarei accodato volentieri per ascoltare ancora altri insegnamenti
da questo vero maestro della Torah. Un grande
112
maestro non è, infatti, colui che dice qualcosa di nuovo,
ma colui che dice quello che è vero e il maestro che cerco
è colui che mi parla, che vuol farsi trovare da me, cosicché
possa anch’io imparare ciò che Dio esige da me
attraverso la Torah.
Ma la conversazione non si fermò là. Il giovane trovò
lacunosa la risposta e, scrutandone la faccia, ne avvertii
la delusione. Egli voleva qualcosa di più di una risposta
normale. Lui ed io avremmo potuto replicare a questo; io
gli avrei detto, infatti, che quello che la Torah offre è tutto
ciò che hai e tutto ciò che dovresti volere. Ma lui stava
parlando con Gesù, non con me.
Il giovane disse: «È tutto qua? Che cosa mi manca?».
Gesù replicò: «Se hai in mente la perfezione...».
Questo rapido dialogo mi mise in allarme. Gesù stava
spostando la discussione da «quello che devo fare per
avere la vita eterna» a «se vuoi essere perfetto». Qui c’è
un cambiamento profondo. Gesù ha afferrato la domanda
che il giovane voleva porre davvero, che non riguardava
semplicemente la vita eterna, ma la perfezione che è
qualcosa d’altro.
Questo giovane vuole essere più che mortale, dal momento
che aspira ad essere perfetto, accettando quello
che noi esseri umani siamo? Tutti noi, dopo tutto, conosciamo
la storia di Adamo ed Èva. Ricordiamo il triste
racconto delle dieci generazioni che vanno da Adamo ed
Èva ad Abramo, la discesa dell’umanità verso il diluvio.
La perfezione, certamente! Lasciami almeno osservare
quello che Dio, che comprende la mia fragilità, mi chiede:
almeno qualcuno dei Dieci Comandamenti, almeno
«Ama il tuo prossimo come te stesso».
La perfezione? Chi l’ha mai menzionata, chi ci ha mai
pensato? La semplice vita eterna è per i mortali e Dio
comprende che cosa e chi siamo: «Il Signore vide che la
113
malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni
disegno concepito dal loro cuore non era altro che male.
E il Signore si pentì di aver fatto l’uomo sulla terra e se
ne addolorò in cuor suo» (Genesi 6,5-6). Data la fragilità
dell’umanità nessuno può attendersi la perfezione, come
prezzo della vita eterna.
Per capire che cosa c’è in discussione in questo dialogo,
dobbiamo far dunque un salto in avanti di duecento
anni e ascoltare quello che gli altri maestri della Torah,
all’infuori di Gesù, risposero alla domanda: che cosa deve
fare l’uomo per guadagnare la vita eterna, o il mondo
a venire, o la vita dopo la morte, oppure il regno dei cieli?
Tutte queste differenti definizioni indicano, così mi
sembra, la stessa cosa. Essi definirono le cose in maniera
più limitata rispetto al Gesù di Matteo, non esigendo
nemmeno la perfetta obbedienza ai Dieci Comandamenti
o alla “Regola Aurea” espressa da Levitico 19,18. Tutto
ciò che richiesero fu la fede e la lealtà in Dio; Dio, misericordioso
e clemente, avrebbe fatto il resto.
In verità il giogo di questi maestri era lieve, il loro carico
leggero, poiché essi avevano affermato molto semplicemente:
«Chiunque crede nella vita dopo la morte
meriterà la vita dopo la morte», sebbene con alcune eccezioni:
«Tutti gl’israeliti hanno parte nella vita a venire, conforme
al testo che dice: “E il tuo popolo sono tutti giusti, in eterno
possederanno la terra, un ramo dalle mie piantagioni, opera
delle mie mani perché io ne sia glorificato” (Isaia 60,21).
Questi sono quelli che non hanno parte nella vita eterna: chi
dice che la risurrezione dei morti non si può dedurre dalla
Scrittura o che la Torah non fu rivelata da Dio è un epicureo.
R. Akiba opina: “Anche chi legge libri estranei e chi bisbigliando
su una ferita dice: ‘Nessuno dei malori che posai
114
sugli Egizi non poserò su di te, perché io il Signore sono il
tuo medico’” (Esodo 15,26).
Abbà Saul aggiunge: “Anche chi pronuncia il nome di Dio
con le sue lettere”» (Mishnah, Trattato Sanhedrìn 10,1 ; traduzione
di V. Castiglioni, op. cit., pp. 153-154).
Il contrasto fra questa definizione complessiva - tutti
quanti tranne pochi peccatori di primo piano, soprattutto
eretici, contro solo coloro che osservano solo i principali
comandamenti o, ancora più limitatamente, soltanto i
perfetti - è stupefacente. Questi saggi, che leggono la
stessa Torah di Gesù, per ragioni che vedremo fra poco,
dissero semplicemente che tutti i santi, cioè tutto il popolo
santo, saranno salvati e tutto Israele è santo. Così la
loro stessa dottrina su chi e che cosa sia l’Eterno Israele
li istruì anche su chi ha parte nel mondo futuro e la Torah
stessa definì Israele assai semplicemente: «Voi sarete
santi, perché io, il Signore vostro Dio, sono santo».
Questi pensieri mi hanno distratto dalla conversazione
fra Gesù e il suo giovane interlocutore. Ma non basta:
avrei voluto chiedere al maestro: «Maestro, così pochi?».
Ma questo non è quello che voglio chiedergli davvero
e, incoraggiato dalla pazienza del maestro, mi faccio largo,
gli sono a fianco e parlo. Confido nella sua pazienza
e, ricordando la pazienza che Dio ebbe sia con Sodoma e
Gomorra, sia con Israele nel corso del tempo, spero che
Gesù non risponderà in maniera brusca a quella che, a
mio avviso, è una domanda spinosa.
«Maestro, mi sembra che tu abbia risposto a una domanda
che il giovane non ti aveva fatto e forse lui ti ha
chiesto qualcosa alla quale non hai risposto. Ciò che lui
voleva sapere riguarda quali buone azioni doveva fare.
Egli non aspirava alla perfezione. Ma dicendogli come
essere perfetto, tu hai spezzato la stessa vita che gli hai
115
promesso: “Se vuoi entrare nella vita eterna, osserva i
comandamenti”. Ma se ti ascolta, che ne sarà di lui? Egli
rinuncerà alla casa e alla famiglia, taglierà i suoi legami
con tutto e con tutti aU’infuori di te: “Liberati da ogni
cosa e seguimi”».
Ritorniamo così ai dettagli: onora i tuoi genitori o servi
il maestro? Ricorda il sabato o riconosci il maestro? È
davvero proprio questo il nocciolo della questione?
Spingendomi ancora oltre, posso delineare le cose in
una maniera che il maestro approverà: la scelta della ricchezza
contro quella della Torah è una scelta, perché non
scegliere la ricchezza al posto di Cristo? Il maestro,
pronto e sapiente, mi segnala un passaggio sul quale altri
saggi della stessa Torah di Mosè data sul Sinai sarebbero
stati, in futuro, quasi del medesimo avviso. Gesù rivela
un tipo di sapienza vicina a quella di Akiba, che vivrà
pochi decenni dopo di lui. In futuro, egli mi dice, ci sarà
un maestro della Torah, che dirà al suo discepolo di vendere
tutto quello che ha per studiare la Torah. Egli potrebbe
pertanto affermare in maniera gentile che il suo
parere non differisce molto da quello del maestro che
verrà più tardi:
«R. Tarfon diede a R. Akiba sei monete d’argento dicendogli:
“Va’, compraci un pezzo di terra, cosicché avremo, allo
stesso tempo, di che vivere e potremo studiare la Torah”.
Egli prese il denaro e lo diede agli scribi, a chi insegnava la
Mishnah e a chi studiava la Torah.
Dopo qualche tempo, R. Tarfon lo incontrò e gli domandò:
“Hai comprato la terra che ti avevo detto?”. R. Akiba rispose:
“Sì”.
Allora R. Tarfon gli chiese: “C’è un raccolto?”. Quello gli
rispose: “Sì”.
R. Tarfon replicò: “E non vuoi mostrarmelo?”.
R. Akiba lo prese e gli mostrò gli scribi, coloro che insegna116
no la Mishnah e la gente che stava studiando la Torah e la
Torah che avevano acquistato.
R. Tarfon gli disse: “C’è qualcuno che sta lavorando per
niente? Dov’è l’atto che riguarda il campo?”.
R. Akiba gli rispose: “Sta col re Davide, del quale è scritto:
‘Egli dona largamente ai poveri, la sua giustizia dura per
sempre’ (Salmo 112,9)”» (Levitico Rabba 34,16).
Quello che Akiba ha fatto è quasi la stessa cosa chiesta
da Gesù in un contesto differente: «Liberati dei beni di
questo mondo, consacra ogni tua ricchezza alla Torah».
Il consiglio è lo stesso, solo il contesto cambia. Ci siamo
soffermati abbastanza sugli insegnamenti di Gesù, per
trovare familiare quelli dell’altra parte: «Vendi tutto
quello che hai, da’ il denaro ai poveri e seguimi». L’equazione
è la stessa, ma Cristo ha preso il posto della
Torah.
E tuttavia sento che le cose hanno subito una radicale
riduzione, passando dalla perfezione al «seguimi». E tutto
qui il messaggio del maestro? Naturalmente no, sono
ben lungi dal pensarlo. Ancora una volta la conversazione
- non è più davvero una discussione - scivola dal dettaglio
al punto principale. Ma il pomeriggio sta per finire,
cosicché dobbiamo separarci.
Alcuni giorni dopo, ebbi la fortuna di ascoltare Gesù
riprendere lo stesso problema, in maniera diretta e semplice.
Che cosa vuole da me la Torahl II problema di che
cosa debbo fare per ottenere ciò che voglio non è mai
stato presentato in modo più sincero, innocente, oserei
dire santo: che cosa vuole Dio da me? Gesù rispose ed
insegnò un messaggio della Torah, dicendo al popolo
quello che i saggi di Israele trovarono nella Torah, che
cosa la Torah esigeva da loro:
117
«“Maestro qual è il più importante comandamento della
Legge?”. Gli rispose: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto
il cuore, con tutta l’anima e con tutta la tua mente. Questo è
il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è
simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da
questi due comandamenti dipende tutta la Legge e i Profeti”
» (Matteo 22,36-40).
Abbiamo qui qualcosa di familiare ed autentico: amare
Dio, come richiede lo Shema’x, la preghiera che proclama
l’unità di Dio e la sottomissione di Israele al dominio
di Dio; ed amare il proprio prossimo come se stesso.
Nessun saggio potrebbe trovare da ridire contro questi
insegnamenti. Nel come sono pensati sta lo spazio per la
discussione e l’obiezione.
Per capire perché, dobbiamo esaminare, dapprima, il
contesto nel quale è inquadrato il secondo dei due comandamenti:
«Il Signore disse ancora a Mosè: “Parla a tutta la comunità
degli Israeliti e ordina loro: Siate santi, perché io, il Signore,
Dio vostro, sono santo...”» (Levitico 19,1-2).
«Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera
apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai
d’un peccato per lui. Non ti vendicherai e non serberai rancore
contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo
come te stesso: io sono il Signore» (Levitico 19,17-18).
Se io dovessi soffermarmi su uno di questi “grandi comandamenti”
della Torah, avrei detto: «Maestro, ce n’è
un terzo che gli somiglia: “Voi sarete santi, perché io il
1 Shema’\ preghiera che l’ebreo osservante recita al mattino e alla sera,
prima delle altre orazioni. È composta da tre passi biblici (Deuteronomio
6,4-9; 11,13-21; Numeri 15,37-41) e comincia con le parole «Ascolta (shema’)
Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è Uno» (N.d.C.).
Signore, tuo Dio, sono santo”». Questo è un comandamento
che non si rivolge, dopo tutto, né a me personalmente,
né a come devo amare Dio e neppure a me in relazione
a qualcun altro, ma a tutti noi, a tutto Israele insieme.
Ancora una volta, perciò, sono colpito dalla dimensione
individuale alla quale Gesù si rivolge: Gesù si
rivolge alla persona che cerca la salvezza e all’uomo alla
ricerca di Dio. E fatti salvi i suddetti insegnamenti della
Torah, la Torah afferma qualcosa su una dimensione della
vita umana che, in questi detti, Gesù non distingue: la
comunità nel suo complesso, quello che oggi noi chiameremmo
“l’ordine sociale”.
Perché non c’è nessun messaggio che riguarda la terza
dimensione dell’esistenza umana, che trascende la vita
umana in rapporto a se stessi, che va oltre il rapporto esistenziale
fra due persone? Che cosa dire riguardo al rapporto
con Dio? Significa amare Dio tutto questo? Non
siamo noi tutti in relazione davanti a Dio? Posso amare
Dio e il mio prossimo, ma vivere, tuttavia, a Sodoma.
Ma Dio distrusse Sodoma. Dio si prende cura, perciò,
certamente di ogni singolo individuo, più che di tutta l’umanità.
Dio si prende cura di tutta l’umanità subito e
complessivamente. Questa è la ragione, così insegna la
Torah, per cui Dio elesse Abramo e Sara, Isacco e Rebecca,
Giacobbe, Lia e Rachele ed amò a tal punto i loro
figli da dargli la Torah sul Sinai.
Questa è la ragione, a mio avviso, per cui ciò che Gesù
ha detto acquista un grande peso; egli ha parlato a me,
ma non a noi; nella sua interpretazione del comandamento
fondamentale della Torah non c’è nessuna dimensione
dell’Eterno e del Santo Israele. Egli ha detto che io dovrei
vendere tutti i miei averi, darli ai poveri, e seguirlo;
Akiba, nella stessa situazione, non disse di meno a Tarfon.
Ma egli non ha detto che cosa noi - non io, ma noi,
119
Israele - dobbiamo essere; egli non ha detto come noi,
l’Eterno Israele, dobbiamo sforzarci per essere come
Dio. In fin dei conti «Ama il prossimo tuo come te stesso
», chiude quel passo che comincia dicendo «Voi sarete
santi; perché io... sono santo». Dal momento che Gesù
conosce bene la Torah, almeno come qualsiasi altro, egli
ha fatto le sue scelte, ha scelto quello che conta e ha taciuto
su quello che non conta. Ci si aspetta questo, dopo
tutto, da un maestro così originale nei suoi insegnamenti
sulla siepe intorno alla Torah. «Voi avete sentito che fu
detto... ma io vi dico...». Un pensiero affiora nella mia
mente. Se avesse detto: «Voi avete sentito che fu detto,
ma io non vi dico...».
Tralasciata la fondamentale affermazione di Levitico
19,2-3, la conclusione del quale, ripresa in Levitico
19,18, ne rappresenta il punto culminante, mi sembra che
Gesù abbia lasciato il punto principale fuori dal suo messaggio.
Perché dovrei amare il mio prossimo come me
stesso? Perché, come Mosè ci ha insegnato, «voi sarete
santi, perché io, il Signore vostro Dio, sono santo». E
questo significa essere come Dio, sforzarsi di raggiungere
la santità propria di Dio. Tutto ij resto del capitolo della
Torah, che raggiunge il suo culmine col secondo dei
due grandi comandamenti, rappresenta un commento al
comandamento sulla santità che Gesù non ha menzionato.
Assai onestamente mi sento di dover criticare il maestro.
Che genere di rispetto gli dimostrerei, se respingessi
mentalmente la sua teoria senza dargli l’opportunità di
replicare?
«Maestro - gli domando - che cosa mi dici riguardo
alla frase “voi sarete santi”? Che cosa vuole da me la Torah,
quando mi dice di essere santo?».
Mi fa cenno di andare avanti.
«I nostri maestri - che la loro memoria sia benedetta -
120
pensano, infatti, che il comandamento di essere santi riassuma
tutti e dieci i Comandamenti e che essere santi significhi
osservare questi comandamenti. Così insegnano
i nostri saggi».
E fidandomi dell’acutezza di un maestro che anticipa
gli insegnamenti che i saggi posteriori trarranno dalla Torah
che egli conosceva così bene, avrei cercato nel futuro
la spiegazione.
«Posso andare avanti?».
Un cenno d’assenso.
«Maestro - gli dico - in futuro i saggi leggeranno la
Torah e mostreranno come Levitico 19, lo stesso passo
che noi stiamo studiando insieme, che insegna a Israele a
essere santo, prevale sui Dieci Comandamenti. Essi dimostreranno
e te lo dimostrerò, che nel comandamento
di Levitico 19, sono compresi i Dieci Comandamenti di
Esodo 20. Questa è per me una buona ragione per osservare
i Dieci Comandamenti e cioè, che così io sarò santo,
perché Dio è santo. Voglio essere come Dio e i Dieci Comandamenti,
riaffermati in Levitico 19, mi insegnano ad
essere come Dio. Maestro, avrai la pazienza di ascoltare
come, in futuro, un rabbino ci avrebbe spiegato tutto
questo?».
Egli annuisce e io vado avanti:
«Rabbi Hyya insegnò: “L’affermazione ‘Parla a tutta la comunità
dei figli d’Israele’ (Levitico 19,2) insegna che l’intero
passo fu pronunciato in occasione della riunione. E perché
fu pronunciato in occasione della riunione dell’intera
assemblea? Perché la maggioranza dei princìpi della Torah
dipende da quello che è affermato in questo capitolo della
Torah”.
Rabbi Levi dice: “È dovuto al fatto che i Dieci Comandamenti
sono compresi fra i suoi insegnamenti.
‘Io sono il Signore tuo Dio’ (Esodo 20,2) e qui sta scritto:
121
‘Io sono il Signore tuo Dio’ (Levitico 19,2).
‘Tu non avrai altro Dio al di fuori di me’ (Esodo 20,3) e qui
sta scritto: ‘Non fatevi divinità di metallo fuso’ (Levitico
19,4).
‘Non nominerai il nome di Dio invano’ (Esodo 20,7) e qui
sta scritto: ‘Non giurerete il falso servendovi del mio nome’
(.Levitico 19,12).
‘Ricordati del giorno di sabato’ (Esodo 20,8) e qui sta scritto:
‘Tu osserverai i miei sabati’ (Levitico 19,3).
‘Onora tuo padre e tua madre’ {Esodo 20,12) e qui sta scritto:
‘Ognuno rispetti suo padre e sua madre’ (Levitico 19,3).
‘Non uccidere’ (Esodo 20,13) e qui sta scritto: ‘Non andrai
in giro a spargere calunnie fra il tuo popolo né coopererai
alla morte del tuo prossimo’ (Levitico 19,16).
‘Non commettere adulterio’ (Esodo 20,14) e qui sta scritto:
‘Non profanare tua figlia prostituendola’ (Levitico 19,29).
‘Non rubare’ (Esodo 20,15) e qui sta scritto: ‘Non ruberete
né userete inganno o menzogna gli uni contro gli altri’ (Levitico
19,11).
‘Non dire falsa testimonianza’ (Esodo 20,16) e qui sta scritto:
‘Non andrai in giro a spargere calunnie fra il tuo popolo’
(.Levitico 19,16).
‘Non desiderare la roba d’altri’ (Esodo 20,17) e qui sta
scritto: ‘Amerai il tuo prossimo come te stesso’ (Levitico
19,18)”» (Levitico Rabba 24,5).
C’è un momento di silenzio. La conversazione tace. Il
giovane uomo, il maestro ed io riflettiamo per un momento
su ciò che è avvenuto fra di noi. «Voi sarete santi...
Amerai il tuo prossimo come te stesso» non fanno altro
che ricapitolare i Dieci Comandamenti !
Come potrebbe allora dire qualcuno: «Ho fatto tutto,
che cosa c’è da fare di più?».
Riprendo, allora, a parlare: «Quando il giovane uomo
chiese che cosa doveva fare per entrare nella vita eterna,
tu gli dicesti di osservare i Dieci Comandamenti. Bene.
122
E avendo ascoltato quanto tu hai detto, io ho riflettuto
sul perché la Torah mi insegna ad osservare questi comandamenti,
e sono giunto alla conclusione che il motivo
risiede nel fatto che io voglio essere santo, perché Dio
è santo».
Si leva una voce dalla folla: «Più santo di te?».
Rispondo: «No, solo santo, perché Dio è santo».
E continuo: «Ora quando Dio mi dice, parlando attraverso
Mosè, come osservare i Dieci Comandamenti, egli
lo fa perché io possa essere santo come Dio. Non è abbastanza?
».
La folla si avvicina. «Chi ha detto che non era abbastanza?
».
Gli ricordo che il giovane uomo aveva posto la stessa
domanda: «Io ho osservato tutti questi comandamenti,
che cosa mi manca ancora?». «E tu hai risposto - proseguo
- abbastanza chiaramente che gli manca ancora
qualcosa: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi tutto quello
che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro nei cieli, poi
vieni e seguimi”. Ti ho colto ancora in fallo, maestro.
Quello che ti sento dire è che i Dieci Comandamenti non
sono abbastanza, che non basta nemmeno il Grande Comandamento,
la Regola Aurea. La perfezione consiste
nella povertà e nell’obbedienza a Cristo».
Che obiezione puntuale posso muovere io? Gesù mette
in contrasto Cristo e la ricchezza, come Akiba metterà in
contrasto, più tardi, la Torah e la ricchezza. Su questo
punto non posso discutere con lui. Ma un problema più
preoccupante resta vivo. Gesù vuole che io lo segua e
che io sia come lui. Ho ascoltato un comandamento simile
nella Torahl Naturalmente sì: «Voi sarete santi, perché
io sono santo». Sono chiamato dalla Torah a tentare
di essere come Dio: santo. (Mi diffonderò di più su questo
argomento nella discussione che avrò nel prossimo
123
capitolo con Gesù sui farisei). Abbiamo percorso, tuttavia,
un lungo cammino, raggiungendo la nostra meta: la
possibilità di avere una discussione sul punto principale.
Siamo, infatti, al nocciolo della questione. A questo
punto troviamo argomenti per una discussione nella quale
entrambe le parti parlino delle stesse cose e negli stessi
termini, come ho già mostrato. Vendo tutto quello che
ho e ho davanti a me due strade: studiare la Torah o seguire
il Cristo. Quale delle due?
Possiamo discutere adesso, certamente, sullo stesso argomento,
cioè su quale sia davvero la cosa più importante
nella vita. Per che cosa dovrei dare la mia vita? È questo
che è in gioco: Gesù fa bene a rispondere «Seguimi»
e la Torah fa bene a rispondere «Siate santi, perché io sono
santo». Che differenza fa ai cristiani o agli ebrei se, in
ogni caso, noi crediamo che “tutto quello che abbiamo”
ha lo stesso valore di quello che valutiamo di più, cioè rispettivamente
Cristo o la Torahl Non c’è nessuna differenza:
la struttura è la stessa. La discussione può cominciare.
Su che cosa? Sul punto principale: che cosa c’è da
dire sulla vita? Che cosa rende la vita degna di essere
vissuta? Cristo e la Torah concordano che Dio risponde a
questa domanda. Cristo e la Torah sono d’accordo che,
per essere perfetto, devo tentare di essere perfetto come
Dio o devo rinunciare a ogni cosa per Cristo.
Perciò quale? Che cosa insegna, allora, la Torah che
dovrei fare io per imitare Dio, per essere come Dio? E
che cosa mi insegna allora Gesù che dovrei fare per seguire
Cristo? E come dobbiamo scegliere fra queste due
cose equivalenti contrapposte: due risposte ad un’unica
domanda, due letture di una sola Torahl
Qui non posso discutere con Gesù. Una risposta onesta
e gentile in favore del Gesù di Matteo ci porterebbe, in124
latti, ben oltre i limiti di questa discussione. Ho detto che
avremmo dovuto discutere solo con gli insegnamenti di
(ìesù, senza mettere in dubbio nessun dettaglio della
"buona novella” di Matteo sulle azioni di Gesù, sui suoi
miracoli, sui messaggi rivolti ai suoi discepoli, su quanto
patì e su come trionfò sulla morte.
Per realizzare una discussione fra Cristo e la Torah,
l’intera figura di Cristo (nell’accezione cristiana) richiede
un posto centrale, e non solo il Cristo di Matteo, ma
anche quello di Marco, di Luca, di Giovanni, di Paolo e
soprattutto il Cristo della Chiesa e i fedeli cristiani da allora
fino ad oggi. Questa testimonianza sul significato di
«Vendi tutto quello che hai e seguimi» non può essere ridotta
a poche frasi sull’amore per il proprio prossimo.
Noi dovremmo, in verità, raccontare di nuovo tutto il
Vangelo di Matteo allo scopo di rispondere alla domanda:
come cercare di seguire Cristo? Che cosa significa
fare questo? La risposta a questa domanda non risiede
soltanto negli insegnamenti del solo Gesù, dei quali ci
stiamo occupando, ma anche in tutto ciò che fece e nella
sua sottomissione alla volontà di Dio in tutto ciò che
subì; e non basta: la risposta sta, specialmente, nei giorni
in cui discese negli inferi e nella sua risurrezione dalla
tomba: tutto questo insieme, allo stesso tempo. Sarebbe
presuntuoso da parte mia rispondere, sulla base dei pochi
detti che io trovo suscettibili di una discussione, alla domanda:
«Che cosa devo fare se mi accade di seguirlo?».
Lo stesso vale per la Torah', per giustapporre e mettere
in contrasto il racconto della Torah su quello che intende
per sforzarsi di essere santo, di essere come Dio. Renderei
a fatica giustizia al problema citando pochi versetti
della Torah. Dovrei chiamare a raccolta tutti i maestri
della Torah da allora fino ad oggi, tutti quelli che hanno
studiato la Torah con erudizione e sapienza, allo scopo di
125
esporre, qui ed ora, che cosa vuol dire essere santi come
Dio. Siamo arrivati al cuore del problema e il contrasto è
davvero concreto.
Limitandoci da un lato alla rappresentazione che Matteo
fa di Gesù e dall’altro alla Torah, non ci sentiamo,
ovviamente, all’altezza del compito; chi, se non Dio, ha
in fin dei conti la visione d’insieme necessaria per comparare
e mettere in contrasto Cristo e la Torah, l’Eterno
Israele e la Chiesa? Dio non fa parte di questa discussione,
a meno che non riguardi, da un lato, la Torah che Dio
diede all’Eterno Israele, dall’altro, la Torah che Cristo
trasmise, a suo tempo e a suo modo e attraverso la sua
Chiesa, al cristianesimo.
Lasciando l’ultima parola a Dio, forse anche qui ed
ora, possiamo delineare i contorni della discussione: su
che cosa non siamo d’accordo e su che cosa noi, l’Eterno
Israele, manifestiamo il nostro dissenso?
Se esaminiamo quello che i nostri saggi insegnano per
essere santi come Dio, si possono intravedere gli inizi di
una discussione onesta. Se dovessi indicare una sola differenza
fra il messaggio della Torah, almeno come lo mediano
i nostri saggi, e il messaggio di Gesù citato e descritto
da Matteo, essa risiede in un fatto: il messaggio
della Torah riguarda sempre l’Eterno Israele, mentre il
messaggio di Gesù riguarda sempre quelli che lo seguono.
La Torah parla sempre alla comunità e si interessa alla
formazione di un ordine sociale degno del Dio che ha
fatto esistere Israele. Gesù Cristo, nel racconto di Matteo,
parla di tutto tranne che dell’ordine sociale attuale;
adesso egli parla di se stesso e della sua cerchia; poi, in
futuro, egli parlerà del regno dei cieli.
Fra l’uomo e il regno che verrà resta l’oggi della vita
quotidiana. Ma è questo oggi che la Torah comanda a
Israele di santificare. E in gioco nella vita dell’ordine so126
ciale che mira alla santificazione non c’è altro che la santi
licazione di Dio nell’alto dei cieli.
Mi rivolgo ancora una volta al maestro, abusando, in
verità, con la mia insistenza, della sua pazienza: «Siamo
i mportanti sia individualmente, sia tutti insieme, contemporaneamente.
La santità non è solo per me e per te, ma
è per tutti noi; tutti noi, tutti insieme e contemporaneamente,
siamo coloro ai quali Dio parlò, quando, usando
il plurale “voi”, disse: “Voi sarete santi; perché io il Signore,
vostro Dio, sono santo”. Dio usa il plurale “voi”
quasi sempre, e in questi tuoi detti fondamentali ed emblematici
- passo ora a parlare al Gesù di Matteo - il
“voi” è dunque un giovane uomo. E tutto Israele, allora,
quel “voi” che è il soggetto di “Voi sarete santi, perché...”
».
«Maestro, lasciami spiegare, come i nostri saggi faranno
in futuro, che cosa c’è in discussione. Se Israele forma
un ordine sociale che incarna la santità di vita, allora
Israele santifica Dio». Prescindendo quindi dal tempo,
cito questa affermazione:
«“Voi sarete santi, perché io, il Signore tuo Dio, sono santo”
vale a dire: “Se voi santificate voi stessi, ve lo ascriverò
a merito come se mi aveste santificato, e se non santificate
voi stessi lo interpreterò come se non mi aveste santificato”.
Oppure il senso è forse questo: “Se voi mi santificate sarò
perciò santificato e, se no, allora non sarò santificato”?
La Scrittura recita: “Perché io sono santo...”, vale a dire: “io
resto santo in ogni caso, che mi santifichiate o meno”.
Abba Saul dice: “Il re ha un seguito e qual è il suo compito?
È quello di imitare il re”» (Sifra 194: I,2-3)2.
2 Ho fatto anche riferimento a documenti che sono considerati, nell’ebraismo,
parte della Torah, ma che non fanno parte del Canone ebraico o “Antico
Testamento”. Essi sono la Mishnah, di cui abbiamo già parlato in precedenza,
i due Talmud (il Talmud della Terra di Israele, Palestinese o di Geru-
127
I discepoli avrebbero certamente replicato: «Questa è
proprio la nostra fede: imitare Cristo. Abbiamo votato le
nostre vite a questo compito. Così in che cosa noi dissentiamo
e come tu sollevi obiezioni? Perché questo grande
dissenso?».
La mia risposta scaturisce dalla maniera in cui i nostri
saggi espongono i dettagli dell’imitazione di Dio, di essere
santi come Dio. Ai nostri tempi la constatazione che
“c’è qualcuno più santo di te” - fatto che a nessuno piacerebbe
riconoscere, ma che solleticherebbe molti - getta
una cattiva luce sulla santità. Dobbiamo cogliere bene
che cosa i nostri saggi fanno del comandamento di essere
simili a Dio. Questa è la maniera in cui i nostri saggi - la
cui memoria è benedetta - leggono alcuni di questi fondamentali
versetti:
«“Tu non ti vendicherai [né porterai rancore]”.
Fin dove si spinge la forza della vendetta?
Poniamo il caso che un uomo dica all’altro: “Prestami la tua
falce” e l’altro rifiuti. Il giorno dopo quell’altro gli chiede:
“Prestami la tua vanga” e l’altro replica: “Non te la presterò,
visto che non mi hai prestato la falce”. In questo contesto
si dice: “Tu non ti vendicherai o porterai rancore”.
Fin dove si spinge il rancore?
Poniamo il caso che un uomo dica all’altro: “Prestami la
vanga”, ma l’altro rifiuti. Il giorno dopo l’altro gli dice:
salemme, composto verso il 400 d.C.; e il Talmud di Babilonia, composto
verso il 600 a.C.) che commentano la Mishnah, e vari commenti alla Scrittura
detti Midrash, che commentano i testi scritti della Torah. Nell’interesse
del dibattito, non è necessario cavillare: per l’ebraismo essi fanno tutti parte
di una sola Torah, che Dio diede a Mosè sul monte Sinai. Nessuno di questi
testi era già stato completato all’epoca di Gesù, ma lo fu soltanto molti secoli
dopo. Ma in una discussione interreligiosa io attingo alla Torah come la
definisce l’ebraismo, così come descrivo il Gesù di Matteo, che il cristianesimo
ha scelto fra molti altri Vangeli. Le religioni non discutono di fatti storici,
ma della verità di Dio ed è questo che io intendo fare.
128
“Prestami la falce”, ma l’altro replica: “Non sono come te
che non mi prestasti la vanga; [eccoti la falce]”.
In questo contesto è detto “non portare rancore.”
“Ma tu amerai il tuo prossimo come te stesso: [Io sono il
Signore]. Rabbi Akiba dice: “Questo è il principio che racchiude
tutta la Torah”» (Sifra 200: III, 4-5,7).
Essere santi come Dio significa non vendicarsi in nessun
modo, nemmeno a parole, facendo cioè notare all’altro
che non mi sono comportato in modo cattivo come
lui. Sotto molti punti di vista ci sentiamo a nostro agio.
Questo consiglio ricorda, dopo tutto, il messaggio che, se
la Torah dice di non uccidere, non dobbiamo nemmeno
rischiare di irritarci. Amare Dio significa fare più del dovuto.
Akiba considera l’affermazione conclusiva «Ama il
prossimo tuo come te stesso» come il grande comandamento,
come il principio riassuntivo di tutta la Torah.
E questo ci porta alla domanda successiva, cioè quello
che significa essere «simili a Dio». Questa è una risposta:
«Abba Saul dice: “Cerca di essere come Lui. Come Egli è
clemente e misericordioso, tu pure sii clemente e misericordioso
[ infatti è detto: Il Signore, Dio, clemente e misericordioso’
(Esodo 34,6)]”» (Mekhilta di R. Ishmael 18: II, 3).
Essere simili a Dio significa imitarne la clemenza e la
compassione: queste cose fanno di Dio Dio e ci possono
fare simili a Dio. Essere simili a Dio, perciò, è essere
molto umani, essere umani, tuttavia, in modo assai particolare:
è, in fin dei conti, la grazia - ma anche lo stesso
esempio - di Dio che ci dà la forza di essere clementi e
compassionevoli. Non pochi discepoli di Gesù si rivolgeranno
a lui in questo modo, proprio nello stesso modo
nel quale noi ci rivolgiamo a Dio.
129
Ed ecco un’altra risposta sulla stessa falsariga; nel brano
seguente, un saggio domanda come come noi possiamo
seguire Dio o essere simili a Dio; cioè, che cosa significa
essere santi, essere simili a Dio? E la risposta è:
imitare Dio, fare le cose che Dio fa, proprio come la Torah
descrive le azioni di Dio:
«Rabbi Hama figlio di Rabbi Hanina disse: “Che cosa significa
il seguente versetto della Scrittura: ‘Seguirete il Signore
vostro Dio’ (Deuteronomio 13,5). Ora, è possibile seguire
la Presenza di Dio? Non è stato forse detto: ‘Il Signore
tuo Dio è un fuoco divoratore’ (Deuteronomio 4,24)?
Ma il significato è che bisogna seguire le caratteristiche del
Santo, benedetto egli sia.
Proprio come Lui ha vestito gli ignudi, come sta scritto ‘Il
Signore Dio fece all’uomo e alla donna tuniche di pelli e li
vestì’ (Genesi 3,21), così tu vestirai gli ignudi.
Proprio come il Santo, benedetto egli sia, visitò gli infermi,
come sta scritto: ‘Il Signore apparve a lui alle querce di
Mamre’ (Genesi 18,1), così tu visiterai gli infermi.
Proprio come il Santo, benedetto egli sia, confortò quelli
che sono in lutto, come sta scritto: ‘Dopo la morte di Abramo,
Dio benedisse Isacco suo figlio’ (Genesi 25,11), così tu
conforterai quelli che sono in lutto.
Proprio come il Santo, benedetto egli sia, seppellì i morti,
come sta scritto: ‘E lo seppellì nella valle’ (Deuteronomio
34,6), così tu seppellirai i morti”» (Talmud Babilonese,
Trattato Sotah 14a).
Per essere santo come Dio io debbo vestire gli ignudi,
visitare i malati, confortare quelli che sono in lutto, seppellire
i morti, cioè «amare il mio prossimo come me
stesso». Queste azioni sono veramente degne di un uomo
che ama il suo prossimo. Non per niente la Torah ci dice
che siamo fatti ad immagine e a somiglianza di Dio: «E
130
Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo
creò; maschio e femmina li creò» (Genesi 1,27). Non
stupisce, allora, che i saggi della Torah avrebbero trovato
la santità di Dio nel vestire gli ignudi, seppellire i morti,
forse anche nell’insegnare la Torah ai prigionieri.
A questo punto, naturalmente, Gesù avrebbe voluto replicare:
«Che cosa pensi, dunque, che vi abbia detto per
tutto questo tempo sulla terra?»
Rispondo, con un cenno del capo: «Sì, lo so. Tuttavia...
».
Allora, con tanta cortesia e gentilezza, egli mi saluta
con un cenno del capo e se ne va per la sua strada. Senza
“se”, senza “ma”... proprio da amici.
Egli non ha detto, in verità, di meno. Anzi, egli ha detto
di più. Mentre perciò ci separiamo da amici, egli se ne
va per la sua strada, il giovane uomo che ci ha fatto incontrare
se ne torna tristemente a casa e io mi dirigo verso
la più vicina sinagoga.
Sta per fare buio e debbo recitare le mie preghiere e
studiare pure un po’ di Torah. Unendomi all’Israele riunito
in assemblea in quella città, mi accingo a recitare le
preghiere per il crepuscolo che cominciano così: «Beati
quelli che abitano nella vostra casa, essi ti loderanno ancora
di più. Beate le persone sulle quali cadono tali benedizioni.
Beato il popolo, del quale Dio è il Signore» (Salmo
144,15).
Dopo aver concluso le preghiere per il crepuscolo, ci
raduniamo intorno al maestro nella stanza che si sta facendo
buia. Quella sera, nella seduta dedicata allo studio
della Torah, egli mi dice: «Dimmi, a che cosa stai pensando?
Chiedimi qualcosa e vedrò se posso risponderti».
Chiedo allora al maestro tutto quanto; la Torah contiene
tante cose. Il maestro, Gesù, ha spiegato, in fin dei
conti, quanto sono importanti i comandamenti. Egli li
131
può riassumere in poche semplici parole e molto di
quanto ha detto ha un senso analogo all’insegnamento
della Torah. Tutti i comandamenti sono uguali oppure
ce n’è uno più importante degli altri? E che cosa vuol
dire, arrivando a quel passo, «siate santi, perché Dio è
santo?».
Espongo così quanto ho pensato per tutto il giorno:
«Maestro, quante buone azioni debbo fare per ottenere la
vita eterna?».
Il sole è tramontato, il buio ha inghiottito il villaggio.
Alla luce della lampada, il maestro fa notare che la Torah
stessa dà risposta alla domanda fatta dal maestro Gesù.
Che cosa c’è da aggiungere? Da Mosè in poi, in verità, i
grandi profeti - Davide, Isaia, Michea, Amos, Abacuc -
ci dissero ciò che ha valore. E questo, secondo il riassunto
che un maestro posteriore fece dei loro insegnamenti,
è ciò che essi dissero:
«Rabbi Simelai spiegò: “Seicentotredici insegnamenti furono
dati a Mosè, trecentosessantacinque negativi corrispondenti
all’anno solare e i giorni che formano l’anno solare e
duecentoquarantotto comandamenti positivi che corrispondono
alle parti che formano il corpo umano.
Venne Davide e li ridusse a undici: ‘Salmo. Di Davide. Signore,
chi abiterà nella tua tenda? Chi dimorerà sul tuo santo
monte? Colui che cammina senza colpa, agisce con giustizia
e parla lealmente, chi non dice calunnia con la sua lingua,
non fa danno al suo prossimo e non lancia insulto al
suo vicino. Ai suoi occhi è spregevole il malvagio, ma onora
chi teme il Signore. Anche se giura a suo danno, non
cambia; chi presta denaro senza fare usura e non accetta doni
contro l’innnocente’ (Salmo 15,1-11).
Venne Isaia e li ridusse a sei: ‘Chi cammina nella giustizia e
parla con lealtà, chi rigetta un guadagno frutto di angherie,
scuote le mani per non accettare regali, si tura gli orecchi
132
per non udire fatti di sangue, chiude gli occhi per non vedere
il male, costui abiterà in alto’ {Isaia 33,15-16).
Venne Michea e li ridusse a tre: ‘Uomo, ti è stato insegnato
ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare
la giustizia, amare la pietà, camminare umilmente con il tuo
Dio’ (Michea 6,8).
Venne ancora Isaia e li ridusse a due: ‘Così dice il Signore:
Osservate il diritto e praticate la giustizia’ (Isaia 56,1).
Venne Amos e li ridusse ad uno solo: ‘Cercate me e vivrete’
{Amos 5,4).
Venne poi Abacuc e li riassunse in uno solo, come sta scritto:
‘Ma il giusto vivrà per la sua fede’ (Abacuc 2,4)”» (Talmud
Babilonese, Makkot 24a-b).
«Così - disse il maestro - è questo che il saggio Gesù
aveva da dire?».
Risposi: «Non precisamente, ma quasi».
Allora mi domandò: «Che cosa ha tralasciato?».
E io: «Nulla».
Ribattè il maestro: «Che cosa ha aggiunto allora?».
E io: «Se stesso».
Lui: «Oh...!».
Soggiunsi allora: «“Ma il giusto vivrà per la propria fede”.
Che cosa vuol dire? Uomo, ti è stato insegnato ciò che
è buono e ciò che esige il Signore da te: praticare la giustizia,
amare la pietà, camminare umilmente nel Signore».
Replicò il maestro: «Gesù sarebbe d’accordo?».
Io: «Credo di sì».
Mi chiese allora: «Perché sei così turbato stasera?».
Io: «Perché io credo davvero che ci sia una differenza
fra “voi sarete santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono
santo” e “se vuoi essere perfetto, va’, vendi tutto quello
che hai e segui me”».
Obiettò lui: «Suppongo allora che dipenda davvero da
chi è questo “me”».
133
E io: «Sì, è vero».
Concluse il maestro: «È tempo della preghiera della
sera: guidaci».
Io comincio a recitare le parole iniziali della preghiera
che parlano dell’amore di Dio per noi: «Ed egli che è misericordioso,
che perdona il peccato e non distrugge, che allontana
la sua ira e non colpisce con tutto il suo furore. O
Signore, salvaci, o Re, rispondici quando ti invochiamo».
Continuo con la richiesta di pregare: «Benedetto sia il
Signore che deve essere benedetto...».
Con tutto il mio cuore e con tutta la mia anima recito
10 Shema’\ «Ascolta Israele, il Signore Dio nostro il Signore
è uno. Amerai il tuo Signore con tutto il cuore, l’anima
tua e con tutte le forze».
Perciò allora, come sempre, noi offriamo la nostra preghiera
serale al Dio vivente. E in alcuni villaggi lungo la
valle, così fecero Gesù e i suoi discepoli e tutto l’Eterno
Israele, il popolo santo, che vive nella terra santa, dando
11 benvenuto al calar della notte. Essi fecero questo allora
e noi, l’Eterno Israele, lo facciamo anche oggi, piegando
le nostre ginocchia quando parliamo al Benedetto, al Dio
di Abramo e Sara, di Isacco e di Rebecca, di Giacobbe,
Lia e Rachele, tutti noi: Abramo, Isacco e Giacobbe, Sara,
Rebecca, Lia, Rachele che formavano allora e formano
ora l’Eterno Israele.
E buio adesso. Il sole è tramontato, spuntano le stelle.
Le nostre preghiere terminano. E noi le concludiamo
adesso, come le concludemmo allora, con le parole che
usò anche Gesù:
«Sia santificato il nome di Dio e reso grande nel mondo che
Dio ha creato secondo la volontà di Dio. E possa arrivare il
regno di Dio, durante la nostra vita e durante la vita di tutto
Israele e tutti dicano: amen.
134
Padre nostro che sei nei cieli, possa essere santificato il tuo
nome. Sia fatta la tua volontà, venga il tuo regno così in
cielo come in terra».
Così pregammo quella notte e così preghiamo nei secoli;
così pregò lui quella notte, così avrebbero pregato i
suoi discepoli nei secoli. Certo, discutiamo e lottiamo;
ma preghiamo lo stesso Dio. E questo è il motivo per cui,
in fin dei conti, discuteremo accanitamente, ma serviremo
Dio amandoci l’un l’altro come Dio ci ama.
Ma come dimostra Dio il suo amore per l’uomo?
La mattina dopo era un giovedì, quando la santa Torah
viene tolta dall’arca e mostrata in processione all’Eterno
Israele e letta ad alta voce. Facendo parte del sacerdozio,
sono allora chiamato a leggere la Torah per primo.
E io pronuncio la benedizione che pronunciamo prima
di leggere le parole della Torah:
«Benedetto sei Tu, Signore, nostro Dio, dominatore del
mondo, che ci hai scelti fra tutti i popoli e ci hai dato la Torah.
Benedetto sei tu... che ci hai dato la Torah».
Egli dà la Torah: qui, adesso, ogni giorno.
E poi:
«Benedetto sei tu, Signore, nostro Dio, dominatore del
mondo, che ci hai dato la vera Torah e ci hai dato la vita per
sempre. Benedetto sei tu... che ci hai dato la Torah».
Questa è la maniera in cui Dio mostra il suo amore per
noi. Lasciai il culto sinagogale e guardai verso l’orizzonte
lontano. E fui contento di essere chi ero e che cosa ero
con tutto Israele allora e adesso e per sempre.
135. -
cogito.
User deleted
Rispettare i Comandamenti è anche per Gesù il primo, basilare dovere "sociale" di ogni Israelita,..diciamo il normale "corso di studi", aperto a tutti, per conseguire un titolo, diploma o laurea..vi è poi una specializzazione "post Laurea", un Dottorato, destinato ai più dotati e più arditi.."chi può lo faccia" . -
Varnon.
User deleted
_____Un Rabbino Parla con Gesù_____
il messaggio
della Torah illustra sempre il motivo di ogni precetto
Lo spero. Peró mi pare di aver capito da altre discussioni che è anche il contrario.
Infatti alla domanda: " Perchè non bisogna tagliarsi la barba?"
Mi dissero che un buon ebreo non si domanda il motivo di una mizvah ma esegue solamente, perchè è un comando di D-o._____Un Rabbino Parla con Gesù_____
Non stupisce, allora, né il fatto che io nutra
sentimenti di un pieno grande rispetto per il cristianesimo,
né che io abbia voluto spiegare in maniera ragionevole
proprio il punto in cui, a mio avviso, il cristianesimo,
a partire da Gesù (come è ritratto in uno dei Vangeli),
prese una direzione sbagliata abbandonando la Torah.
In quale Vangelo, si deduce che Gesù si allontani dalla Torah?!?!?!?
Grazie
Bruno Talamos. -
.
«VOI SARETE SANTI»
contro
«PIÙ SANTO DI TE»
7
«Allora Gesù si rivolse alle folle e ai suoi discepoli, dicendo:
“Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i fa risei.
Quanto vi dicono, fatelo ed osservatelo, ma non fate secondo
le loro opere, perché dicono e non fanno. Legano infatti
pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente,
ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito. Tutte le
loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini: allargano
i loro filatteri e allungano le frange; amano i posti
d ’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti
nelle piazze, come anche sentirsi chiamare ‘rabbi’ dalla
gente. Ma voi non fatevi chiamare ' rabbi’ perché uno solo è
il vostro maestro e voi siete tutti fratelli” »
(Matteo 23,1-8).
Essere santi, evidentemente, è una cosa, ma essere
“più santi di te” è qualcosa di profondamente diverso. E
per quanto questa battuta possa essere gentile e faceta, il
maestro, Gesù, ha da dire qualcosa di sferzante riguardo
a chi si crede migliore degli altri. E questo mi secca un
po’. Il motivo non sta nel fatto che gran parte delle critiche
avanzate da Gesù contro gli uomini pii della sua epoca
potrebbero essere mosse anche agli uomini pii che conosco
oggi nelle sinagoghe. Una religione che insegna,
136
come fa l’ebraismo, che Dio esige da noi di fare alcune
cose e di non farne altre, crea di conseguenza persone
che fanno un gran parlare su quello che si fa e su quello
che non si fa, senza porre attenzione al perché Dio ci dice
di farlo o di non farlo. Una religione che si esprime in
modo così terreno può trovare un gruppo numeroso di
persone che fa così per mettersi in mostra. Questo non
priva la religione di valore; quello che conta è evidenziare
i problemi connessi a questo modo di servire Dio. Dio
conosce, tuttavia, che cosa succede.
Quello che mi infastidisce nello sferzante giudizio di
Gesù sugli scribi e i farisei è che io sono una di quelle
persone che fanno le cose che gli scribi1 e i farisei2 osservano.
Vale a dire, io credo davvero che Dio voglia che
io adempia la Torah; credo che Dio voglia che io mi
sforzi di essere santo. Gesù sottopose a una critica così
feroce la gente come me, tanto che la parola “fariseo” ha
perso, da quel momento in poi, qualsiasi onore ed è usata
per definire “un ipocrita”. «Tutte le loro opere le fanno
per essere ammirati dagli uomini». Questo giudizio sull’ebraismo
(per non parlare delle innumerevoli forme di
cristianesimo che agiscono per servire Dio e credono che
Dio si compiaccia di queste azioni) non riguarda soltanto
1 Gli scribi avevano un proprio lavoro ed erano responsabili dell'insegnamento
della Torah, della redazione di documenti che rendevano degli atti ufficiali
conformi alla Torah. Una donna aveva diritto, per esempio, ad un contratto
matrimoniale che specificasse gli obblighi che il marito aveva verso di
lei, anche in caso di divorzio o di morte. Se una donna divorziava, il marito
era obbligato a concederle un atto di ripudio, che scioglieva il matrimonio.
Poiché il matrimonio era considerato santo, la redazione e la consegna di un
atto di divorzio qui, in terra, significava che la donna non apparteneva a
quell’uomo ed era libera di sposare un altro. Lo scriba risultava dunque essere
un collaboratore di Dio sulla terra, sia insegnando la Torah, sia redigendo
documenti ufficiali.
2 I farisei erano gente comune che osservava in maniera particolarmente
rigida talune prescrizioni della Torah. Più avanti spiegherò alcune di queste
credenze e pratiche, nel quadro delle divergenze che Gesù ebbe con i farisei.
137
gli ipocriti o la gente che le fa per mettersi in mostra, ma
riguarda chiunque adempia ai precetti religiosi, alle mizvot3
o i comandamenti che la Torah insegna.
Noi che cerchiamo di obbedire alla Torah eseguendo
le mìzvot crediamo che in questo modo adempiamo al
patto che ci unisce a Dio: esso è ciò che, secondo la Torah,
Dio ci comanda di fare in quanto parte della relazione
fra noi e Dio che è stata stabilita da un Patto. Si tratta
di una vita sottoposta alle regole della Torah perché queste
regole rappresentano le regole del Patto.
Quando osservo i comandamenti della Torah, io servo
Dio. Quando io eseguo un comandamento, io recito la
benedizione: «Benedetto sei tu, Signore, nostro Dio, dominatore
del mondo, che ci hai santificato per mezzo dei
comandamenti e che ci hai comandato...», menzionando
poi l’azione che ho compiuto. Questo è lo scopo della vita
sotto la Torah: santificare, attraverso l’agire, la vita
quotidiana in ogni suo atto, per amore di Dio. Ritorniamo,
però, a questi sferzanti giudizi, ai quali voglio replicare,
nella discussione che voglio intavolare con il maestro.
Non voglio insinuare affatto che Gesù non abbia avuto
motivo di irritarsi. I suoi avversari e i suoi nemici dichiarati
risultavano essere sempre i farisei, talvolta insieme ai
sadducei4, talvolta insieme agli scribi. E Gesù aveva dei
nemici e aveva buone ragioni per essere provocato da loro.
Non abbiamo motivo di minimizzare la forte ostilità
fra questi gruppi di fedeli ebrei. Per esempio, quando
3 Mizvot: “comandamenti”. Il filosofo medievale Maimonide distinguerà
613 precetti, tra positivi e negativi (N.d.C.).
4 I sadducei sono rappresentati come un gruppo dalle opinioni assai particolari
nella religione e nella politica. Essi si distinguono dai farisei perché, a
differenza di questi, non credono né nella risurrezione dei morti, né nella vita futura.
138
vennero a farsi battezzare da Giovanni il Battista - cioè a
farsi lavare con acqua, secondo Matteo, per essere purificati
dal peccato -, Giovanni il Battista li respinse: «Razza
di vipere! Chi vi ha suggerito di sottrarvi all’ira imminente?
» (Matteo 3,7). La stessa gente interrogava costantemente,
e invero non molto amichevolmente, lo stesso
Gesù.
I farisei chiedevano ai suoi discepoli: «Perché il vostro
maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?»
(.Matteo 9,11). I discepoli di Giovanni chiedevano: «Perché
mentre noi e i farisei digiuniamo, i tuoi discepoli non
digiunano?» {Matteo 9,14). Quando egli faceva miracoli,
i farisei dicevano: «Egli scaccia i demoni per opera del
principe dei demoni» (Matteo 9,34; cfr. anche Matteo
12,24). Allora di nuovo, cercarono di tendergli una trappola:
«I tuoi discepoli stanno facendo quello che non è
lecito fare in giorno di sabato» (Matteo 12,2), quando
guariva di sabato. «I farisei però, usciti, tennero consiglio
contro di lui per toglierlo di mezzo» (.Matteo 12,14).
E ancora, i farisei chiesero un segno: «Maestro, vorremmo
vedere un segno da te» (Matteo 12,38). Perciò Gesù
aveva certamente delle buone ragioni per rimproverare
proprio i farisei fra tutti i suoi avversari e nemici. Egli
incassò rimproveri e ne mosse.
Ascolto le domande provocatorie e le risposte, ma non
so dare un senso alla maggior parte di esse. Gesù disse,
certamente, alcune cose in accordo con la Torah. Ne disse
altre che rendevano la Torah più esigente. Ne disse,
infine, altre ancora, nate dalla sua propria riflessione. Alcune
provocazioni dei farisei - «Perché i tuoi discepoli
non rispettano il sabato?»; «Che ne dici di alcuni segni o
miracoli?» - derivavano dalle idee della gente in generale.
Altre idee erano, tuttavia, peculiari al loro modo di
pensare, cosicché Gesù osteggiò con chiarezza, nella ma-
139
niera più dura possibile, quelle azioni e quelle idee che
giudicava caratteristiche dei farisei.
Una volta mi trovai presente mentre questo duello stava
svolgendosi. Qualcuno disse qualcosa, qualcun altro
lo appoggiò e prima di capirlo, gli animi si esacerbarono.
I farisei, da una parte, accalorati dal sole a picco; Gesù
e i suoi discepoli irritati, dall’altra, lanciavano occhiate
di sfida.
Tutto era nato da una domanda assai semplice che faceva
parte del tormento continuo che Gesù subiva ogni
giorno e che mi provocava imbarazzo e dolore, poiché
una figura così interessante non riceveva l’attenzione che
avrebbe meritato:
«In quel tempo vennero a Gesù da Gerusalemme alcuni farisei
e alcuni scribi e gli dissero: “Perché i tuoi discepoli
trasgrediscono le tradizioni degli antichi? Poiché essi non si
lavano le mani quando prendono cibo”. Ed egli rispose loro:
“Perché voi trasgredite il comandamento di Dio in nome
della vostra tradizione? Dio ha detto: ‘Onora il padre e la
madre’ e inoltre ‘Chi maledice il padre e la madre certamente
morirà’. Invece voi asserite: ‘Chiunque dice al padre
e alla madre: Ciò con cui dovrei aiutarti è offerto a Dio, non
è più tenuto a onorare il padre e la madre’. Così avete annullato
la parola di Dio in nome della vostra tradizione. Ipocriti!
Ben ha profetato Isaia di voi dicendo: ‘Questo popolo
mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano
mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti
di uomini’ (Isaia 29,13)”» (Matteo 15,1-9).
Come ho detto, quello che mi aspettavo da Gesù era
un buon dibattito. Il problema del «lavarsi le mani quando
mangiano», presentato come «una tradizione degli anziani
», era importante per i farisei, ma non aveva alcuna
importanza per Gesù. Il lavacro delle mani non era moti
140
vato da ragioni igieniche, visto che all’epoca nessuno
aveva mai sentito parlare di microbi.
Questo ci riporta ai farisei e ci spinge a voler sapere
che cosa lo rendesse, ai loro occhi, così importante. Il rito
di cui parliamo aveva a che fare con la purificazione. Per
capire che cosa significhi, dobbiamo allontanare dalla nostra
mente l’idea che la purità o la pulizia avessero un significato
igienico. Che cosa c’è in discussione qui? Una
risposta può essere suggerita da un’importante affermazione
contenuta nella Mishnah, che più tardi fa discendere
dal rispetto di questa usanza un certo numero di virtù:
«Rabbi Pinhas ben Yair dice: “L’attenzione porta alla pulizia,
la pulizia porta alla purezza, la purezza porta all’astinenza,
l’astinenza alla santità, la santità alla modestia, la
modestia alla paura di peccare, la paura di peccare alla pietà,
la pietà allo Spirito santo, lo Spirito santo alla risurrezione
dei morti e la risurrezione dei morti, verrà attraverso
Elia, la cui memoria sia in benedizione. Amen”» (Mishnah,
trattato Sotah 9,14).
Vediamo in questo brano come una varietà di virtù formino
una scala che porta in cielo. Partiamo dall’attenzione
o dalla diligenza, che significa porre davvero grande
attenzione a ciò che si fa. Questo atteggiamento, se eccessivo,
può condurre al comportamento malsano che ho
menzionato in precedenza: una cosa buona portata all’eccesso.
L’attenzione conduce poi alla pulizia personale e
da questa si arriva alla purità, che è in discussione. Dalla
purità, per ragioni che spiegherò fra un minuto, arriviamo
alla santità e questo ci porta dalle virtù della santità alle
più importanti virtù etiche e morali: la modestia, il timore
del peccato, la pietà e, sempre più in alto, la risurrezione
dei morti. I problemi non sono pertanto banali.
141
Passando dalla teoria alla pratica, per quale motivo io
voglio essere santo e perché voglio essere “pulito” o puro?
In quell’epoca e in quel luogo, essere santo significava
essere puro per un motivo speciale, e una delle ragioni
che motivavano la purità era quella di recarsi al tempio e
partecipare ai suoi riti. I sacerdoti erano descritti in particolare
come santi. Il cibo che essi mangiavano, ricevuto
dall’altare o dalle decime dei raccolti destinate a Dio, era
santo; ed essi dovevano osservare alcune regole legate alla
sua consumazione.
Queste regole sono descritte da Mosè nel libro del Levitico,
con la definizione di “santita”; e mentre, come noi
scopriamo, «essere santi, perché Dio è santo» significa
osservare i comandamenti, essere santi nello stesso contesto
del Levitico significa anche osservare alcune regole
di purità. E tutti concordano nel riconoscere che una di
queste regole consisteva nel lavarsi le mani prima di
mangiare, rimuovendo così qualsiasi piccola impurità
che le aveva colpite. Quando i farisei chiesero a Gesù
perché i suoi discepoli non osservassero la “tradizione
degli anziani”, non lavandosi le mani prima dei pasti,
quello che volevano sapere era perché essi non manifestassero
il loro stesso interesse per la santità. Questa domanda
rappresentava sia un complimento, sia una sfida.
Essi volevano che Gesù fosse uno di loro. Questo era il
complimento. La sfida era invece la seguente: «Perché
non siete come noi, dalla nostra parte?».
La risposta di Gesù produce un contrasto fra questa
“tradizione degli anziani” e i comandamenti di Dio. Egli
affermò che i farisei anteponevano queste tradizioni alle
chiare affermazioni di Dio. Essi facevano questo, osservando
un’altra legge della Torah, che concerne l’emissione
di voti. Mosè aveva detto a Israele: «Quando uno
avrà fatto un voto... non violi la sua parola, ma dia esecu
142
zione a quanto ha promesso con la sua bocca» (Numeri
30,3)- Una delle cose che la gente potrebbe fare è dichiarare
qualcosa “santo”: cioè porlo nella categoria delle cose
da offrire all’altare.
Questo significava che nessuno avrebbe potuto usare o
usufruire di quella cosa che era stata dichiarata santa.
Farlo sarebbe stato un sacrilegio. Gesù formula una constatazione
molto semplice: permettendo il verificarsi di
questo fatto, diventava possibile trattare i genitori in modo
irriguardoso.
Essi avrebbero potuto dichiarare che qualcosa era
un’offerta e privare così i genitori del diritto di usufruirne.
Questo è il senso della frase: «Quello che voi avreste
guadagnato è offerto a Dio».
Ascoltando questo scambio di opinioni, avrei potuto
manifestare soltanto la mia perplessità perché nessuna
delle due parti aveva risposto, a parer mio, ai problemi
sollevati dall’altra. Tutto questo mi faceva pensare alla
sola discussione avuta con mia moglie, quando trovai da
ridire sulla qualità della sua cucina. Lei replicò a questa
constatazione affermando che era vero, ma che io ero un
pessimo guidatore. Non criticai più la sua cucina e lei non
parlò più del mio modo di guidare la macchina; tuttavia
la cucina migliorò e da allora guidai con più prudenza.
Ma quel giorno questo non avvenne. I farisei volevano
sapere perché Gesù non consumasse il cibo facendo attenzione
ad uno stato di santificazione. Egli rispose che
c’era qualcosa di più importante e scelse come punto di
partenza della sua dimostrazione un caso afferente alla
sfera della santificazione. Se qualcuno dichiarava qualcosa
“santo”, pronunciando queste parole: «Ciò con cui
ti dovrei aiutare è offerto a Dio», quella persona anteponeva
i problemi di santità ai Dieci Comandamenti. Era
proprio una risposta assai fondata.
143
Tuttavia... Tuttavia la domanda e la risposta erano, a
mio avviso, poco perspicue. Tutto quello che i farisei volevano
sapere era perché i discepoli di Gesù non erano
farisei; essi sarebbero stati davvero benvenuti. I farisei
stimavano molto il vivere secondo le regole della santità;
essi pensavano che questo fosse ciò che Dio voleva,
quando disse: «Voi sarete santi, perché io, il Signore vostro
Dio, sono santo». E in futuro altra gente avrebbe
esplicitato, con più parole, proprio quello che voleva dire
vivere secondo le regole dei farisei.
Gesù replicò che c’erano altri comandamenti della Torah
più importanti della tradizione dei padri. Ma nella
maniera in cui “voi gente” osservate la tradizione, voi
giocate con la legge.
Perciò la domanda andava in una direzione e la risposta,
invece, in un’altra e io ero qui, assai a disagio, sotto
il sole di mezzogiorno, nella foga di una discussione senza
sbocco. Non stupiscono le parole sferzanti che Gesù
aveva rivolto a quella gente. Quello che Gesù affermava
continuamente a proposito di quella gente era che essi
erano “ipocriti”, non facevano cioè quello che dicevano.
E se voi fate quello che loro dicono, non ne verrà fuori
niente di buono.
Così, per esempio, in un’altra occasione, i farisei sfidarono
Gesù in materia di divorzio: il divorzio è sempre
legittimo? (cfr. Matteo 19,3).
In realtà essi conoscevano perfettamente la risposta, dal
momento che Deuteronomio 24,1 prevede per il divorzio
che: «Quando un uomo ha preso una donna e ha vissuto
con lei da marito, se poi avviene che essa non trovi grazia
ai suoi occhi, perché ha trovato in lei qualcosa di vergognoso,
scriva per lei un libello di ripudio e glielo consegni
in mano e la mandi via dalla casa. Se essa, uscita dalla
casa di lui, va e diventa moglie di un altro marito e
144
questi la prende in odio, scrive per lei un libello di ripudio,
glielo consegna in mano e la manda via dalla casa o
se quest’altro marito che l’aveva presa per moglie, muore,
il primo marito, che l’aveva rinviata, non potrà riprenderla
per moglie...» {Deuteronomio 24,1). Perciò l’istruzione
di Dio a Mosè dava per scontato che vi fosse il divorzio.
Gesù risponde, invece, in maniera differente alla domanda
sulla legittimità del divorzio. Egli sostiene che
l’affermazione che «i due saranno una sola carne» (Genesi
2,24) vuol dire che «quello che Dio ha congiunto,
l’uomo non lo separi» (Matteo 19,6).
I farisei si meravigliavano, pertanto, come questo rispondesse
alla domanda, dal momento che, in fin dei
conti, Mosè prevedeva il divorzio. Ed è proprio questo
che i farisei sottolineavano.
Gesù replicò, tuttavia, con un’altra osservazione, secondo
la quale la Torah prevede come la gente si comporta
realmente. Dal punto di vista ideale non ci dovrebbe
essere divorzio: «Per la durezza del vostro cuore Mosè
vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli... ma io vi
dico: chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso
di concubinato, e ne sposa un’altra, commette adulterio»
(.Matteo 19,8-9). In questo caso, ancora una volta, mi
scopro ad ammirare quest’uomo, deprecando sempre più
il cattivo sangue che corre fra lui e i farisei che io seguo.
Riflettendo sul motivo dello scontro, mi sembrò che
quel giorno tanto Gesù quanto i farisei volessero convincere
la gente che la Torah non era così semplice, che richiedeva
una devozione più profonda di quella che la
gente comune riteneva sufficiente. Questo era il punto
che distingue la profonda riaffermazione di alcuni fra i
Dieci Comandamenti da parte di Gesù. Ed era anche il
punto che distingue, secondo il proprio modo e la propria
formulazione, “la tradizione degli anziani” con le lo-
145
ro regole da parte dei farisei. Non stupisce che Gesù dicesse
alla gente che il suo carico era leggero, mentre il
loro era pesante; quello che chiedeva dagli altri, egli lo
faceva; quello che i farisei esigevano dagli altri, essi non
lo facevano. In questo risiede la rivalità:
«Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e
la terra per farvi anche un solo proselito, e quando lo è diventato,
ne fate un figlio della Geenna il doppio di voi»
(Matteo 23,15).
Il cattivo sangue non stupisce. Da questa parte c’è un
uomo, in perenne movimento, che percorre le strade del
paese, cercando di conquistare discepoli e di insegnare il
suo messaggio, e dall’altra stanno i maestri che gli contendono
la stessa gente. Ciò che Gesù ha da dire alla
gente è che i farisei non avevano niente da offrire al popolo.
E possiamo immaginarci facilmente quale fosse il
messaggio che essi avevano per lui.
Chi vinse, dunque, quel giorno? Dalle osservazioni di
Gesù, mi sembra che lui pensasse di non avere affatto un
avversario col quale contendere:
«Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri
imbiancati: essi all’esterno sono belli a vedersi, ma
dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume. Così
anche voi apparite giusti all’esterno davanti agli uomini, ma
dentro siete pieni d’ipocrisia e d’iniquità» (Matteo 23,27-28).
Quando lo ascolto fare queste osservazioni, non mi
stupisco che questo maestro abbia trovato dall’altra parte
una rivalità così forte, se poteva riconoscere all’altra parte
che essi “sembravano belli”. «Voi sembrate giusti agli
occhi degli uomini», ma siete degli ipocriti.
Se ci domandiamo che cosa c’è in gioco in questa ter
146
ribile discussione, dobbiamo ricordarci due semplici fatti.
Il primo riguarda i farisei, il secondo Gesù. I farisei
vogliono che Israele sia santo. Come vedremo nel prossimo
capitolo, questa idea aveva, allora come oggi, un significato
assai particolare.
Ma è evidente che, dal punto di vista dei farisei, osservare
i Dieci Comandamenti e la Regola Aurea significa
obbedire al principale comandamento di Dio a Israele:
«Siate santi perché io, il Signore vostro Dio, sono santo
». Secondo Gesù questa santità era una simulazione.
Per amore della vostra tradizione voi avete svuotato di
significato la parola di Dio.
Che cosa offre allora Gesù al posto di una vita di santità
simile a Dio? Dare una risposta completa a questa domanda
ci porterebbe troppo lontano: i cristiani l’hanno
discussa per due millenni. Ma se io dovessi indicare una
cosa che Gesù avrebbe sicuramente sottolineato, essa sarebbe
stata il regno dei cieli che, a suo parere, si sarebbe
realizzato presto. Gesù cercò continuamente di spiegare
che cosa c’era in gioco: «Convertitevi perché il regno dei
cieli è vicino» (.Matteo 4,17). Così in discussione c’era
come vincere il peccato per entrare nel regno di Dio. Gesù
predicava il vangelo del regno e curava ogni malattia e
infermità (Matteo 9,35). Egli spiegava continuamente
che cosa pensasse per mezzo delle parabole, e queste riguardavano
continuamente il regno dei cieli, a che cosa
somigliasse, come dovesse essere inteso.
Un giorno, per esempio, ascoltai il maestro narrare tre
parabole, ciascuna delle quali portava alla stessa conclusione:
«“Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo;
un uomo lo trova e lo nasconde di nuovo, poi va, pieno
di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo.
147
Il regno dei cieli è simile a un mercante che va in cerca di
perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende
tutti i suoi averi, e la compra.
Il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che
raccoglie ogni genere di pesci. Quando è piena, i pescatori
la tirano a riva e poi, sedutisi, raccolgono i pesci buoni nei
canestri e buttano via i cattivi. Così sarà alla fine del mondo.
Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li
getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore
di denti.
Avete capito tutte queste cose?”. Gli risposero: “Sì”. Ed egli
disse loro: “Per questo ogni scriba divenuto discepolo del
regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal
suo tesoro cose nuove e cose antiche”» (Matteo 13,44-52).
Fra i molti e importanti insegnamenti del maestro,
quelli che riguardano il regno dei cieli hanno la preminenza.
Essi si collegano a molti altri come, per esempio,
all’insegnamento che mi colpì per la sua intransigenza:
vendere tutto quello che ho per seguire il maestro. In se
stesso il detto si poneva in stupefacente contrasto con gli
insegnamenti della Torah. Ma questo detto, se collegato
agli insegnamenti del regno dei cieli che sta per venire,
forma, come molti altri, parte di un messaggio coerente.
I farisei non stanno ad ascoltare, tuttavia, questo messaggio
perché ne propongono uno differente che collima
assai poco col messaggio di Gesù. Il suo è un messaggio
di perdono dei peccati in questo luogo e in questo momento,
in preparazione deirarrivo, nel futuro immediato,
del regno dei cieli. Il messaggio dei farisei è un messaggio
di purificazione per una vita di santità qui ed ora.
Di fronte alla scelta fra Gesù e i farisei, avrei reso
omaggio al primo, ma avrei seguito gli altri. Avrei reso
onore a Gesù, ma avrei seguito i farisei e lo farei anche
adesso: questo spiega perché ho scritto questo libro. La
148
Torah definisce, infatti, Israele come un regno di sacerdoti
e un popolo santo. Questa è la strada seguita dai farisei.
Il loro Israele ha messo in primo piano la comunità, condividendo
la vita santa, richiesta a tutti gli Israeliti, secondo
l’affermazione della Torah. La Torah di Mosè definì il
modo di vita sia nella sfera del culto sia in quella morale,
e i profeti misero l’accento specialmente su quest’ultima.
Quello che rendeva Israele santo - il suo modo di vita, il
suo carattere morale - dipendeva in primo luogo dalla vita
del popolo. E questo avveniva in quel luogo e in quel
momento. Gesù non allude mai a quello che i farisei avevano
da dire sugli “ultimi giorni”; su questo punto egli
non ebbe alcuna discussione con loro.
Ma riesaminando il problema, domandiamoci se le due
parti ebbero mai una discussione. I farisei formavano un
gruppo modellato dal modo di vita santo di Israele, teso
verso la santificazione. Gesù e i suoi discepoli formavano
un gruppo preoccupato dal peccato e dal perdono in
vista del prossimo avvento del regno di Dio. I due gruppi
non parlano, né discutono.
Tornando a casa quel pomeriggio, cominciai a sospettare
che Gesù e i farisei - me compreso - erano proprio
due tipi di persone differenti che parlavano di cose differenti,
a persone differenti. Tuttavia, come è evidente,
nessun gruppo poteva evitare di riconoscere l ’altro.
Quello che ebbe luogo, come vedremo nel prossimo capitolo,
non fu una discussione civile, benché vi fosse stato
un serrato dibattito, ma fu in realtà uno scontro fra
gente che non aveva niente in comune, che faceva dei
discorsi che non si incontravano mai. Non molto per una
discussione.
Riflettendoci sopra tuttavia, compresi che c’era una ragione:
la santificazione investe un gruppo di azioni umane,
la salvezza ne tocca invece un altro. E l’assenza di una
149
discussione fra i due gruppi si spiega col fatto che nessuno
dei due parlava di quello che interessava all’altro.
La santificazione richiede categoricamente di separare
quello che è santo da quello che non lo è. Santificare significa
mettere da parte. Nessuna santificazione può
comprendere qualcuno o escludere qualcuno in particolare
perché sia santo. Non è necessario “essere più santo
di te”, ma il santo esige l’opposto, cioè il profano.
Il regno dei cieli, che sta per venire, non ha nulla a che
vedere con questo. Ciò che è in gioco è entrare nel regno
di Dio. Così, una volta ancora, come possono i due gruppi
- i discepoli di Gesù e i farisei - comprendersi l’un
l’altro, quando l’uno solleva il problema della santificazione
e l’altro quello della salvezza? E mi ripeto ancora
che non c’è davvero discussione, ma che si tratta proprio
di persone differenti che parlano di cose differenti, a persone
differenti.
Ero pronto, allora, a cancellare l’uno o l’altro? Proprio
perché non potrei seguire Gesù, questo stava a significare
che non ero io a lasciarlo andare, ma che era stato lui
ad allontarsi dalla Torah di Israele?
Se ne può discutere. Da un lato la Torah prevedeva un
posto per tre tipi di veri maestri: sacerdoti, saggi e profeti.
I sacerdoti si richiamavano ai libri che facevano parte
della Torah di Mosè: l’Esodo, il Levitico, i Numeri e il
Deuteronomio. Questi libri parlavano del regno di Dio. I
saggi si richiamavano ai libri dei Proverbi e di Qohelet
(Ecclesiaste), un genere di sapienza che veniva insegnato
da persone sagge. I profeti di oggi potrebbero fare riferimento
ai profeti antichi, come fece costantemente Gesù:
Isaia, Geremia, Ezechiele e i dodici profeti minori.
Quale visione del mondo aveva ciascuna di queste tre
correnti, che trovava una ricca eredità nella Torah di Mosè?
I sacerdoti vedevano la società organizzata sulla base
150
di strutture elaborate dal tempio. La casta sacerdotale
stava al primo posto della scala sociale, all’interno della
quale tutte le cose erano organizzate con il proprio nome
e il proprio posto in modo preciso. L’insita santità del
popolo d’Israele, attraverso la genealogia del sacerdozio,
trovava la sua incarnazione più perfetta nella figura del
sommo sacerdote. Il cibo messo da parte, su comando di
Dio, per le razioni destinate ai sacerdoti possedeva la
stessa santità della tavola alla quale i sacerdoti mangiavano.
Agli occhi del sacerdozio, per la sacra società di
Israele, la storia raccontava quello che era accaduto nel
tempio e talvolta, purtroppo, al tempio stesso.
Per il saggio la vita sociale aveva bisogno di sagge regole.
Le relazioni fra gli individui avevano bisogno della
guida delle leggi contenute nella Torah e interpretate nella
maniera migliore dagli scribi; il compito di Israele era
quello di formare un modo di vita che fosse in pieno accordo
con le regole rivelate dalla Torah. Il saggio, padrone
di queste regole, ne era a capo.
La profezia affermava, invece, che il destino della nazione
dipendesse dalla fede e dalle condizioni morali
della società, come tutta la storia di Israele testimoniava.
Sia i saggi sia i sacerdoti osservavano Israele dal punto
di vista dell’eternità, ma la nazione doveva vivere la sua
storia in questo mondo, fra altri popoli che desideravano
la stessa terra e all’interno delle scelte politiche compiute
dall’impero romano. Il regno del Messia avrebbe risolto
il problema della sottomissione di Israele ad altre nazioni
e ad altri imperi, stabilendo una volta per tutte il
corretto contesto sia per i sacerdoti sia per i saggi.
Il sacerdote considerava il tempio come il centro del
mondo; al di fuori di esso egli vedeva allargarsi all’intorno
in cerchi concentrici sempre più grandi il meno santo,
il profano e l’impuro. Tutto il mondo all’esterno della
151
terra di Israele era impuro al pari dei cadaveri. Tutti gli
altri popoli erano impuri alla stregua dei cadaveri. Di
conseguenza, nel mondo, la vita abitava in Israele; e in
particolare, all’interno di Israele, nel tempio. Fuori, a
grande distanza, c’erano soltanto terre vuote e popoli
morti, che comprendevano l’indifferenziato deserto della
morte, cioè un mondo impuro. Da questa prospettiva, era
inutile qualsiasi insegnamento sul posto di Israele fra le
nazioni, non poteva scaturire nessun interesse per la storia
di Israele e per il suo significato.
La sapienza dei saggi era quella della strada, del mercato
e delle famiglie di Israele. Le affermazioni del saggio
erano sapienza per i gentili e per Israele. La sapienza
risultava davvero internazionale, superando i confini culturali
e quelli linguistici, passando dall’Asia orientale a
quella occidentale o meridionale. Essa si concentrava
sull’esperienza umana, comune a tutti, senza differenze
di nazioni e insensibile ai grandi eventi della storia. La
sapienza parlava di padri e figli, di maestri e discepoli, di
famiglie e di villaggi e non di nazioni, di eserciti e del
destino.
Proprio in ragione della loro stessa eterogeneità, questi
tre fondamentali aspetti della vita d’Israele potevano facilmente
coesistere. Ciascuno si concentrava su un particolare
aspetto della vita nazionale e nessuno di loro contraddiceva
l’altro. Si poteva prestare culto nel tempio,
studiare la Torah e combattere nell’esercito del Messia e
taluni fecero tutte e tre queste cose. Noi dobbiamo considerare,
tuttavia, questi tre modi di vivere e le loro rispettive
forme di pietà separatamente. Ciascuno di essi poteva
realizzarsi pienamente senza far riferimento agli altri.
Ma la vita non va così. Non possiamo dividere il nostro
villaggio in un quartiere dei sacerdoti, in un quartiere dei
profeti, in un quartiere dei saggi. Siamo un solo villag152
gio. Gesù e i suoi discepoli posero un forte accento sull’insegnamento
dei profeti, perché egli insegnò ai discepoli,
fra i quali vuole comprendere tutto Israele, come
prepararsi per il regno di Dio che si sta avvicinando. Egli
parla, pertanto, del perdono dei peccati e dell’espiazione
per la fine dei tempi che incombe su di noi. I farisei mettono
l’accento proprio sulla predicazione dei sacerdoti
nel libro del Levitico e vogliono che Israele viva adesso,
qui e in ogni luogo, in accordo con quelle regole che la
Torah di Mosè stabilisce per la santificazione dei sacerdoti.
Siamo davvero in contrasto, perché siamo d’accordo:
gli uni chiamano alla salvezza per la fine dei tempi,
gli altri alla santificazione qui ed ora. Come possiamo vivere
insieme?
Questo dipende, da un lato, da fatti di poco conto. E
qui c’è proprio un punto di frizione fra Gesù e noi farisei.
Come ho detto all’inizio, credo nell’ebraismo che si
identifica con i farisei. Il regno di Dio è qui ed ora? Oppure
solo nel futuro immediato ? E dove e come e in
quali circostanze debbo servire Dio e vivere un vita santa?
O presentando il problema in termini ancora più semplici:
a Dio interessa che cosa mangio a colazione?
153. -
.
8
SULLA STRADA PER CAFARNAO
« “Molti verranno da oriente e da occidente e siederanno a
tavola con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli,
mentre i fig li del regno saranno gettati fuori nelle tenebre:
là ci sarà pianto e stridor di denti Gesù disse al centurione:
“Va’, ti sia fa tto ciò che cred i”. E il servo fu guarito
proprio in quel momento».
Matteo 8,11-13.
Quando Gesù scese dalla montagna seguito da tanta
gente (Matteo 8,1), si diresse verso Cafarnao. Lo raggiunsi,
sfiorando una folla di persone felici, ma stranamente
silenziose. Regnava un silenzio tranquillo, ognuno
stava pensando all’importante messaggio del maestro: il
regno dei cieli è dei poveri in spirito, i miti erediteranno
la terra, i puri di cuori vedranno Dio. Io mi sentivo esaltato
da insegnamenti simili, da questa torah, da tutto il
resto, come avendo incontrato il sublime. Ma sapevo che
non avrei seguito il maestro molto più a lungo. Quanto
avevo ascoltato sulla montagna era necessario ma non
sufficiente per amare Dio con tutto il mio cuore, con tutta
la mia anima e con tutta la mia forza e per vivere nel
regno di Dio qui e ora.
Il silenzio recava il proprio eloquente
messaggio: ciò cne egli non aveva ueuu sui sui
Sinai. Ma non sapevo che proprio in quello stesso gior
no, quando avremmo raggiunto Cafarnao, egli avrebbe
riempito il silenzio con un gesto eloquente e ogni cos<
sarebbe stata chiara.
Questo sarebbe avvenuto presto. Qui e ora, tuttavia
Gesù mi osservava già prima che lo vedessi e con un ge
sto mi indicò di unirmi a lui lungo la strada, cosa che feci
Aspettai che parlasse, ma egli rimase in silenzio ed ic
feci lo stesso. Ma in silenzio, camminando al suo fianco
riflettevo: Come Mosè sul Monte Sinai, così Gesù è sce
so dal cielo per insegnare la torah. Fra coloro a cui egl
parla - i poveri in spirito, gli afflitti, i miti, coloro chi
hanno fame e sete di giustizia, i misericordiosi, i puri d
cuore, i pacifici - io cerco invano proprio quei “voi” ;
cui Mosè si rivolge, quei “voi” che Dio condusse fuor
dalla terra d’Egitto, dalla casa di schiavitù: Israele.
Dopo un momento, in un silenzio penetrante, Gesù m
guardò e mi disse: «Ti stai interrogando sul “voi” a cui i<
parlo, su Israele».
«Proprio così».
«È vero, sulla montagna non ho detto niente di Israele
quando ho benedetto i poveri di spirito, gli afflitti e tutl
gli altri».
«No, non hai detto nulla».
«Aspetta».
Si fece un silenzio più grande.
Continuammo a camminare. Io aspettavo.
Entrato in Cafarnao, gli venne incontro un centurione che 1
scongiurava: «Signore, il mio servo giace in casa paralizzi
to e soffre terribilmente». Gesù gli rispose: «Io verrò e 1
curerò». Ma il centurione riprese: «Signore, io non son de
gno che tu entri sotto il mio tetto, dì soltanto una parola e
mio servo sarà guarito. Perché anch’io, che sono un subalterno,
ho soldati sotto di me e dico a uno: Fa’ questo, ed egli
10 fa». All’udire ciò, Gesù ne fu ammirato e disse a quelli
che lo seguivano: «In verità vi dico, presso nessuno in
Israele ho trovato una fede così grande. Ora vi dico che
molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a
mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli,
mentre i figli del regno saranno cacciati fuori nelle tenebre,
ove sarà pianto e stridore di denti». E Gesù disse al centurione:
«Va’, e sia fatto secondo la tua fede». In quell’istante
il servo guarì (Matteo 8,5-13).
Mi meravigliai del potente miracolo. Credere era facile.
Avevo sentito parlare di santi uomini capaci di cose
simili, di come le loro preghiere guarissero persone lontane.
Honi1, il tracciatore di cerchi, non avrebbe fatto di
meno. Non trovavo nessuna difficoltà ad accettare quello
che i miei occhi avevano visto e le mie orecchie ascoltato.
Ma ancor di più mi meravigliai del silenzio del maestro.
Così, quando Gesù si volse per recarsi alla casa di
Pietro (Matteo 8,14), gli chiesi di rubargli un po’ del suo
tempo ed egli acconsentì.
«Anch’io credo, maestro, che in futuro, molti verranno
da oriente e da occidente e siederanno a tavola con i patriarchi
e le matriarche nel regno dei cieli. I profeti dicono
la stessa cosa. Ma ciò si verificherà perché essi accetteranno
il monoteismo e la Torah in cui si insegna loro il
dominio di Dio. Ma la Torah non mi dice nulla sul fatto
che i figli del regno saranno gettati fuori nelle tenebre.
1 Taumaturgo vissuto nel I sec. a.C. Secondo il trattato Ta’anit della Misnah,
il suo nome deriva dal gesto che avrebbe compiuto durante un periodo
di siccità, quando avrebbe tracciato un cerchio e vi sarebbe rimasto dentro
finché Dio non inviò la pioggia. La stessa storia è narrata da Giuseppe Flavio,
il quale aggiunge che Honi fu assassinato durante la lotta tra Aristobulo
11 e Ircano II (N.d.C.).
156
E proprio ieri, sulla montagna, il tuo discorso eloquente
ha trovato la sua controparte nel silenzio: quello
che tu non hai detto riguarda me. Dove, nella tua torah
sul monte, c’è un messaggio per quelli che già credono,
per quelli che sono già cittadini del regno di Dio? Molto
di quanto ascolto dalla montagna è necessario, ma il
messaggio è insufficiente. Tu tralasci troppe cose. E
questo mi preoccupa».
Gesù pazientemente accettò le mie osservazioni, prendendo
con impegno la discussione. Poi soggiunse: «Che
cosa ho tralasciato?»
Replicai: «Tre cose. In primo luogo, non mi racconti
la storia della Torah che parla dell’inizio e della fine, da
dove veniamo e chi siamo. In secondo luogo, non mi
parli di noi, di Israele. In terzo luogo, non spieghi la
mancanza di fede dei gentili».
Gesù disse: «Il centurione ha creduto».
«In te», replicai. «Ma questo fatto lo rende uguale a
noi, Israele, e la sua fede ha adempiuto le richieste della
Torahl».
Rispose Gesù: «Allora raccontami la tua storia».
La storia che dovevo raccontare non è la mia storia,
ma è la storia narrata da Mosè nella Torah e anche dagli
altri profeti. È la storia della creazione del mondo e della
caduta dell’uomo e di che cosa ha fatto Dio per riparare
il mondo. E questa la storia che le Scritture ebraiche narrano.
Invano nella torah sulla montagna ricercai gli echi
di quella storia. Questi silenzi - ciò che Gesù non disse
sulla montagna - veicolano un messaggio eloquente,
messo in primo piano nell’incontro con il centurione. La
fede del gentile non soltanto gli vale un posto a tavola,
ma condanna anche alla tenebra più buia alcuni la cui fede
li aveva fatti sedere a tavola.
Ma essere Israele è conoscere e amare l’unico e il solo
157
Dio che ha creato il mondo. Questo è il motivo che condusse
Dio a creare Israele per fare in maniera giusta ciò
che Adamo aveva fatto in modo sbagliato, volendo accettare
la volontà di Dio. La Torah e i profeti ci raccontano
la storia della ricerca di un nuovo Eden da parte di Dio,
che viene ora realizzata da coloro che accettano il patrimonio
e l’eredità e diventano i figli di Abramo e di Sara
e formano così Israele al Sinai.
Mosè inizia la sua storia nell’Eden, ma Gesù sulla
montagna non racconta nessuna storia. L’esposizione iniziale
di come stanno le cose presentata dalla Genesi ci
dice come Dio ha fatto il mondo, riconobbe il proprio
fallimento nel farlo così e lo corresse. Per mezzo di
Abramo e di Sara nacque una nuova umanità, fondamentalmente
per incontrare Dio al Sinai e per ricordare l’incontro
nella Torah. Ma allora sorge la domanda: che cosa
pensare del resto dell’umanità, dei figli di Noè ma non di
quella parte della famiglia che comincia con Abramo e
con Sara? La semplice logica della storia fornisce la risposta:
il resto dell’umanità, fuori dalla santa famiglia e
dalla voce imperante del Sinai, non conosce Dio, ma venera
gli idoli. Costoro sono quelli che noi chiamiamo “i
gentili”. E i gentili, non Israele, governano il mondo.
Questa è la storia della Scrittura e questa è anche la storia
che i saggi raccontano. Ma sul monte Gesù non racconta
nessuna storia e a Cafarnao egli dà il benvenuto al
centurione alla tavola del regno perché ha avuto fede in
lui solo.
«Ecco qui, maestro, questa è la mia storia dell’identità
di Israele rispetto a ogni altro popolo e del contenuto
della sua fede. Dice come Dio incontra le nazioni, e
Israele fra di esse, e che cosa accadde quel giorno che
rappresenta la controparte di questa giornata qui a Cafarnao
».
158
Sifré al Deuteronomio ccxlviii:iv,1ss.2:
l.A. Un altro insegnamento che concerne la frase: «Egli
disse: “Il Signore viene dal Sinai”».
B. Quando colui che è in ogni luogo apparve per dare la
legge a Israele, non si rivelò al solo Israele, ma ad ogni nazione.
C. Prima di tutto egli venne dai figli di Esaù3. Egli disse loro:
«Accettate la Torah'ì».
D. Essi risposero: «Che cosa c’è scritto?».
E. Egli replicò: «Non uccidere» {Esodo 20,13).
F. Essi risposero: «L’intima essenza di “questi uomini”
(cioè nostra) e dei loro padri è uccidere, poiché sta scritto:
“Ma le mani sono le mani di Esaù” (Gen. 27,22). “Vivrai
della tua spada”» (Genesi 27,40).
G. Così egli andò dagli Ammoniti e dai Moabiti e chiese loro:
«Accetterete la Torah'ì».
H. Essi risposero: «Che cosa c’è scritto?».
I. Egli disse loro: «Non commettere adulterio» (Esodo
20,13).
J. Essi gli risposero: «La stessa essenza della fornicazione
appartiene a loro (cioè a noi), poiché sta scritto: “Così tutte
e due le figlie di Lot ebbero figli dal proprio padre”» (Genesi
19,36).
K. Così egli venne ai figli di Ismaele e disse loro: «Accettete
la Torah'ì».
L. Essi risposero: «Che cosa c’è scritto?».
M. Egli gli disse: «Non rubare» (Es. 20,13).
N. Essi gli risposero: «La stessa essenza di loro (cioè nostra)
padre è il furto, come sta scritto: “Ed egli sarà un asino
d’uomo” (Gen. 16,22)».
2 Si tratta di un commento puntuale al libro del Deuteronomio, redatto in
Palestina fra il 250 e il 350 d.C.; vi si sottolinea la speciale relazione fra Dio
e Israele poiché, a differenza dei gentili, Israele accettò la Torah e la sovranità
di Dio e ne ricevette la terra e la stessa Torah. Nell’opera predomina l’idea
che la sola ragione, privata della guida della Scrittura, non porta a nessun risultato
affidabile (N.d.C.).
3 Cioè gli Edomiti (N.d.C.).
159
O. E così continuò. Egli andò ad ogni nazione chiedendo
loro: «Accettate la Torah?».
P. Perché così sta scritto: «Tutti i regni della terra ti renderanno
grazie, o Signore, perché hanno ascoltato le parole
della tua bocca» (Salmo 138,4).
Q. Si dovrebbe supporre che essi ascoltarono e accettarono
la Torahl
R. La Scrittura dice: «Ed io mi vendicherò con ira e con furia
delle nazioni, perché esse non ascoltarono» (Michea
5,14).
S. E non è bastato loro non ascoltare, ma neppure i sette comandamenti
che i figli di Noè accettarono su di loro non furono
in grado di mantenerli senza infrangerli.
T. Quando il Santo, benedetto Egli sia, vide come stavano le
cose, diede la Torah ad Israele.
«Adesso maestro, dissi a Gesù, potrei raccontarti una
parabola che non riguarda un re ma una persona comune?
».
2.A. La faccenda può essere paragonata al caso di una persona
che mandò il suo asino e il suo cane all’aia e caricò un
letekh4 di grano sull’asino e tre seah5 di grano sul cane. L’asino
camminava, mentre il cane ansimava per la fatica.
B. Egli tolse un seah di grano dal cane e lo mise sull’asino
e fece lo stesso con il secondo e col terzo.
C. Così fu Israele: essi accettarono la Torah, completa di
tutte le amplificazioni secondarie, persino di tutti i dettagli
più piccoli; anche i sette comandamenti che i figli di Noè
non erano stati in grado di osservare senza infrangerli gli
Israeliti giunsero ad accettare.
D. Questo è il motivo per cui è detto: «Il Signore venne dal
Sinai; egli splendeva su di loro dal Seir».
4 Antica unità di misura ebraica per solidi equivalente a circa 115 litri.
5 Antica unità di misura ebraica per solidi equivalente a circa 75 litri.
160
«Così, maestro, io presto ascolto a ciò che tu non dici,
onorando e condividendo molto di quello che hai proposto.
E lo trovo molto necessario, ma - adesso forse tu
puoi capire perché - anche del tutto insufficiente alla luce
del criterio della Torah proposta al Sinai».
Si fece silenzio. Ma un poco più tardi, quando ancora
camminavamo insieme, avrei ascoltato la sua risposta alla
mia domanda a proposito di Israele. Infatti, essendo un
vero maestro, egli aveva ascoltato attentamente la mia domanda
e aveva riflettuto su di essa. Egli comprendeva il
mio pensiero, come io cercavo di comprendere il suo.
Ma, come un vero maestro, egli dava anche per scontato
che io sapessi come ascoltare e replicare. Così la sua risposta
non fu indirizzata a me come diretta replica alla
mia questione, ma venne piuttosto mentre istruiva un altro
discepolo - si trattava di Pietro? - che poneva una domanda
completamente differente, cioè chiedeva il permesso
di andare e seppellire suo padre, il suo patrimonio.
Stavamo lasciando Cafarnao. Prima di andare via con
il maestro, il discepolo disse: «Signore, permettimi prima
di andare a seppellire mio padre».
Ma Gesù gli disse: «Seguimi e lascia che i morti seppelliscano
i morti» (Matteo 8,21-22).
Lo stesso vale per il patrimonio e l’eredità di Israele:
morte, perché i morti si seppelliscano da soli.
«Ma», così pensai ascoltando queste parole, «per noi,
Israele, i nostri padri e le nostre madri non sono mai
morti: Abramo, Isacco, Giacobbe, Sara, Rebecca, Rachele
e Lia vivono nelle nostre preghiere e vivono nella Torah
e così vivono in noi. Il maestro vorrebbe negarlo?
Ma allora i suoi discepoli - tutto Israele - non capirebbero.
Ma soprattutto, sedendo alla tavola del regno dei cieli
con Abramo, Isacco e Giacobbe, che cosa avrebbe capito
il centurione dei suoi compagni di pranzo?».
161
Queste domande però non le posi. Da Cafarnao Gesù
se ne andò per la sua strada. E io sapevo dove me ne sarei
andato: al villaggio, a casa, al regno di Dio qui e
adesso.
162
9
«TU PRELEVERAI LA DECIMA...»
CONTRO
«VOI PAGATE LA DECIMA...
E TRASGREDITE LE PRESCRIZIONI
PIÙ GRAVI»
«Guai a voi, scribi e farisei, che pagate la decima della
menta, dell’aneto e del cumino, e trasgredite le prescrizioni
più gravi della Legge, la giustizia, la misericordia, la
fedeltà. Queste cose bisognava praticare, senza omettere
quelle. Guide cieche che filtrate il moscerino e ingoiate il
cammello» (Matteo 23,23-24).
«Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pulite l ’esterno del
bicchiere e del piatto mentre all’interno son pieni di rapina
e di intemperanza. Fariseo cieco, pulisci prima l ’interno del
bicchiere, perché anche l ’esterno diventi netto»
(Matteo 23,25-26).
Mosè dice: «Dovrai prelevare la decima da tutto il
frutto della tua semente» (Deuteronomio 14,22); Gesù è
d’accordo, ma ricorda di non trascurare cose più importanti,
come, per esempio, «amare il tuo prossimo come te
stesso» e «voi sarete santi». Tuttavia, parte della santità
consiste nel pagare la decima, insieme agli altri insegnamenti
della Torah. Nessuno oserebbe affermare che tutto
si equivale; e ognuno sarebbe d’accordo con Gesù: esegui
i comandamenti principali - i Dieci Comandamenti,
per esempio - senza trascurare quelli meno importanti.
163
Ma Gesù dà per scontato che il diritto contrasti con il
rito. Egli mette ripetutamente in contrasto la corruzione
interiore e la pietà esteriore o l’impurità interiore e i segni
esteriori della purità. Egli riconosce, in verità, che il
pagamento della decima fa parte della Torah. Se, tuttavia,
pagate la decima, ma trascurate «le cose più importanti
della Torah», allora siete delle «guide cieche». Il rimarchevole
detto di R. Pinhas ben Yair - secondo il quale
«la santità porta alla modestia, la modestia alla paura
del peccato, la paura del peccato alla pietà, la pietà allo
Spirito santo» - mette in discussione la certezza che noi
dobbiamo essere o una cosa o l’altra: o pii o morali.
Un giorno, perciò, posi la mia domanda: «Che cosa
succede se paghi la decima, ma agisci secondo giustizia,
ami la misericordia e riconosci con fede la signoria di
Dio? E davvero questo che tu vuoi da me? Se è così,
maestro, posso dare un senso al tuo messaggio sul regno
dei cieli, nel quadro dell’insegnamento della Torah su
quanto debbo fare e credere».
Ma se non fosse così - Dio non voglia! - come potrei
osservare il patto durevole dell’Eterno Israele? Ogni insegnamento
viene giudicato oggi dalle parole dell’antico
giuramento: «Noi lo faremo e obbediremo». Se osservo
lealmente questo giuramento, allora, ma soltanto allora,
posso venire a patti con qualsiasi messaggio del maestro
per Israele.
In ogni caso, questa è la domanda che io volevo porgli,
una discussione, proprio un ultimatum.
Ma non ci fu bisogno di chiedere nulla, perché, quando
lo ascoltai parlare seduto ai margini della folla, trovai
la risposta alla mia domanda. La risposta era contenuta,
infatti, nell’affermazione seguente: «Voi pulite l’esterno
del bicchiere e del piatto, ma all’interno son pieni di rapina
e d’intemperanza». Essa stava a significare che se
164
voi non siete puri dentro, allora l’esterno sembra pulito,
ma non lo è. Questa frase ci fa venire in mente precisamente
lo stesso contrasto esistente fra la corruzione interiore
e la pietà esteriore che Gesù segnalava nella stessa
sezione: «Voi rassomigliate a dei sepolcri imbiancati: essi
all’esterno son belli a vedersi, ma dentro son pieni di
ossa di morti e di ogni putridume». Egli vede dunque un
conflitto fra il diritto e il rito, poiché la gente che è interessata
al rito non lo è altrettanto alla moralità.
Mentre molti condividono questo pregiudizio, molti
altri trovano palese la denuncia dei profeti contro quelli
che compiono i riti, ma sono ingiusti, per esempio lo
scontro fra il profeta Natan e Davide («Tu hai ucciso,
forse erediterai?») o l’accusa di Amos, secondo la quale
chi vende il bisognoso in cambio di un paio di scarpe
non può far valere nessuna ragione presso Dio. Riaffermando
che i profeti insistono sul diritto, noi sottolineiamo
anche che il rito deve portare al diritto e che lo scopo
dell’eseguire i comandamenti è quello, come dice il Talmud,
«di purificare il cuore dell’uomo». C’è un posto,
perciò, nel disegno divino per il rito e per il diritto, sebbene
quello che Dio esige di più da noi sia la giustizia.
Nel mio villaggio, tuttavia, conosco molta gente che
obbedisce sia al comandamento che concerne il sabato
sia a quello che ci prescrive di amare il nostro prossimo
come noi stessi, senza avvertire nessun contrasto. Tutti
loro rappresentano la volontà del Dio vivente, affermata
in un unico luogo, la Torah e per mezzo di un solo profeta,
Mosè. Nell’ebraismo contemporaneo io conosco moltissime
persone che, adempiendo i comandamenti morali
e quelli rituali, testimoniano con l’esempio concreto della
loro vita quello che la Torah vuole che noi siamo.
Ascoltando queste parole sferzanti, mi domando se
davvero a Gesù interessino le regole alimentari. E a que-
165
sta domanda rispose questo detto, a me sconosciuto, che
mi fu narrato da uno dei discepoli:
«Poi, riunita la folla, disse: “Ascoltate e intendete! Non
quello che entra nella bocca rende impuro l’uomo, ma quello
che esce dalla bocca rende impuro l’uomo... Non capite
che tutto ciò che entra nella bocca, passa nel ventre e va a
finire nella fogna? Invece ciò che esce dalla bocca proviene
dal cuore. Questo rende immondo l’uomo. Dal cuore, infatti,
provengono i propositi malvagi, gli omicidi, gli adulteri,
le prostituzioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie.
Queste sono le cose che rendono immondo l’uomo, ma il
mangiare senza lavarsi le mani non rende immondo l’uomo”
» (Maffeo 15,10.17-20).
Forse, in precedenza, mi sbagliavo. Avevo concesso
troppe cose e troppo in fretta. Agli occhi di Gesù non
c’era conflitto fra il rito e il diritto, perché egli non attribuisce
nessun valore ai riti.
I riti non significano nulla. Tutto ciò che conta è l’obbedienza
ai precetti etici e morali della Torah.
Se quello che mangio non mi rende impuro (spiegherò
fra poco che cosa significa questa parola), allora le regole
della Torah che determinano quali sono i cibi permessi
e quali quelli vietati non hanno alcun valore. Gesù manifesta
chiaramente la sua posizione, che non è affatto analoga
a quella che egli sosteneva quando lo ascoltai per la
prima volta sulla cima della montagna. Avendo messo in
contrasto il diritto e il rito, e avendo affermato che mangiare
senza essersi lavati le mani non significa nulla o
che non è il cibo che mangi a renderti impuro, egli abolisce
dunque alcuni dei segni e degli iota della Torah. Il
maestro palesa allora che esiste davvero un contrasto fra
i comandamenti che ci dicono di amare il nostro prossimo
come noi stessi e i comandamenti che ci parlano del
166
mangiare e del bere. Il mio rispetto per l’uomo è tale,
tuttavia, che esito davanti al pensiero che si sia contraddetto,
dichiarando una cosa in un posto e il contrario altrove.
Concludo che non lo capisco davvero. Egli vede
un conflitto dove io non lo vedo, mentre io vedo che bisogna
fare la volontà di Dio dove lui non la vede.
Questo mi porta, tuttavia, a domandarmi ancora una
volta, se noi pensiamo alle stesse cose quando parliamo
di questi problemi. Dal mio punto di vista, mangiare senza
essermi lavato le mani, pagare la decima dell’aneto e
del cumino, lavare i piatti e i bicchieri non comporta nessun
contatto - e meno ancora tensione o scontro - fra il
diritto e il rito. Quando Gesù afferma che «voi dovreste
fare queste cose, senza omettere quelle perché - come
egli sottolineò - finché non siano passati il cielo e la terra
non passerà dalla Legge neppure un iota o un segno,
senza che tutto sia compiuto», non mi è affatto chiaro
come egli concili questi insegnamenti fedeli alla Torah
con i paralleli offensivi fra impurità e immoralità.
È un dato di fatto che la Torah dedichi molto spazio al
cibo. Dalla storia della creazione in avanti, quello che la
gente mangia risulta un problema importante. Il giardino
dell’Eden è un frutteto; Noè offrì in sacrificio animali;
tutti i patriarchi d’Israele fecero lo stesso. Un argomento
sul quale il Gesù di Matteo ha ben poco da dire - e nulla
invero di positivo - mentre esso ha un posto considerevole,
invece, nei racconti e nella legge della Torah.
Israele serve Dio, in primo luogo, offrendo in sacrificio
sia animali sia grano, vino ed altri prodotti della terra.
Perciò nella Torah una delle forme del servizio divino,
il sacrificio, prende la forma terrena del cibo. Si possono
offrire in dono a Dio fiori o incenso o, per esempio,
il gesto di una danza sacra, ma la Torah vuole cibo. In
secondo luogo, al sacerdozio è assegnato pure del cibo. I
167
sacerdoti ricevono parte dei sacrifici del tempio. Essi sostituiscono
Dio che è il padrone della Terra Santa e la
parte dei raccolti spettante a Dio è accantonata sia per i
sacerdoti e i leviti, sia per i poveri e gli indigenti. A tutto
Israele viene insegnato, infine, che taluni cibi non vanno
mangiati perché impuri, mentre si può mangiarne degli
altri. Non si tratta di preoccupazioni esclusive dei farisei.
Il mantenimento della vita, grazie alla coltivazione delle
messi e degli animali nella Terra Santa rappresenta, infatti,
un problema centrale nell’idea della Torah di un regno
di sacerdoti e del popolo santo.
Che cosa c’è da dire su questo problema della “purità”?
Quando si tratta di considerare la purità, la Torah afferma
esplicitamente che i sacerdoti, quelli che li assistono
e tutto il popolo con loro debbono essere puri, quando
si accingono a entrare nel cortile del tempio per compiere
il loro lavoro sacro. In ebraico “puro” si dice tahor ed
impuro si dice tame. Il significato di purità in questo caso
non è reso però da questa traduzione. Noi pensiamo
alla purità in termini assai generali. Ma nella Torah “puro”
ed “impuro” si riferiscono essenzialmente ad un contesto
particolare, cioè a quello relativo al tempio e al culto
per Dio. Se qualcosa è chiamata “pura”, essa è generalmente
accettabile per il culto mentre se è “impura”
non lo è. La parola “puro” ha davvero un significato assai
limitato e particolare in questo contesto. “Accettabile
in luogo sacro” potrebbe essere una traduzione alternativa
al posto di “puro”, come “inaccettabile” potrebbe esserlo
per “impuro”.
Ci siamo spinti assai lontano rispetto al punto di partenza
che toccava il contrasto fra purità interiore ed esteriore.
In questo scenario - mentre noi stiamo parlando
del santo tempio che Mosè descrisse e che Israele costruì
in seguito nella Terra Santa - la purità non è soltanto una
168
categoria che non ha nulla a che fare con l’etica. Non c’è
né tensione, né contatto fra il rito e il “diritto”. È incomprensibile
mettere in contrasto la purità “interiore” con la
purità “esteriore”, con l’intenzione di unire così una vita
privata immorale con una vita esteriore ritualmente corretta.
Il problema della “purità” non riguarda l’etica; non entra
in contatto e non si oppone ad essa se qualcuno, pur
essendo colpevole di mancanza di misericordia, è “accettabile
in un luogo santo”. Perché no? Perché quello che
rende qualcuno accettabile in un luogo santo fa parte di
una serie di considerazioni, mentre quello che rende una
persona moralmente integra o inaccettabile fa parte di
un’altra serie di considerazioni. Per usare un parallelo
moderno, non possiamo dire che, se un chirurgo è puro
per operare, ma è colpevole di andare a letto con la sua
assistente di laboratorio, l’assistente di laboratorio sia
un’ipocrita. Una cosa non ha proprio niente a che fare
con l’altra (a meno che l’assistente di laboratorio non sia
malata di epatite o di a id s ).
Perciò, che cosa c’è da dire riguardo a questa “purità”
che equivale ad “essere accettabili per il tempio e per il
culto”? Il suo significato preciso è esposto nei libri del
Levitico e dei Numeri. Le fonti di impurità sono dettagliatamente
spiegate in Levitico 12-15 e altrove. Se dovessi
dire in poche parole che cosa rende impuri, direi
che rende impuri quello che, per una ragione o per l’altra,
è anormale e interrompe il corso della natura e della
società. Si prenda l’esempio del cadavere descritto in
Numeri 19,11-22. La morte perturba la vita, a causa dell’impurità
del cadavere. Ci sono, poi, come è specificato
in Levitico 12-15 (Levitico 12,1-8 tratta della purificazione
dopo il parto, mentre Levitico 15 riguarda le impurità
sessuali), il flusso mestruale, il flusso di sangue fuori dal
169
ciclo mestruale, l’emissione seminale fuori dal normale
processo riproduttivo. Anche in questo caso la fonte dell’impurità
è costituita da quello che va contro la natura o
che interrompe quello che è considerato il normale corso
della natura.
Il letto e la tavola debbono essere difesi perché rimangano
nel loro alveo naturale. Ne consegue che la purità
della tavola deve essere raggiunta e difesa sia riguardo al
cibo che viene consumato, sia riguardo agli utensili usati
per prepararlo e servirlo. I comuni oggetti d’uso quotidiano,
destinati ad uno scopo preciso, sono passibili di
diventare impuri e debbono essere tenuti separati da quegli
oggetti che, per loro intrinseche proprietà, sono considerati
straordinari o anormali. Se tale oggetto diventa,
in seguito, impuro deve essere reso nuovamente puro attraverso
l’ordine naturale.
La lettura delle regole della Torah non rappresenta il
solo modo di spiegare la classificazione di quello che è
impuro; esse sono soltanto un modo di suggerirci che, in
materia di purità o impurità, dei cibi da mangiare e dei
cibi da non mangiare, della lavanda delle mani per mondarle
daH’impurità e della lavanda delle stoviglie fatta allo
stesso scopo, queste azioni non hanno a che fare con
l’etica, ma sono, nondimeno, importanti. Non tutto è importante
perché ha a che fare con un’azione giusta, con
l’etica o anche coi rapporti umani. Alcune cose hanno
importanza perché segnano il nostro rapporto con Dio e
se questo implica di amare il nostro prossimo come noi
stessi, esso ci richiede di cercare di “essere santi”, perché
Dio è santo; e nella Torah la santità ha significati assai
concreti e specifici che non hanno a che fare tutti con le
relazioni interpersonali.
Ci siamo allontanati molto dalla domanda che aveva
segnato l’inizio della mia discussione con Gesù e che
170
formulò ancora una volta: dobbiamo o non dobbiamo
mettere in contrasto il diritto e il culto? Essa fa parte della
discussione più ampia che ho intrapreso tre capitoli fa
su quello che conta davvero, nella quale ho analizzato la
frase «Voi sarete santi, perché io, il Signore vostro Dio,
sono santo» opposta a «Se vuoi essere perfetto, va’, vendi
tutto quello che hai e poi seguimi». Se non avete un’idea
esatta di quello che la Torah esige per essere santi,
voi non comprenderete mai perché, se fossi stato là, non
lo avrei seguito. Sono profondamente turbato, infatti,
perché Gesù rifiuta, a mio avviso, quello che è fondamentale
per la Torah. Non alludo alle minuzie delle quali
ci stiamo occupando qui, ma al punto principale. O «Siate
santi perché io, il Signore vostro Dio sono santo» o
«Se vuoi essere perfetto... seguimi». Credo che la Torah
abbia definito essere santo; è l’unica strada, a me nota,
per sapere quello che Dio intende per santità, seguendo,
per esempio, i Dieci Comandamenti. Dobbiamo sviscerare,
perciò, il problema della santificazione fino alle sue
estreme conseguenze.
Le leggi sulla purità diventano particolarmente importanti
per la Torah in connessione con il tempio e il sacerdozio.
Per chiarire questo concetto, lasciatemi porre una
semplice domanda. Che cosa, secondo le leggi della Torah,
debbo fare se sono puro e che cosa non debbo fare
se non lo sono? La risposta principale, ma non esclusiva
è la seguente: se sono puro, posso andare al tempio, ma
se non lo sono, non vi posso andare. Chi deve allora essere
puro? Nei libri della Torah - Levitico, Numeri, Deuteronomio
- è il sacerdozio a dover essere puro, quando
va a officiare nel tempio. Quelli che non sono sacerdoti,
le altre persone, debbono essere pure quando si recano al
tempio, per esempio, durante le tre feste di pellegrinaggio
di Pasqua, di Pentecoste e dei Tabernacoli.
171
C’è, tuttavia, un altro punto. Quando i sacerdoti consumano
la loro porzione delle offerte dell'altare o quando
mangiano a casa la decima che il popolo versa dai propri
raccolti, essi debbono trovarsi proprio nello stato di purità
cultuale che la parola “puro” indica.
Perché dunque i farisei avrebbero fatto attenzione se
qualcuno si fosse lavato le mani prima dei pasti oppure
se avesse lavato i piatti e i bicchieri e tutto il resto? I sacerdoti
hanno ricevuto esplicitamente, come vedremo fra
poco, due ordini. Il primo ordine permette non solo a loro,
ma anche ai loro famigliari a casa, di mangiare le cose
sante che il popolo offre al Signore. Il secondo ordine
gli intima di non essere “impuri”, quando mangiano queste
cose sante. Si afferma infatti esplicitamente:
«Il Signore disse a Mosè: “Ordina ad Aronne e ai suoi figli...
se qualunque uomo della vostra discendenza che nelle
generazioni future si accosterà, in stato d’immondezza, alle
cose sante consacrate dagli Israeliti al Signore, sarà eliminato
davanti a me. Io sono il Signore. Nessun uomo della
stirpe d’Aronne affetto da lebbra e da gonorrea, potrà mangiare
le cose sante, finché non sia mondo. Così sarà di qualsiasi
persona che abbia toccato qualunque persona immonda
per contatto con un cadavere o abbia avuto un’emissione
seminale o di chi abbia toccato un qualsiasi rettile da cui
abbia contratto immondezza oppure un uomo che gli abbia
comunicato un’immondezza di qualsiasi specie. La persona
che abbia avuto tali contatti sarà immonda fino alla sera e
non mangerà le cose sante prima di essersi lavato il corpo
nell’acqua; dopo il tramonto del sole sarà monda e allora
potrà mangiare le cose sante, perché esse sono il suo vitto”»
(Levitico 22,1-7).
La faccenda diviene ora assai semplice. Queste regole
si applicano sia al tempio nel quale i sacerdoti consuma172
no la loro porzione delle cose sante dell’altare, sia a casa,
alle mogli e ai figli dei sacerdoti.
Che cosa ha a che fare tutto questo con i farisei? Gesù
dà per scontato, evidentemente, che i farisei pensino che
la purità e le prescrizioni alimentari vadano applicate anche
fuori dal tempio e fuori dal sacerdozio (anche se non
tutti i farisei erano sacerdoti). Egli presuppone questo
fatto e questo sta alla base della critica al loro comportamento.
Egli afferma con molte parole che la “tradizione
degli anziani” non prescrive affatto al popolo di lavarsi le
mani quando mangia. Perché la gente dovrebbe lavarsi le
mani quando mangia se non officia come sacerdoti nel
tempio, o perché dovrebbe lavarsi le mani se non si sta
preparando a mangiare a casa la parte delle decime? Egli
sostiene che i suoi discepoli non sono tenuti a lavarsi le
mani, perché mangiare abitualmente non richiede l’osservanza
puntuale delle regole di purità; esse appartengono
al culto e la Torah è chiara su questo punto. Ogni altra
posizione apparteneva, a suo giudizio, alla “tradizione
dei padri” e non faceva affatto parte della Torah.
Naturalmente ha ragione. Niente nella Torah lascia
pensare che io mangio ogni giorno in uno stato di purità
cultuale il cibo che non viene presentato al tempio come
offerta, che non viene, per esempio, offerto ai sacerdoti.
Che cosa voglio dire, quando pretendo allora, di mangiare
il mio cibo quotidiano come se fosse il cibo del tempio
o del sacerdozio, di mangiare a casa come se mi trovassi
nel tempio, di comportarmi da sacerdote anche se
sono una persona comune?
La risposta mi sembra chiara e semplice. Sto recitando
i riti di santificazione del tempio e del sacerdozio. Io sto
assumendo perciò che ogni luogo nella terra santa è sacro
come il tempio. Io mi sto comportando come se ogni
israelita fosse un sacerdote. Io mi sto comportando come
173
se il mio cibo quotidiano fosse soggetto alle stesse regole
di purità come il cibo dei sacerdoti nel tempio. In questo
modo, che cosa sto facendo?
Sto adempiendo al comandamento di santità. Questo è
quello che la Torah intende quando afferma: «Siate santi,
perché Io, il Signore, vostro Dio, sono santo» ed è questo
che disse a Mosè:
«Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all’Egitto, e come
ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatto venire fino a
me. Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e se custodirete la
mia alleanza, voi sarete per me la proprietà fra tutti i popoli,
perché mia è tutta la terra. Voi sarete per me un regno di sacerdoti
e una nazione santa» (Esodo 19,4-6).
Il nocciolo della questione è che, se osservo queste regole
che la Torah stabilisce per il luogo santo, io agisco
come se ogni luogo fosse santo. Quando mangio secondo
le regole che rispettano i sacerdoti quando mangiano, mi
comporto come se io fossi un sacerdote e come se il mio
cibo venisse dall’altare. È un modo di essere santi, una
maniera di realizzare quello che vuol dire «essere un regno
di sacerdoti e una nazione santa».
È un modo quotidiano di leggere la Torah, un modo che
prende molto sul serio l’insistenza della Torah sul fatto
che a Dio importa quello che mangio a colazione, per citare
la frase con la quale ho concluso il settimo capitolo.
Questo è un modo di vivere una vita santa che è eterna e
costante, sempre in questo luogo e in questo tempo, sempre
pertinente alle più immediate preoccupazioni di questa
mattina. Sono sempre in movimento fra la coincidenza e
lo scontro degli opposti, eternamente in movimento da un
estremo all’altro, dal puro all’impuro, dall’impuro al puro.
La morte è una costante. L’acqua destinata alla purifica
174
zione scende incessantemente dal cielo sulla terra. La sorgente
dell’impurità dovuta al ciclo mestruale è costante
come la pioggia. Il cibo sta sulla tavola ogni giorno, e se
per gli Israeliti la tavola è un ritrovo abituale, il letto lo è
altrettanto. La vita della santità della Torah ha perciò un
suo ritmo costante. Si basa sulle fonti naturali deirimpurità
e sulle fonti eterne della purità e si concentra sui momenti
della vita quotidiana in cui gli uomini, qualsiasi cosa
facciano, sono invariabilmente sempre impegnati: il nutrimento
e la riproduzione, cioè mantenere la vita e creare
la vita. Quello che Dio vuole da me è che io crei e sostenga
la vita secondo le regole della Torah.
Perché, in fin dei conti, nella Torah l’impuro si oppone
fondamentalmente al sacro. La condizione naturale di
Israele, che appartiene alle tre dimensioni della vita - la
terra, il popolo e il culto - è la santità. Il popolo di Dio
deve essere simile a Dio in modo da potersi avvicinare a
lui. Di conseguenza, è l’impurità a causare, in quanto
anormale, la perdita della santità di Israele, e da questo
scaturisce che quello che è anormale è impuro. La purità
è, perciò, l’espressione terrena dell’idea di santità e della
separazione del popolo, della terra, del culto.
Separandosi da quello che colpisce e affligge le altre
nazioni, gli altri popoli e gli altri culti («I Cananei che
erano prima di te»), gli Israeliti raggiungono quella separazione
che esprime la santità e raggiungono la santità
che è propria anche della condizione naturale d’Israele. I
processi naturali corrispondono a quelli sovrannaturali
che ristabiliscono in questo mondo il dato al quale questo
mondo corrisponde. Le fonti distruttrici dell’impurità
- cibi impuri, cose striscianti che sono morte e persone i
cui organi riproduttivi e sessuali sono fuori dal proprio
ordine naturale - infettano Israele e necessitano la restaurazione
dell’ordine naturale.
175
Mi sembra perciò che i farisei stiano dicendo proprio
questo quando compiono questi loro strani riti. E se in
discussione c’è questo, allora i problemi che separano
Gesù dai farisei, e anche da me, non sono banali. Egli
non li presenta come banali e neppure io lo faccio.
Quando egli considera il mio interesse nel mangiare
secondo le regole di purità, cioè nel mantenere la mia vita
attraverso il cibo, avendo in mente la volontà di Dio,
egli pensa che questo sia assurdo come filtrare un moscerino
o ingoiare un cammello.
Come possiamo discutere?
Tutto quello che posso dire suona così: «Maestro, Dio
non vuole forse che noi siamo santi? E non è questo il
modo in cui la santità è definita? I Dieci Comandamenti
e la Regola Aurea hanno invero la precedenza. La Torah
contiene, tuttavia, molto di più che di questi comandamenti
e tu stesso ci dici di osservarli tutti quanti».
Ne risulta che per i farisei l’idea di impurità funzionava
in un contesto completamente differente rispetto all’etica,
cosicché associare l’impurità al peccato non aveva
alcun significato. L’impurità toccava un campo distinto
da quello della morale, come il seguente esempio dimostrerà
facilmente. Gesù considerava l’impurità una metafora
del male, mentre la purità significava essere puro
dal peccato. Il battesimo rimuoveva allora il peccato. I
farisei vedevano invece nell’impurità una metafora del
profano, mentre la purità era, ai loro occhi, metafora della
santità. La lavanda delle mani rimuoveva l’impurità.
Queste cose non rappresentano, davvero, la stessa cosa.
Puro e impuro significavano per Gesù virtuoso o peccatore;
la purità è perciò una categoria morale che rivela
che genere di persona sei. Per i farisei, puro o impuro significa
poter accedere o meno al santo tempio. Questo
indica in quale posto puoi andare, quali cose puoi fare in
176
un particolare momento. Questo non ha nessun significato
su quello che tu sei o non sei. Non si tratta di una categoria
morale. Descrive lo stato in cui tu, in quel momento,
ti trovi.
Noi siamo stati soliti pensare che “essere più santo di
te”, significhi essere più virtuoso dell’altro. Questo è ben
lontano dal significato della santità ed è del tutto estraneo
al motivo per cui la santità è importante per me. Per
questa ragione, come vedremo, rappresentare l’impurità
come peccato e come segno di malvagità rappresenta
un’idea che può essere attribuita a stento alla Torah.
Ritorniamo al meraviglioso passaggio della Mishnah,
contenuto nel trattato Sotah 9,15 che dimostra come la
pulizia conduce alla purezza e la purezza alla moralità o
santità fino alla venuta del Messia e alla risurrezione dei
morti:
«L’attenzione porta alla pulizia fisica, la pulizia fisica alla
purità levitica, la purità alla separazione, la separazione alla
santità, la santità all’umiltà, l’umiltà a evitare il peccato,
evitare il peccato alla santità, la santità allo Spirito santo, lo
Spirito santo alla risurrezione dei morti».
La persona impura non è per questo, evidentemente,
malvagia cosicché non possiamo mettere in contrasto
l’impurità con la moralità. La capacità di diventare puro
che è, come abbiamo visto, una stazione sulla strada che
conduce alla santità ha un equivalente nella capacità di
diventare impuro; più una cosa è pura, più è esposta all’impurità.
Non credo che potremo presentare i problemi in maniera
che la gente possa discuterli ed, eventualmente,
non essere d’accordo sulla stessa cosa. Se pensate che
l’impurità abbia qualcosa di peccaminoso, voi troverete
177
allora che il contrasto fra la purità cultuale e la depravazione
morale è del tutto spontaneo e quasi ragionevole.
Ma se pensate che la pulizia ha a che fare con il culto e
non con la moralità, allora il paragone non ha alcun senso.
E alla base della controversia - perché c’è davvero
una controversia fra Gesù e quelli come noi che hanno
scelto la propria strada e non lo hanno seguito - è questo
che fa tutta la differenza. O la corretta condotta cultuale
determina il corso delle stagioni e la prosperità della terra
o essa è semplicemente rituale, cioè un comportamento
esteriore poco importante.
Gesù predica il regno, la fine dei tempi, un evento nella
stessa storia pubblica, mentre noi che seguiamo i farisei
incentriamo la nostra attenzione sull’edificazione privata
della casa e della coscienza. Gesù si rivolge ad un
evento unico, ma il resto di Israele, vista la normalità dei
nostri pasti che ci riguarda, si concentra sull’eternità. Ci
interessano i cicli continui e ricorrenti che formano la vita:
nascere e morire, seminare e mietere, il movimento
regolare del sole, della luna, delle stelle nel cielo, della
notte e del giorno, del sabato, delle feste e delle stagioni
sulla terra. Abbiamo in comune un solo problema esistenziale:
come reagire agli alti e bassi della vita?
Se potessi rispondere nella calma di una lunga serata,
lontano dalla folla vociante e se Gesù si curasse di ascoltarmi,
che cosa gli direi?
Gli direi: «Maestro, tu ed io, che facciamo parte dell’Eterno
Israele, conosciamo davvero il segreto di resistere
attraverso la storia. Agli Israeliti le cose non accadono
solamente. Dio le fa accadere per insegnare qualcosa
ad Israele. Questa è la ragione per cui i profeti insegnarono:
ciò che ci accade, o Israele, si verifica perché
così Dio ci ammaestra; gli eventi storici si verificano
perché Dio lo vuole. Entrambi comprendiamo come i
178
profeti e gli apocalittici in Israele hanno modellato, ripensato
e interpretato gli eventi, considerandoli la materia
prima necessaria per rinnovare la vita del gruppo».
Io vorrei evidenziare, forse non in così poche parole, alcune
semplici verità. Per noi, Eterno Israele, la storia non
è semplicemente “una catena di sporchi fatti che si succedono
l’uno dopo l’altro”. La storia ci insegna invece cose
importanti e significative. Essa aveva un fine e si muoveva
verso una direzione. Coloro che scrissero il libro del
Levitico e del Deuteronomio, i libri storici da Giosuè fino
ai libri dei Re e i libri profetici, erano d’accordo che,
quando Israele obbedì alla volontà di Dio, godette di pace,
sicurezza e prosperità; quando non lo fece, fu punito da
regni potenti che erano lo strumento dell’ira divina.
Questa idea del significato della vita di Israele produsse
un’altra domanda: per quanto tempo? Quando gli
eventi storici avrebbero raggiunto il loro culmine e la loro
conclusione? La speranza nell’avvento di un Messia,
l’unto di Dio che avrebbe redento il popolo, lo avrebbe
fatto incamminare sulla retta via concludendo le vicende
della storia, costituì una risposta a questa domanda.
Riprendo il mio soliloquio, nella quiete della sera.
«Tu, maestro, poni questa domanda: “Per quanto tempo?”.
E tu avresti risposto: “Non tanto a lungo”. Io, maestro,
pongo questa stessa domanda, ma la mia unica possibile
risposta è la seguente: comunque a lungo... Questa
è la ragione per cui saremo quello che siamo chiamati ad
essere: un regno di sacerdoti e un popolo santo».
Guardando avanti, come se ci trovassimo nell’anno
2000, comprendo che sarebbe stato assai a lungo. Ma assai
a lungo abbiamo cercato di rimanere leali alla nostra
vocazione: formare un regno di sacerdoti e un popolo
santo, come Dio, attraverso la Torah di Mosè, ci ha ordinato.
179
Siamo, perciò, stanchi di aspettare? Alcuni lo sono, ma
molti no: la pazienza è una virtù ebraica, benché l’impazienza
sia, ahimè, molto più spesso, un vizio ebraico (e
anche il mio). Lasciatemi parlare per conto mio e dire
quello che io sostengo: per un ebreo, disperare è un peccato.
Nelle nostre azioni, non in passato, ma ai nostri
stessi giorni, abbiamo dimostrato e dimostriamo attraverso
la nostra vita, attraverso la nostra volontà di resistere
insieme, che non dobbiamo disperare. Il nostro è un popolo
di speranza e noi abbiamo agito in passato e agiamo,
oggi, con speranza.
E ritornando al nostro soliloquio:
«Voglio intraprendere, nel frattempo, proprio in questo
momento e in questo contesto, la ricerca dell’eternità. Tu
parli del regno dei cieli ed io spero che venga. Ma per
adesso io penso che dovremmo cercare di formare una
società che ospiti nel suo mezzo il cambiamento e lo
sforzo. Gli stati della terra suppongono di fare la storia e
pensano che le loro azioni contino. Ma Dio fa la storia.
La realtà formata in risposta alla volontà di Dio è quello
che ha valore come storia. Dio è il Re dei re dei re. Tu
hai litigato coi farisei e io non giustifico la loro persecuzione
nei tuoi confronti. Se fossi stato là quel giorno
avrei protestato. Ma non troppo.
Essi offrono una risposta alternativa alla domanda che
tutti noi vogliamo porre. Essi sono in concorrenza con te:
essi hanno altre domande, altre risposte, ma si rivolgono
allo stesso Israele e alle sue condizioni.
Essi non sono qui, adesso, ma agiscono nelle loro case
come se fossero sacerdoti nel tempio. Se essi rispettano
le leggi dei sacerdoti nel tempio mangiando ogni giorno
a casa, essi si comportano, allora, a casa come dei sacerdoti
impegnati a mangiare nel tempio. La loro è una pretesa,
una imitazione, eppure è una magnifica aspirazione:
180
un modo di vita fondato sul “come se”. Essi vivono “come
se” fossero sacerdoti, “come se” dovessero obbedire
a casa a tutte le leggi applicate nel tempio.
Questo è ciò che essi intendevano allora ed è quello
che noi intendiamo ora: vivere attraverso le regole che
Dio ha stabilito per la nostra santificazione. Questo è
quello che significa per noi essere l’Eterno Israele.
Tu, maestro, parli del regno dei cieli, la salvezza di
Israele.
I farisei, i sacerdoti, i saggi son quelli che si rivolgono
alla santificazione di Israele. Se noi abbiamo idee differenti
sulla cosa più importante - la salvezza alla fine dei
tempi o la salvezza qui ed ora -, se questa è la posta in
gioco, lo dirà il tempo. Dio risponderà, alla fine, a tutte
queste domande».
«E nel frattempo?» replica Gesù.
«Beh, nel frattempo, se rimani nel nostro villaggio, mi
faresti compagnia a colazione? Da amici?».
Gesù risponde: «Da amici. Lo farei certamente».
181. -
.
10
QUANTA TORAH, DOPO TUTTO?
«Chi dunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo anche nel regno dei cieli; chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini, sarà considerato grande nel regno dei cieli. Poiché io vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei non entrerete nel regno dei cieli»
(Matteo 5,19-20).
La mattina seguente, finita la colazione, avemmo l’occasione di parlare; il maestro si riprometteva infatti di lasciare il villaggio nel corso di quella giornata. Seduti sotto un fico e godendone l’ombra al sole del mattino, contemplavamo tutta la Galilea. Lui sembrava pensoso. Gli domandai se avesse intenzione di partire subito e lui rispose di sì. Gli chiesi poi che cosa sarebbe accaduto e lui replicò che lo sapeva soltanto Dio. Gli domandai, infine, se era diretto a Gerusalemme e lui mi disse di essere diretto proprio a Gerusalemme.
«Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono inviati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una gallina raccoglie i pulcini sotto le ali e
182
voi non avete voluto. Ecco: la vostra casa sarà lasciata deserta! Vi dico infatti che non mi vedrete più finché non direte: Benedetto colui che viene nel nome del Signore» {Matteo 23,37-39).
«Possiamo parlare ancora di alcune cose?» gli chiesi. «Perché no?» rispose il maestro.
Resto in silenzio per un momento, poi mi volto verso di lui e lo guardo fisso negli occhi: «Ti rispetto davvero. Non voglio che si dica di me, a causa della mia incredulità: “Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua”. Non è la mia incredulità che mi trattiene dal seguirti. Non è che io non creda a quello che c’è in te. Il fatto è che io credo di più a quello che sta nella Torah. Perciò non verrò con te a Gerusalemme insieme ai tuoi discepoli. Ma voglio spiegartene il perché. Posso farlo?».
Egli risponde pazientemente di sì.
Continuo: «Io non vedo come conciliare i tuoi insegnamenti con quelli della Torah. La ragione non sta nel fatto che i tuoi insegnamenti non facciano ricorso, in verità, alla Torah. Alcuni di loro, anzi, lo fanno. La ragione è che gran parte delle tue affermazioni e gran parte delle affermazioni della Torah si toccano a stento. In parole semplici: tu parli del regno dei cieli. Per me questo significa vivere sotto il dominio di Dio. La Torah ci offre le regole che formano il dominio di Dio. E su molte di queste regole tu hai poco da dire».
Egli obiettò: «Fammi un esempio».
«Mosè ci dice, per esempio, di organizzare un governo giusto, di stabilire leggi giuste ed eque. Egli vuole che noi scegliamo uomini capaci, fidati e incorruttibili perché governino il popolo e lo giudichino.
Mosè ci dice, per esempio, come comportarsi in caso
183
di liti fra le persone, in caso di controversie e di discussioni: “Quando due uomini rissano e uno colpisce il suo prossimo con una pietra...” (Esodo 21,18); “Quando un uomo colpisce con il suo bastone il suo schiavo” (Esodo 21,20); “Quando un bue cozza con le corna contro un uomo o una donna e ne segue la morte” {Esodo 21,28); “Quando un uomo ruba un bue o un montone e poi lo scanna o lo vende” {Esodo 21,37); “Se un ladro viene sorpreso mentre sta facendo una breccia in un muro e viene colpito e muore” {Esodo 22,1); “Quando un uomo usa come pascolo un campo o una vigna e lascia che il suo bestiame vada a pascolare nel campo altrui” {Esodo 22,4); “Se un uomo prende in prestito dal suo prossimo una bestia e questa si è prodotta una frattura o è morta” {Esodo 22,13); “Se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo, all’indigente che sta con te, non ti comporterai con lui da usuraio; voi non dovrete imporgli nessun interesse” {Esodo 22,24) e così via.
Maestro, ho ascoltato e ho domandato e non ho sentito dire da nessuno sul modo in cui dobbiamo affrontare questi problemi nel regno che, a parer tuo, è sopra di noi. E ci sono anche molti altri punti sui quali il tuo silenzio è di per sé un messaggio eloquente».
Egli mi chiede in che cosa consisterebbe questo messaggio e io replico che secondo questo messaggio il luogo e il tempo non hanno importanza.
Egli ribatte: «Non ho detto forse: “Chi dunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo anche nel regno dei cieli; chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini, sarà considerato grande nel regno dei cieli. Poiché io vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei non entrerete nel regno dei cieli”?».
Io controbatto: «Ma tutto dipende dal regno dei cieli
184
che è sempre proiettato verso il futuro. Ci si aspetta che io osservi questi comandamenti, e li insegni perché gli uomini siano grandi nel regno dei cieli. Tu vuoi che io agisca più rettamente degli scribi e dei farisei cosicché io possa entrare nel regno dei cieli. Ma che cosa ne è di questo luogo e di questo momento?».
Ma egli afferma: «Tu non parli della preghiera che io ho insegnato: “Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà così in cielo come in terra”».
Io noto che diciamo le stesse cose nella preghiera che recitiamo tre volte al giorno e che dice: «Possa venire il tuo regno e possa essere fatta la tua volontà».
Egli sottolinea: «Tutti noi ebrei, perciò, guardiamo al regno dei cieli».
Rispondo che è vero.
Ed egli soggiunge: «Non ho insegnato, forse, che dovremmo aver fiducia in Dio senza preoccuparci di quello che mangeremo, di quello che berremo e di quello che indosseremo? “Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena” (.Matteo 6,33-34). Il regno dei cieli ti appare, perciò, così bizzarro, se il tuo passaporto è la fede in Dio?».
Riconosco di aver udito lo stesso stato d’animo fra i farisei. Se potessimo sbirciare nel futuro, ne troveremmo espressione in molte frasi. Il tempo mi darebbe ragione. Un maestro fariseo vissuto più tardi direbbe la stessa cosa con le stesse parole, come dimostra questo detto:
«Rabbi Eliezer il Grande dice: “Chi ha un pezzo di pane nella bisaccia e afferma: ‘Che cosa mangerò domani?’ è un uomo di poca fede”. Questo coincide con quello che diceva
185
Rabbi Eliezer: “Che cosa significa la frase ‘Chi oserà disprezzare il giorno di così modesti inizi’ (Zaccaria 4,10)? Chi fece sì che la tavola del giusto fosse vuota nell’età che verrà? Fu la povertà di spirito che li caratterizzò, perché essi non credettero nel Santo, benedetto Egli sia”» (Talmud Babilonese, Trattato Sotah 48A).
Io replico: «Ma è qui ed ora che debbo scegliere, come tu vuoi, se seguirti a Gerusalemme o restare a casa».
Egli dice: «È vero. Se vuoi, puoi venire».
Io ribatto: «Verrei, se pensassi che il regno dei cieli fosse sopra di noi. Ma io non lo penso, al contrario di te. Stai andando a Gerusalemme, non è vero?».
Egli dice di sì.
Gli chiedo: «È la tua ultima parola?».
Egli risponde: «Sì, lo è».
E poiché mi ero perso molto di quello che aveva detto, ripetè queste cose già dette, qua e là, in Galilea:
«Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete. I ciechi recuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l’udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella» (Matteo 11,4-5).
E poi: «In verità vi dico: molti profeti e giusti hanno desiderato vedere ciò che voi vedete e non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate e non l’udirono!» (Matteo 13,17).
E ancora: «Poiché il Figlio dell’uomo verrà nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e renderà a ciascuno secondo le sue azioni. In verità vi dico: vi sono alcuni fra i presenti che non morranno finché non vedranno il Figlio dell’uomo venire nel suo regno» (Matteo 16,27-28).
E infine: «Allora Pietro, prendendo la parola, disse: “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa
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dunque ne otterremo?”. “Nella nuova creazione, quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, sie- derete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù d’Israele. Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna”» (Matteo 19,27-29).
Gli domando se accadrà presto e lui mi risponde di sì. «Ma se non si verificherà?» gli chiedo. Segue un lungo, lunghissimo silenzio.
«Che cosa accadrà?» insisto.
«Lo sa Dio», concluse. Si alzò e se ne andò per la sua strada.
Rimasi a guardarlo mentre andava via, finché vidi i suoi discepoli venire a lui da strade e direzioni differenti.
Ero sicuro, per ora, che egli avesse ragione. Sarebbero andati con lui a Gerusalemme. Essi credevano.
Io no.
Gli gridai: «Va’ in pace». In ebraico: Lekh be-shalom. Gli augurai ogni bene, ma me ne tornai a casa.
Non ero deluso e non ero di certo privo di rimpianti, ma nondimeno i miei occhi erano rivolti verso casa. Qui mi aspettavano mia moglie, i miei figli, il mio cane che voleva giocare con me, le piante del mio giardino che aspettavano che le innaffiassi, ogni mia cosa. Là c’era il mio lavoro, là il mio riposo; là la mia chiamata, il mio compito, la mia precisa vocazione e non un’altra. Qui c’è la mia responsabilità, qui è il posto dove Dio vuole che io viva: mantenere la vita, santificarla, qui ed ora, in casa e nella famiglia, nella comunità e nella società. Il regno verrà, certamente, ma fino ad allora, la mia vocazione è in questo luogo e in questo momento.
Addolorato per quello che doveva accadere e che non
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gli avevo augurato, non avrei condiviso il suo destino o la sua fede, né nel momento critico della morte, né (se questo fosse avvenuto) nel suo trionfo sulla morte. Non che non fossi convinto della virtù dell’uomo o della saggezza di quello che aveva detto. È che non avevo udito da lui quel messaggio che la Torah mi aveva detto di aspettarmi. Nel suo insegnamento mancava la cosa fondamentale insegnata dalla Torah. Era fuori questione, anche al solo scopo di mostrare buona volontà, affermare che tutti i suoi insegnamenti erano fedeli anche alla Torah di Mosè.
La Torah mi aveva detto cose del regno di Dio che Gesù aveva trascurato, mentre Gesù mi aveva detto delle cose del regno di Dio che la Torah non aveva detto. Il racconto che Gesù faceva del regno di Dio attirava i miei occhi verso l’alto, verso il cielo. Ma io vivevo, e vivo tuttora, in questo luogo e in questo momento, dove i buoi danno cornate e le famiglie litigano. Il regno dei cieli potrebbe venire, forse non troppo presto, ma finché è sopra di me, la Torah mi insegna che cosa significa vivere qui e ora nel regno di Dio.
Molto di quello che Gesù aveva detto sul regno di Dio concerneva cose che la Torah, da parte sua, aveva anche trascurato come, per esempio, chi vi entra e chi no. Quando sarà e, naturalmente, la stessa situazione di Gesù nel regno di Dio - a nessuno di questi insegnamenti la Torah mi preparava, e in tutta onestà, non c’era nessun motivo per cui avrebbe dovuto farlo.
Il regno di Dio potrebbe venire presto, ai nostri giorni, dove noi siamo? La Torah non solo risponde affermativa- mente, ma mostra anche in che modo verrà. Questo è davvero il punto. Io debbo attendere il regno di Dio? Debbo attenderlo, naturalmente: ma nell’attesa, ci sono cose che debbo fare. In maniera più appropriata, ci sono
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cose che dobbiamo fare e dobbiamo farle insieme. Gesù e i suoi discepoli se ne partirono insieme, lontano dalla vita dell’Eterno Israele, e avrei pensato allora, come oggi, che Israele aveva ragione nel lasciarli andare. Il loro messaggio era rivolto, secondo Matteo, agli individui, mentre la Torah parla a tutti noi. Lascia la casa, seguimi; da’ via tutti i tuoi beni e seguimi; prendi la tua croce personale e seguimi; ma che ne è della casa, della famiglia e della comunità, e dell’ordine sociale che la Torah ha comandato ad Israele di far esistere?
Molto tempo fa, in un posto lontano, Dio ha chiamato ad esistere un popolo, un popolo santo ed eterno. Dio ha unito a sé questo popolo in un patto, le cui clausole sono stabilite dalla Torah e sono scolpite anche nella nostra carne come il segno stesso del patto. Niente di quello che ho ascoltato da Gesù parla del patto, niente parla di Israele, niente dei doveri di tutto Israele, complessivamente e allo stesso tempo. Ogni cosa parla invece di me e non di noi, del partire e non del restare, di una svolta vicina e non di cose a lungo termine.
«Se avesse ragione?», mi viene da pensare. «Se non ci fosse un lungo termine, ma soltanto, “questo breve momento”?».
Non aveva forse ragione quando disse: «Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena», un messaggio profondamente radicato nella Torah che parla di buoi che danno cornate e di gente litigiosa.
Se lui ha ragione, perciò, allora il regno dei cieli sarà qui e tutte le cose che lui dice ci saranno sicuramente.
Se si sbaglia, tuttavia, che cosa accadrà? Famiglie distrutte a che scopo? Villaggi abbandonati, perché? E che facciamo se i buoi danno cornate e la gente litiga?
Il mio discorso non intende contrapporre la terra al
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cielo. Esso affronta due differenti idee sulla volontà di Dio, sulla maniera in cui si deve portare il cielo in terra. La Torah mi ha detto come costruire un regno di sacerdoti e un popolo santo. La Torah parla, pertanto, del regno di Dio. Essa parla, tuttavia, anche del bue che dà cornate e della slealtà. La gente reale vive la vita reale nel regno di Dio. La Torah ci insegna come costruire il regno nel luogo dove ci troviamo, nella maniera in cui siamo.
Nessuna affermazione di Gesù sul regno dei cieli mi dice che qui, dove noi siamo, possiamo costruire, possiamo obbedire alla Torah, formando così un regno di sacerdoti e un popolo santo. Egli parla del cielo, non della terra; le sue regole sono regole per il suo tempo e il suo luogo, il suo giogo è lieve e il suo carico è leggero. Cammino tuttavia per questo sentiero di quaggiù. Vado a casa. Egli chiama me, ma io sono parte di un noi. Egli mi dice di abbandonare casa e famiglia, ma Dio sul Sinai ci ha detto che non c’è regno di Dio senza casa e famiglia, villaggi e comunità, terra e popolo. Il regno di Dio sta per venire qui in terra, nel popolo di Dio ed ogni persona può diventare un membro di Israele, il popolo di Dio.
Camminando verso casa, scorsi da lontano quella montagna dove vidi per la prima volta Gesù, che stava sulla sua cima, con i discepoli che gli sedevano intorno. Stando ai piedi della montagna, pensai a Mosè che aveva parlato, in alto, in nome di Dio, tanto tempo fa, ma che viene ascoltato ogni giorno.
Sì, l’ho sentito dire: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati gli afflitti, perché saranno consolati. Beati i miti, perché erediteranno la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno
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misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» {Matteo 5,3-9).
Ma che cosa dovevo ascoltare da sotto, dove mi trovavo? «Le folle restarono stupite del suo insegnamento; egli insegnava infatti come uno che ha autorità e non come i loro scribi» {Matteo 7,28).
Che dire allora dell’altra montagna?
«Io sono il Signore tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altri dèi di fronte a me... Non ti farai idolo né immagine alcuna... perché io il Signore sono il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra il suo favore fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandi» {Esodo 20,2-6).
Mosè ha detto molto di più, stando sulla montagna. Egli disse al popolo come organizzare la sua nazione; come comportarsi nelle sue faccende di tutti i giorni; come adorare e servire Dio; come Dio gli avrebbe dato una terra santa e come avrebbe dovuto coltivarla, insomma tutto quello che serve per costituire un regno, il regno di Dio, sotto il dominio di Dio e per mezzo del suo profeta Mosè.
Mi chiedo come dovettero rispondere loro e come debbo rispondere io, adesso, nel momento in cui una montagna mi fa ricordare l’altra montagna. Mi viene in mente un versetto della Torah: «Mosè andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore e tutte le norme. Tutto il popolo rispose insieme e disse: “Tutti i comandi che ha dati il Signore noi li eseguiremo”» {Esodo 24,3).
E c’era molto di più, così tanto da far sembrare la montagna in Galilea lontanissima dal monte Sinai. Dire di più sarebbe ripetere tuttavia moltissime volte la stessa
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cosa. Ma ero vicino a casa e il sabato si avvicinava; il sole stava per tramontare. Gesù stava ormai avvicinandosi a Gerusalemme. Mi meravigliai di quello che aveva fatto delle parole che tutti noi avremmo recitato, pochi minuti dopo, benedicendo il vino:
«Gli Israeliti osserveranno il sabato, festeggiandolo nelle loro generazioni come un’alleanza perenne. Esso è un segno perenne fra me e gli Israeliti, perché il Signore in sei giorni ha fatto il cielo e la terra, ma nel settimo ha cessato e si è riposato» (Esodo 31,16-17).
Attraverso tutte le generazioni, un patto perenne, un segno per l’eternità: che legame c’è tra il Sinai ed una montagna della Galilea? Il patto è eterno.
Così lui andò per la sua strada e io per la mia. Conclusi che non è facile discutere quando una delle due parti parla del domani e l’altra dell’oggi. Non spettava a me dire se il messaggio sulla cima di quella montagna della Galilea si sarebbe compiuto. Ma sapevo allora e lo so adesso, che la voce che parla dal Sinai getta un ponte fra i secoli, fu udita e sarebbe stata udita, finché sarebbe esistito l’Eterno Israele. Noi avremmo ascoltato e obbedito; avremmo cercato di ascoltare e di obbedire nel regno di Dio, in questo luogo e in questo momento; il sabato, alla fine di ogni settimana, ci fa pregustare il regno; per sei giorni lavoreremo, di sabato ci riposeremo tutti insieme, noi, l’Eterno Israele, chiamato ad essere, a costruire il regno di sacerdoti e il popolo santo.
Dobbiamo raccogliere la sfida che scaturisce da quel giudizio:
«Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra per fare un solo proselito e, ottenutolo, lo rendete figlio della Geenna il doppio di voi» (Matteo 23,15).
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E rispondiamo ripetendo quello che Dio ci ha detto al principio dei Dieci Comandamenti - un’affermazione che il Gesù di Matteo passò stranamente sotto silenzio affrontando i Dieci Comandamenti.
«Io Sono il Signore tuo Dio, che ti ha condotto fuori dal paese d’Egitto, dalla casa di schiavitù».
Questo spiega quello che mi proposi di spiegare: perché, se fossi stato là e se fossi stato fra i primi ad ascoltare questi insegnamenti terreni - la torah con la t minuscola - esposti come parte dei suoi insegnamenti per conto di Gesù Cristo, non sarei stato d’accordo. Se avessi ascoltato quello che egli disse, per buone e fondate ragioni, non sarei diventato uno dei suoi discepoli. E per le stesse ragioni, non sono oggi fra i suoi discepoli.
Posso dire il perché in una sola parola?
Sì, perché Gesù si rivolge tanto all’individuo quanto alla collettività.
Ma la Torah, a partire dal Sinai in poi, si rivolge sempre a tutto il popolo.
«Non avrete altri dèi di fronte a me».
“Noi” - l’Eterno Israele - siamo qui per rispondere: «Noi lo faremo e obbediremo».
E non credo che Dio vorrebbe altrimenti.
J. Neusner. -
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Credo che non sia il discorso della montagna ad essere errato ma l'interpretazione che ne si dà e che é arrivata in qualche modo corrotta. Non va intesa alla lettera. Penso che nell'ebraismo sia una prassi normale fondare sul verbo l'interpretazione delle lettera, fondare sulla torah orale l'interpretazione della torah scritta. Biglino scade proprio per questo motivo d'altronde. Il senso del discorso della montagna non va ricercato nel suo significato letterale, ma nello scopo che si prefigge che non é l'istituzione di una nuova legge scritta ma la rivitalizzazione dello spirito con cui la si vive. "L'avete sentito dire, ma io vi dico" non và inteso come un voler cambiare le cose. Gesù prima di iniziare a parlare esprime chiaramente che non una jota debba essere cambiata della torah e che é meglio per colui che corrompe la torah legarsi una pietra al collo e buttarsi in mare. Allora come si connubiano queste due affermazione così apparentemente distanti? La chiave di volta, sta nella meditazione supportata dalla fede che ciò che si sta leggendo non é errato, ma che di errato vi può essere soltanto l'interpretazione che si sta attribuendo al testo. Non é un caso che Gesù dichiari di parlare attraverso parabole. Ciò non va inteso solo come un'intervento destinato ai personaggi del racconto. La quarta-parete é perennemente rotta all'interno del vangelo. Se esso si dovesse rappresentare teatralmente avremmo il Gesù protagonista che mentre parla guarda sempre verso il pubblico. Come nei film appunto, in cui un personaggio guarda verso la telecamera e dice qualcosa al pubblico. Il parlare in parabole indica che il Vangelo stesso non sia altro che una macroscopica parabola. Solo i discepoli possono capirlo non tutti, come egli stesso dice in Matteo 13. Non é certo per volontà sua l'essere criptico o frainteso. E' colui che ascolta che se non ha la giusta chiave di lettura prenderà inevitabilmente fischi per fiaschi. Così il Gesù semplicemente parla, i suoi discepoli capiscono gli altri odono una parabola.
Il significato del discorso della montagna é totalmente avulso dalle "accuse" che gli sono mosse all'interno di questa critica. Tutt'altro, esso va letto e interpretato alla luce della "difesa" mossa dall'autore nei confronti dell'ebraismo. Il significato non é quello che l'autore gli attribuisce ma esattamente quello che egli usa per controargomentarlo.
La visione bidimensionale del discorso della montagna implica che un cristiano per essere tale debba essere una specie di super eroe del buonismo e della passività il tutto trasceso e sublimato da un superpotere detto amore che pur non avendo deve sforzarsi di praticare. Ora, ditemi voi chi in questo mondo é capace di amare a comando?
La visione tridimensionale, ovvero quella supportata dalla conoscenza della tradizione, implica che tra i pilastri fondamentali della fede cristiana vi siano la grazia, il pentimento, la conversione, l'umiltà.
La visione che ne consegue é quella quadridimensionale, ovvero quella che si svolge nel tempo, ovvero la messa in pratica di quanto sopra letto linearmente e meditato in profondità.
Succede allora che il discorso della montagna, nella sua dimensione temporale, non é altro che un rito iniziatico, di profonda valenza, il cui scopo non é quello di impartire un nuovo ordine, ma di rendere palese e manifesta la miseria umana, di rendere palesi e manifesti i propri limiti all'iniziato. Di modo che dall'impossibilità di poter mettere in pratica un tale ordinamento, ne scaturisca o l'abbandono della dottrina o l'abbandono a Dio, il pentimento, la conversione come accettazione profonda della propria limitatezza e errabilità e la remissione nella propria totalità alla vera e unica Totalità, Dio.
Il discorso della montagna é iperbolico, provocatorio, trickster. E lo spirito che lo anima mi pare lo stesso che animi quei sottili significati sottesi dall'aneddoto ebraico riguardo al fatto che é degno di studiare la Torah solo chi capisce che non é possibile che due uomini passino per lo stesso camino e che uno ne esca pulito e l'altro sporco.
Il suo senso viaggia sulla linea del Sfido chiunque di voi a mettere in pratica alla perfezione quanto vi prescrivo senza che Io Sia Con Lui.
Non é un caso che al termine del discorso della montagna la parabola evangelica prosegua così: Matteo 8
1 Or quando egli fu sceso dal monte, molte turbe lo seguirono.
2 Ed ecco un lebbroso, accostatosi, gli si prostrò dinanzi dicendo: Signore, se vuoi, tu puoi mondarmi.
3 E Gesù, stesa la mano, lo toccò dicendo: Lo voglio, sii mondato. E in quell’istante egli fu mondato dalla sua lebbra.
4 E Gesù gli disse: Guarda di non dirlo a nessuno: ma va’, mostrati al sacerdote e fa’ l’offerta che Mosè ha prescritto; e ciò serva loro di testimonianza.
Edited by Pasquale Barubiriza - 15/10/2019, 17:05.