Un Rabbino Parla Con Gesù

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    אילון

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    _____Un Rabbino Parla con Gesù_____

    In questo libro spiegherò in modo franco e privo di argomenti
    apologetici perché, se fossi vissuto nella Terra
    d’Israele durante il primo secolo, non mi sarei unito ai
    discepoli di Gesù.
    Avrei di certo dissentito - spero in maniera corretta -
    discutendo, adducendo delle ragioni concrete e dei dati
    di fatto.
    Se avessi ascoltato ciò che egli disse nel “Discorso
    della Montagna”, per buone e sostanziali ragioni, non lo
    avrei seguito.
    Questo è difficilmente immaginabile per la gente, poiché
    è arduo pensare a parole più profondamente radicate
    nella nostra civiltà e a principi più elevati di quelli contenuti
    nel “Discorso della Montagna” e negli altri insegnamenti
    di Gesù. Ma è anche difficile immaginare, allora,
    di ascoltare queste parole per la prima volta, come qualcosa
    di sorprendente e di imperioso, non come meri stereotipi
    culturali. Questo è precisamente ciò che mi propongo
    in questa sede: ascoltare e discutere.
    Ho scritto questo libro per fare luce sul perché, mentre
    i cristiani credono in Gesù Cristo e nella buona novella
    della sua signoria nel regno dei cieli, gli ebrei credono
    Un Rabbino Parla con Gesù
    nella Torah di Mosè e costituiscono, in terra e nella propria
    carne, un regno di sacerdoti di Dio e un popolo santo.
    E questa fede esige dall’ebreo osservante di dissentire
    dagli insegnamenti di Gesù, poiché questi insegnamenti
    contraddicono la Torah in punti cruciali. Laddove Gesù
    diverge da quanto Dio rivelò a Mosè sul monte Sinai,
    egli sbaglia e Mosè ha ragione. Esponendo le ragioni di
    questo franco dissenso, intendo rafforzare il dialogo religioso
    fra credenti, ebrei e cristiani.
    Per molto tempo gli ebrei hanno lodato Gesù come un
    rabbino, un ebreo simile a loro, ma questa affermazione
    è del tutto irrilevante per la fede cristiana. Da parte loro i
    cristiani hanno lodato l’ebraismo poiché era la religione
    dalla quale proveniva Gesù, ma questo non rappresenta
    per noi ebrei un complimento.
    Ebrei e cristiani hanno evitato in passato di affrontare
    francamente i punti di sostanziale divergenza fra di loro,
    non soltanto riguardo alla persona e alle rivendicazioni
    di Gesù, ma soprattutto in queste pagine, discutendo i
    suoi insegnamenti. Egli pretese di riformare e migliorare:
    «Voi avete sentito dire... ma io vi dico...». Noi ebrei affermiamo,
    e io qui lo sostengo, che la Torah1 era ed è
    perfetta e non suscettibile di miglioramenti e che l’ebraismo
    - basato sulla Torah, sui Profeti e sugli Scritti2, sulla
    legge orale contenuta nella Mishnah3, nel Talmud4, nel
    1 Abbiamo deciso di non tradurre Torah, dal momento che questo termine
    indica sia la Legge mosaica, contenuta nel Pentateuco, sia la Legge orale che
    sarebbe stata rivelata, secondo la tradizione, a Mosè sul Sinai. Il termine
    “Legge” sembrava, dunque, troppo riduttivo (N.d.C.).
    2 Torah, Profeti, Scritti rappresentano le tre sezioni in cui si divide la Bibbia
    ebraica.
    3 Mishnah, in ebraico “ripetizione” e, in senso traslato, “studio”: è una
    raccolta di sessantatré trattati, divisi in sei ordini, che rappresenta un compendio
    della Legge orale. La tradizione ne fa risalire la redazione a Giuda il
    Patriarca, verso il 200 d.C. (N.d.C.).
    4 Talmud, in ebraico “studio”: è un commento alla Mishnah. Ci è giunto
    10
    Midrash5 - era ed è ciò che Dio desidera per l’umanità.
    Alla luce di questo criterio intendo illustrare il mio dissenso
    di ebreo su alcuni punti importanti degli insegnamenti
    di Gesù. Si tratta di un gesto di rispetto per i cristiani
    e di onore per la loro fede. Infatti noi possiamo
    discutere solo se ci prendiamo reciprocamente sul serio.
    Ma noi possiamo instaurare un dialogo solo se ci rispettiamo
    reciprocamente. In queste pagine io tratto Gesù
    con rispetto, ma nondimeno voglio discutere con lui sulle
    cose che egli dice.
    Che cosa c ’è in gioco qui? Se avrò successo, i cristiani
    troveranno un’occasione di rinnovamento per la loro fede,
    ma rispetteranno pure l’ebraismo. Intendo spiegare ai
    cristiani perché io credo nell’ebraismo e ciò deve aiutarli
    a riconoscere i motivi fondamentali che li conducono in
    chiesa ogni domenica. Gli ebrei, dal canto loro, rafforzeranno
    il proprio attaccamento alla Torah di Mosè, ma rispetteranno
    anche il cristianesimo. Voglio che gli ebrei
    comprendano perché l’ebraismo esige il consenso: «il
    Misericordioso cerca il cuore», «la Torah fu data soltanto
    per purificare il cuore umano». Tanto gli ebrei quanto i
    cristiani dovrebbero trovare in queste pagine delle ragioni
    per sentirsi rafforzati nella propria fede, perché ciascuna
    delle due parti troverà qui soprattutto i punti nei
    quali risiede la differenza fra ebraismo e cristianesimo.
    Che cosa mi rende così sicuro di questo successo?
    Credo che, quando ciascuna delle due parti comprende
    in due redazioni databili verso il v i i secolo d.C.: il Talmud Babilonese, proveniente
    dalle accademie rabbiniche di Babilonia, e il Talmud Palestinese,
    composto invece nelle accademie rabbiniche di Palestina. Esso consiste di
    materiali giuridici, aneddotici, storici che commentano e interpretano sia la
    Legge mosaica, sia la Mishnah (N.d.C.).
    5 Midrashim, dall’ebraico darash, “cercare”, costituiscono dei commenti
    ai testi biblici, di carattere legale o letterario, che attualizzano il testo biblico
    (N.d.C.).
    11
    allo stesso modo i problemi che la dividono dall’altra ed
    entrambe sostengono con fondate ragioni le loro verità,
    allora tutti possono amare e venerare Dio in pace, consci
    che è davvero l’unico e il solo Dio che essi venerano insieme,
    nella differenza. Così questo è un libro religioso
    sulla differenza religiosa: una discussione su Dio.
    Intendo aiutare i cristiani a diventare cristiani migliori,
    perché possano giungere, attraverso queste pagine, a una
    più chiara percezione di ciò che essi affermano nella loro
    fede; e voglio aiutare gli ebrei a diventare ebrei migliori,
    perché essi comprenderanno qui - così io spero - che la
    Torah di Dio è la Via (non solo la nostra Via, ma la Via)
    per amare e servire l’unico Dio, Creatore del cielo e della
    terra, che ci ha chiamato a servire e a santificare il Nome
    di Dio. Il mio ragionamento è semplice.
    Secondo la verità della Torah, molto di ciò che Gesù
    ha detto è sbagliato. Secondo il criterio della Torah, la
    religione di Israele all’epoca di Gesù era autentica e del
    tutto degna di fede: essa non aveva bisogno di riforme né
    di rinnovamento, ma esigeva fede e fiducia in Dio da
    parte dei credenti, ai quali si chiedeva di santificare la
    propria vita mettendo in pratica la volontà di Dio.
    Non propongo affatto che i cristiani, dopo aver letto il
    mio libro, riconsiderino le loro convinzioni sul cristianesimo.
    La fede cristiana trova un’infinità di ragioni per
    credere in Gesù Cristo (non semplicemente il fatto che
    Gesù era ed è il Cristo); tutto ciò che io obietto è: forse è
    davvero così, ma non per il fatto che egli completò o rafforzò
    la Torah o le si uniformò; neanche perché la migliorò.
    La fede cristiana non si è mai preoccupata, tuttavia,
    della propria autonomia: essa non è, in realtà, semplice
    continuazione o riforma di una fede più antica, vale
    a dire l’ebraismo (visto sempre come corrotto, venale o
    senza speranza), ma rappresenta un nuovo inizio. Così
    questo problema - posto su un livello ben delimitato -
    non dovrebbe turbare il fedele. Né lo vorrei. Ma se i cristiani
    prendono sul serio l’affermazione che il criterio di
    Matteo è valido - «non per distruggere, ma per dare
    compimento» - allora penso che debbano proprio riconsiderare
    la Torah, vale a dire l’ebraismo nel linguaggio
    corrente. Il Sinai chiama, la Torah ci dice come Dio vuole
    che noi siamo.
    Intendo riprendere, allora, la posizione degli apologisti
    ebraici che consiste nell’affermazione piuttosto abusata,
    sì al Gesù storico, no al Cristo del cristianesimo? Non
    pochi apologisti dell’ebraismo (inclusi gli apologisti cristiani
    dell’ebraismo) distinguono, infatti, fra il Gesù che
    visse ed insegnò - che essi onorano e stimano - e il Cristo
    che la Chiesa (così essi dicono) avrebbe inventato.
    Essi sostengono che fu l’apostolo Paolo ad inventare il
    cristianesimo. Da parte sua Gesù insegnò soltanto la verità
    che, come credenti neh’ebraismo, noi possiamo sostenere.
    In queste pagine io seguirò tuttavia una strada
    diversa. Non mi interessa ciò che accadde più tardi. Voglio
    sapere come avrei reagito io se mi fossi trovato ai
    piedi della montagna dalla quale Gesù pronunciò le parole
    che furono chiamate il “Discorso della Montagna”.
    Il mio dissenso non è diretto, perciò, contro il cristianesimo
    in tutte le sue forme e versioni, né contro l’apostolo
    Paolo e nemmeno contro il complesso ed enorme “Corpo
    di Cristo” che la Chiesa era e sarebbe diventata. E non
    intendo giustificare un certo ebraismo concentrato sulla
    negazione “perché non Cristo?”. L’ebraismo non deve
    spiegare sempre “perché no?”, dal momento che il messaggio
    della Torah illustra sempre il motivo di ogni precetto.
    L’ebraismo in tutte le sue complesse forme è altra
    cosa rispetto al cristianesimo senza Cristo: è l’Antico Testamento
    senza il Nuovo, in termini di Scritture rivelate,
    l’ebraismo è semplicemente un’altra religione, non soltanto
    un non-cristianesimo; e non è qui in discussione
    l’ebraismo contro il cristianesimo, tanto meno Gesù contro
    Cristo (per dirla con una formula così strettamente
    storico-biografica da essere irrilevante, a mio avviso, per
    la discussione).
    Questo non è un libro di erudizione. Esaminerò solo un
    aspetto di ciò che Gesù disse, quello trasmessoci dal Vangelo
    secondo Matteo. Per ragioni che saranno spiegate
    nella discussione seguente, ho scelto questo Vangelo
    perché particolarmente adatto per il dialogo con la Torah
    o ebraismo. Il Gesù con il quale immagino di discutere
    non è il Gesù storico nato dall’immaginazione attenta di
    uno studioso, e questo per una semplice ragione: queste
    figure storiche create a tavolino sono troppe e troppo diverse
    per un dibattito. Inoltre, non vedo come persone
    religiose possano dissentire su argomenti che esse incontrano
    soltanto nelle opere erudite. Quando gli ebrei aprono
    il Nuovo Testamento, essi ritengono di ascoltare il
    Gesù Cristo del cristianesimo e quando i cristiani aprono
    10 stesso libro, essi sono sicuramente dello stesso avviso.
    Ciò non significa che il Gesù storico non sia presente
    dentro e oltre i Vangeli; si vuole solo affermare che i
    Vangeli, così come li leggiamo, descrivono Gesù ai molti
    di noi che vogliono conoscerlo. Scrivo per i cristiani credenti
    e per gli ebrei osservanti; essi conoscono Gesù attraverso
    i Vangeli. Ho scelto uno di questi Vangeli.
    Dal momento che possediamo nel I secolo una varietà
    di ritratti di Gesù: chi era, che cosa disse e fece e perché
    è importante, lasciatemi spiegare perché ho scelto di discutere
    con il Gesù di Matteo, sebbene disponessimo per
    11 primo secolo di immagini differenti di Gesù, della sua
    persona, delle sue parole e delle sue azioni, della sua importanza.
    Ho deciso di discutere con questo particolare
    14
    Gesù, cioè con la rappresentazione di Gesù esposta nel
    Vangelo di san Matteo (usando la terminologia cristiana),
    perché il Vangelo secondo Matteo è, per consenso
    unanime, il più “ebraico” dei Vangeli, visto l’accento che
    pone su problemi di particolare interesse per la Torah e
    per il popolo di Israele al quale Gesù parlò.
    Matteo parla proprio a noi, perché noi, Israele, siamo
    coloro per i quali il problema della Torah ha la precedenza,
    quelli per i quali risuona l’affermazione: «Non pensiate
    che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti;
    non son venuto per abolire, ma per dare compimento. In
    verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra,
    non passerà dalla Legge neppure un iota o un segno,
    senza che tutto sia compiuto. Chi dunque trasgredirà
    uno solo di questi precetti anche minimi ed insegnerà
    agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo
    nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà
    agli uomini, sarà considerato grande nel regno dei cieli
    ». Dall’ebraismo, a questo io replico: «Amen, fratello».
    Io credo a questo, proprio come voi, con tutto il mio cuore,
    con tutta la mia anima e tutte le mie forze. Il Gesù di
    Matteo si avvicina alla descrizione di Gesù che un ebreo
    credente e osservante potrebbe comprendere in termini
    di ebraismo. E Matteo descrive Gesù come un ebreo fra
    altri ebrei, come un israelita a suo agio in Israele, ben diverso,
    per esempio, dal ritratto del Vangelo di Giovanni
    che parla con odio dei “Giudei”.
    Che cosa rende credibile la discussione e perché proprio
    adesso?
    Una discussione con il Gesù di Matteo è credibile perché,
    avendo davvero in comune la Torah, noi possiamo
    essere ben d’accordo sul punto principale e possiamo
    dissentire sul resto.
    Di contro, c’è una fondata ragione che non mi permet-
    15
    te di essere d’accordo con il Gesù di Giovanni o con
    quello di Luca o di Marco. Giovanni e di conseguenza il
    suo Gesù detesta i “Giudei” e tanto basta. I Gesù di Marco
    e di Luca che hanno, in verità, molto in comune con
    quello di Matteo non sono dei personaggi che evocano il
    legame “ebraico”.
    Scritto probabilmente fra il 50 e il 75 d.C., fuori dalla
    terra di Israele, il Vangelo secondo san Matteo, nato da
    una scuola o da una Chiesa che trasmise i suoi scritti sotto
    il nome di Matteo, narra di eventi della vita, degli insegnamenti
    e dei miracoli, della morte e della risurrezione
    di Gesù di Nazaret. Fra questi argomenti uno è particolarmente
    importante: la rappresentazione di Gesù come
    un maestro, il cui importante messaggio costituisce
    parte della prova che egli è il Cristo, nel quale Israele dovrebbe
    credere.
    In maniera assai più pertinente il messaggio, e non solo
    la vita e i miracoli, costituisce una parte importante
    delle credenziali del Gesù di Matteo, mentre manca nelle
    lettere paoline. Ciò che Gesù dice rappresenta per Matteo
    una testimonianza, sia pur parziale, delle sue pretese.
    Noi, l’Eterno Israele, al quale Gesù fu mandato da Dio e
    al quale Gesù portò il suo messaggio, dovremmo essere
    persuasi dal carattere di questi insegnamenti, rappresentati
    in realtà come l’adempiersi della Torah. Di conseguenza,
    fra le molte rappresentazioni della figura di Cristo,
    questa storia mette l’accento non solo sulla sua morte
    e sulla sua risurrezione, ma anche sulle sue azioni e
    sulle sue parole: miracoli, istruzioni, parabole.
    Matteo afferma per conto di Gesù che il suo è un insieme
    di insegnamenti che contiene verità così ovvie che
    tutti quelli che le ascoltano debbono confessare il nome
    di chi le ha dette: Gesù Cristo. Se questi insegnamenti
    nel pensiero del Gesù di Matteo non occupano una parte
    16
    centrale di quello che Gesù vuol dire, allora perché narrarci,
    oltre a quello che lui fece e quello che Dio fece di
    lui, quello che disse? Se, dopo tutto, questa non è la pretesa
    dell’Evangelista, allora dalla prospettiva della fede,
    nessuna ragione stringente richiedeva di mettere per
    iscritto un resoconto così ricco e dettagliato del messaggio
    del maestro. In risposta al messaggio del Gesù di
    Matteo, un ebreo praticante come me - sto parlando naturalmente
    solo per me stesso - ma ben dentro la fede di
    Israele, può intavolare una discussione. Perché è possibile
    intavolare una discussione con i detti, ma non con i
    racconti? Se qualcuno afferma categoricamente di fare
    questo e non quello, se ne può discutere. Ma come si può
    discutere con un miracolo? Puoi crederci o meno. Se ci
    credi, ne trarrai sul serio quelle conseguenze che la fede
    esige oppure ne trarrai delle altre. Ma i miracoli valgono
    solo per i fedeli. Nessun essere umano, e certamente nessun
    ebreo che appartiene a una tradizione secondo la
    quale Dio preferisce il perseguitato al persecutore - cioè
    l’agnello, la pecora, la capra al leone o all’orso -, vorrebbe
    dissentire con il racconto tragico e sconvolgente
    della Passione.
    Né posso concepire una discussione con le lacrime di
    una madre o con una tomba vuota. Anche fra i detti che
    Matteo attribuisce a Gesù, molte cose espongono semplicemente
    alcuni ben noti insegnamenti della Torah di Mosè,
    come per esempio, la ben nota parafrasi di Levitico
    19,18: «Ama il tuo prossimo come te stesso». Nessun
    ebreo osservante vorrebbe discutere con questi e altri
    buoni insegnamenti della Torah. Molto di quanto viene
    esposto ad adempimento della Torah, viola in effetti l’insegnamento
    e la volontà della Torah oppure offre un
    messaggio religioso inferiore a quello della Torah nella
    lettura di Israele. Una discussione sul complesso di inse-
    17
    gnamenti per il quale valgono i giudizi succitati è proprio
    quello che offro in queste pagine.
    Mi sembra che un dialogo fra ebraismo e cristianesimo
    possa cominciare al meglio col Vangelo di Matteo, anche
    se io non affermo nulla sulla veridicità storica di quello
    che Gesù fece e disse secondo Matteo. Questo è un problema
    che affrontano gli studiosi. Ma io scrivo da ebreo
    religioso per cristiani credenti e quello che io conosco
    come fede cristiana contiene il racconto che Matteo fa di
    Gesù. I cristiani con i quali voglio condurre una conversazione
    non sono solo quelli che si definiscono “credenti
    della Bibbia” (definiti da altri “fondamentalisti”) e che
    accettano ogni parola così come è scritta, ma ogni cristiano
    che ritrova Gesù (anche) nel Vangelo di Matteo.
    Ci sono nel mondo milioni e milioni di cristiani che ritrovano
    realmente Gesù nel Vangelo di Matteo e che saranno
    disposti ad ascoltare il punto di vista ebraico rispetto
    al Gesù presentato dal Vangelo di Matteo, che
    vuole discutere, come vedremo, sulle verità fondamentali
    della Torah e di Cristo.
    Insisto sul fatto che dobbiamo incontrare il Gesù di
    Matteo sul suo stesso terreno, considerando come fatti
    concreti le cose che, secondo Matteo, egli disse. Io prendo
    sul serio questo Vangelo. Per apprezzare questo mio
    sforzo nel dialogo religioso, secondo uno spirito religioso,
    incentrato su problemi religiosi, i lettori che hanno
    avuto una formazione universitaria o teologica e che
    hanno le loro idee su quanto Gesù disse o fece, dovranno
    tacitare i propri dubbi. Gli altri, lo spero, mi seguiranno.
    Affronto adesso il problema principale: perché prendere
    sul serio i Vangeli allo scopo di un dialogo religioso?
    Quando i fedeli nelle moschee, nelle sinagoghe e nelle
    chiese, si occupano dei rispettivi libri sacri, vi trovano
    quello che Dio disse a Maometto o a Mosè oppure a Ge18
    sù, cioè storie vere e concrete su quanto i fondatori dell’Islam,
    dell’ebraismo, del cristianesimo hanno detto e
    fatto. Quando gli studiosi dell’Islam o dell’ebraismo o
    del cristianesimo, leggono gli stessi libri, una buona parte
    di essi li considera non come la parola di Dio, ma come
    prove di quello che l’umanità ha scritto in nome di
    Dio. Nel caso dei Vangeli, quindi, l’assemblea dei fedeli
    nelle chiese legge le parole che secondo loro Gesù disse,
    i racconti di ciò che fece, mentre gli studiosi nelle università
    e nei seminari cristiani trovano nei Vangeli la prova
    che - se correttamente interpretata - può parlarci delle
    cose che Gesù disse o fece “realmente”. Ne consegue
    che c ’è una notevole differenza fra la ricezione della
    Scrittura da parte dei fedeli, per i quali è parola di Dio, e
    la lettura della stessa Scrittura da parte degli studiosi, che
    la considerano la semplice prova di quello che può essere
    stato detto o non detto.
    Questa differenza conta quando affrontiamo le affermazioni
    della fede e quando conduciamo una discussione
    sulla loro verità. Il credente cristiano indica l’uomo e
    le sue parole: ecco Gesù ed ecco il Vangelo che parla di
    lui. L’altro allora, proponendosi di prendere sul serio la
    fede cristiana nei suoi enunciati, può articolare una risposta:
    ecco quello che io voglio dire in risposta a quello
    che lui è e a che cosa ha detto.
    Ma come possiamo discutere non tanto col Gesù del
    Vangelo, quanto piuttosto con le teorie degli studiosi sull’uomo,
    la sua vita, i suoi insegnamenti? Essendo diversi
    i pareri degli studiosi, la prima sfida è identificare il Gesù
    con il quale vogliamo discutere. La seconda sfida riguarda
    il superamento della differenza, importante per
    gli studiosi, ma non per la maggioranza dei fedeli, fra il
    Gesù della storia (cioè la formula degli studiosi) e il Cristo
    della fede. A questo punto, allontanandoci dal rac-
    19
    conto di un singolo Vangelo su Gesù Cristo e rivolgendo
    la nostra attenzione alle ricostruzioni degli storici intorno
    a quello che, fra i racconti dei Vangeli, dovremmo pensare
    che Gesù disse e fece realmente, noi tradiamo completamente
    il fedele. Noi discutiamo più con il Gesù di
    qualcun altro che con il Gesù dei cristiani i quali trovano
    nei Vangeli la persona di Gesù Cristo, Dio incarnato. Come
    possono, dunque, delle persone religiose - musulmani,
    cristiani o ebrei - discutere coerentemente fra loro?
    Aderendo con fede sincera ad una religione, il credente
    trova necessario confrontarsi non con la fede di un fedele,
    ma con il composito racconto creato su basi assai
    diverse da quelle della fede religiosa.
    Quando un non cristiano propone, come faccio in questo
    libro, di intavolare una discussione con Gesù, si trova
    di fronte alla seguente scelta: con quale Gesù? Con il
    Gesù che gli studiosi mi dicono (proprio questa mattina)
    che visse ed agì realmente, che disse questa cosa (ma
    non quella), che fece questa cosa (ma non l’altra)? Oppure
    con il Gesù che i cristiani credono essere il figlio di
    Dio, che insegnò e fece miracoli, che fu processato dal
    sinedrio, condannato da Ponzio Pilato e crocifisso dai romani
    e che risuscitò dai morti e che siede alla destra di
    Dio? Posta in questi termini, la risposta è ovvia.
    Spiegando perché io mi propongo di condurre un dialogo
    religioso sulla base di uno dei Vangeli e non del racconto
    degli studiosi sul Gesù storico, sono andato ben oltre
    il mio racconto. Permettetemi di citare nuovamente
    che cosa c’è in gioco in questo lavoro di carattere religioso
    che, se avrò successo, renderà migliori sia i cristiani
    sia gli ebrei e pur sottolineando le differenze, aprirà
    una nuova era di dialogo religioso per un futuro di pace.
    Una seconda domanda attende una risposta: perché ho
    20

    scritto questo libro? L’ho scritto perché mi piacciono i
    cristiani e perché rispetto il cristianesimo e volevo prendere
    sul serio la fede di persone che stimo. Non posso
    immaginare che un ebreo, cresciuto in un paese islamico,
    potrebbe scrivere un libro simile su Maometto (e sopravvivere
    molto a lungo alla sua pubblicazione). Ma la vita
    in un paese cristiano, abitato da cattolici, da protestanti e
    da ortodossi, mi ha reso orgoglioso dell’ebraismo e felice
    di essere quello che sono, ma al tempo stesso mi ha
    reso felice di avere per amici e vicini i fedeli di una religione
    che promuove la buona volontà verso il prossimo
    ed è interessata davvero all’esistenza di buone relazioni
    con persone di religioni diverse.
    Permettetemi di rendere omaggio a coloro che modellarono
    le loro vite sull’insegnamento di Gesù, o almeno
    ci provarono. Sono cresciuto nella città di West Hartford,
    nello stato del Connecticut, ebreo riformato in un quartiere
    abitato in maggioranza da protestanti. All’asilo c ’erano,
    su trenta persone, solo altri tre bambini ebrei; non
    molti di più erano i cattolici e a quell’epoca non c’erano
    bambini neri. Quello che ricordo di un periodo in cui festeggiavamo
    il Natale a scuola e Hanukkah a casa era la
    buona accoglienza e il rispetto dei miei amici cristiani
    verso di me. Fu davvero un brutto colpo scoprire, in terza
    elementare, che i padri pellegrini - le figure dei quali
    stavamo disegnando per la festa del Ringraziamento -
    non andavano in sinagoga, ma in chiesa e non riuscii a
    convincere Miss Melcher che essi frequentavano la mia
    stessa sinagoga sulla Farmington Avenue.
    Mi ricordo anche che la signora O’Brien, la madre di
    Billy - il mio migliore amico -, voleva darmi in occasione
    della Pasqua dei crackers, perché sapeva che noi ebrei,
    quella settimana, non potevamo mangiare il pane lievitato.
    Mi ricordo ancora che mia sorella impersonava, quasi
    21
    sempre, nelle nostre recite la Vergine Maria e che i nostri
    insegnanti volevano essere certi che noi ci sentissimo a
    nostro agio. Ma mi ricordo anche di quando, in seconda
    media, per la prima volta, la nostra scuola celebrò sia la
    festa di Hanukkah, sia il Natale. West Hartford pensò di
    aver fatto un bel passo in avanti quell’anno e così pensai
    anch’io. Nel mondo che io ricordo il cristianesimo era
    buono, amichevole, accogliente; l’ebraismo era accettato,
    io non conobbi mai, né allora né dopo, il volto terribile
    che il cristianesimo, in altri tempi, in altri luoghi e anche
    alla mia epoca, aveva mostrato al mondo. Sono cresciuto
    in un mondo che io ricordo come benevolo.
    Dal momento che in quegli stessi anni, milioni di ebrei
    venivano assassinati in Europa e l’antisemitismo fioriva
    in tutto il mondo - compresi il mio stesso stato e la mia
    stessa città - non do per scontata la normalità con la quale
    sperimentai l’essere ebreo in un mondo in gran parte
    protestante. E un mondo che io rispetto e ammiro, nel
    quale scorgo delle virtù.
    E non basta; la mia vita professionale di studioso dell’ebraismo,
    aH’interno del mondo universitario dello studio
    della Religione, si è svolta perché i protestanti e i
    cattolici volevano che l’ebraismo venisse insegnato nelle
    università e fecero sì che potessi realizzare il mio impegno
    e la mia vocazione a insegnare. 11 mio sogno di studiare
    l’ebraismo nell’ambiente universitario si concretizzò
    in risposta ai miei insegnanti e poi ai colleghi, i quali
    vollero che le cose che io stimavo fossero presenti in
    quel centro vitale dell’insegnamento pubblico. Avevo desiderato,
    per esempio, diventare rabbino (ovviamente
    rabbino riformato per via della mia educazione). Quando
    all’Università di Harvard spiegai al comitato che assegnava
    una borsa di studio postuniversitaria, intitolata a
    Henry, che volevo studiare all’Università di Oxford per
    22
    migliorare la mia conoscenza della storia ebraica, fui
    mandato là per un anno. Quando, più tardi, spiegai al comitato
    del National Council fa r Religion in Higher Education
    - che assegnava una borsa di studio postuniversitaria,
    istituita da Charles Foster Kent, professore alla Facoltà
    di Teologia dell’Università di Yale - che intendevo
    laurearmi e fare il dottorato in storia delle religioni, specializzandomi
    nello studio dell’ebraismo, il comitato mi
    concesse una generosa borsa di studio e mi fece percorrere
    la strada che avevo scelto. Questa è la storia della
    mia vita: «Quella sarà la vostra saggezza e la vostra intelligenza
    agli occhi dei popoli» (.Deuteronomio 4,6).
    Quando mi recai alla Columbia University e all’Union
    Theological Seminary per il dottorato, fui ben accolto,
    fui trattato con gentilezza e mi fu offerta ogni possibilità.
    Quando ebbi conseguito il dottorato, John Hutcheson, allora
    presidente della Columbia University, mi invitò a insegnare
    nella facoltà. Alcuni anni dopo, Fred Berthold,
    presidente del Darmouth College, fece lo stesso. E in un
    recente passato, Frank Borkowsky - cattolico romano e
    presidente dell’University of South Florida, che dà inizio
    al pranzo con una semplice preghiera alla quale tutti si
    associano senza sentirsi imbarazzati - e alcuni professori
    di fede metodista o battista, fecero causa comune per
    portarmi e accogliermi in quella università, dove ho trovato
    la mia casa.
    La mia vita e la mia carriera, da allora ad oggi, si sono
    svolte interamente all’interno della corrente principale
    della vita intellettuale americana e la mia ambizione più
    grande è stata quella di mettere la cultura dell’ebraismo a
    disposizione del grande pubblico, poiché stimo la vita
    del mio paese e voglio contribuire ad essa con quello che
    stimo di più, sapendo che questo contributo è richiesto e
    apprezzato. I colleghi a me più vicini, durante gli anni
    23
    davvero belli trascorsi al Darmouth College e adesso all’University
    of South Florida, sono cristiani osservanti
    che professano grande stima per l’ebraismo. Ho avuto
    moltissimi e svariati editori e li ringrazio tutti. Fra di loro,
    però, le case editrici universitarie di orientamento cristiano
    - Trinity Press International, Ausburg-Fortress,
    Westminster-John Knox e Abington - occupano un posto
    speciale nel mio cuore, perché hanno il grande vanto di
    aver dato spazio all’ebraismo. Questo è lo spirito in cui
    ho pensato questo e gli altri libri: restituire qualcosa. Il
    cristianesimo - cattolico e protestante - ha fatto avanzare,
    nella mia vita, persone, le cui convinzioni religiose le
    hanno spinte a rispettare la mia religione e a volerla conoscere
    meglio. L’unica maniera per ricambiare questo
    atteggiamento era dimostrare un ragionevole interesse
    per la loro religione e tentare di discutere con essa.
    Poiché sono stato, così almeno credo, uno dei primi
    studiosi dell’ebraismo, di origine ebraica e con una educazione
    rabbinica, a svolgere la propria carriera in un
    ambiente totalmente laico e a non esser mai stato pagato
    da una istituzione ebraica (a parte i miei studi rabbinici),
    mi si può comprendere quando affermo che le caratteristiche
    di questo libro rispondono alle esperienze di una
    lunga vita trascorsa - i sessantotto anni ormai si avvicinano,
    mentre scrivo questa conclusione - nell’ambiente
    universitario e religioso americano, che è in maggioranza
    cristiano. Non stupisce, allora, né il fatto che io nutra
    sentimenti di un pieno grande rispetto per il cristianesimo,
    né che io abbia voluto spiegare in maniera ragionevole
    proprio il punto in cui, a mio avviso, il cristianesimo,
    a partire da Gesù (come è ritratto in uno dei Vangeli),
    prese una direzione sbagliata abbandonando la Torah.
    Che accadrà, dunque, se questo libro avrà successo,
    cioè se il dialogo ebraico-cristiano diventerà sostanziale,
    24
    rivolto ai problemi del vero e del falso, del giusto e dello
    sbagliato, nel servizio di Dio? Quello che è in gioco è
    compiere un primo passo nel definire un discorso di autonomia
    dell’ebraismo. Per molto tempo, nei colloqui
    ebraico-cristiani, l’ebraismo ha iniziato col difendere se
    stesso, ma fino al Medioevo gli ebrei che partecipavano
    al dialogo non affrontarono le convinzioni cristiane secondo
    il loro punto di vista, non esposero le convinzioni
    dell’ebraismo secondo il nostro punto di vista. Nel quadro
    di questo libro voglio spiegare non solo perché non
    sono cristiano, ma anche perché, a mio avviso, il cristianesimo
    dovrebbe prendere sul serio, nella sua formazione,
    le affermazioni che provengono dal Sinai. Questo libro
    non vuole fare opera di proselitismo. Non l’ho scritto
    per convincere i lettori cristiani a lasciare la Chiesa per
    entrare nella sinagoga. Non si tratta di un opuscolo
    ebraico, simile agli sgradevoli opuscoli cristiani che mi
    arrivano ogni giorno per posta, chiedendomi di convertirmi
    al cristianesimo.
    Questo libro intende sfidare la fede cristiana, esponendo
    i problemi che mi sembrano dividere in particolare
    l’ebraismo e il cristianesimo e questa sfida ha in sé l’invito
    a rispondere. Come ho detto nella prefazione, spero
    e credo che i cristiani risponderanno riaffermando sinceramente
    la propria fede, ben sapendo quali sono i problemi;
    se io contribuirò a far vivere la vita cristiana in maniera
    sincera e non come una mera abitudine, avrò servito
    una buona causa.
    Lo stesso vale per i miei compagni ebrei. A quelli che
    immaginano un’esistenza laica per l ’Eterno Israele io
    posso offrire solo la vita con il Dio che conosciamo nella
    e attraverso la Torah. È tempo, a mio parere, di organizzare
    per noi stessi un dialogo religioso in maniera libera
    ed autonoma, secondo il linguaggio ed il contesto ameri-
    25
    cano, dove possiamo spiegarci reciprocamente, senza far
    ricorso al fatto di essere una minoranza ebraica in un
    mondo cristiano. Non intendo affatto affaticarmi ad
    enunciare l’autonomia dell’ebraismo. Ho la sensazione
    che i grandi teologi e filosofi ebrei vissuti in Europa nel
    XX secolo stavano muovendosi nella direzione che io ho
    seguito in queste pagine, verso una discussione in termini
    ebraici con il cristianesimo visto in termini cristiani. Il
    lavoro magistrale di Martin Buber, Due tipi di fede6, è
    uno degli esempi migliori di questa analisi e risulta assai
    superiore a qualsiasi opera che io potrei scrivere.
    Se l’ebraismo europeo fosse sopravvissuto (a parte poche
    sorgenti di ortodossia l’ebraismo rappresenta oggi in
    Europa una religione morta), quei grandi intellettuali
    avrebbero affermato quell’autonomia dell’ebraismo che
    vorrei adombrare qui, semplicemente e in via preliminare.
    Io sono stato definito un “teologo dell’Olocausto”, un
    titolo che non ho rivendicato e che non ho meritato. La
    mia vita ha potuto svilupparsi in questo modo perché mi
    è stato permesso di svolgere il mio lavoro, non in risposta
    all’Olocausto, ma dopo la catastrofe dell’Olocausto.
    Persone più intelligenti di me hanno riflettuto su queste
    cose. Quanto a me, posso fare soltanto del mio meglio.
    Come sempre, le nostre vite scorrono al cospetto dei secoli
    passati. Quando viene il nostro turno, facciamo del
    nostro meglio. Poi passiamo il testimone a quelli che
    vengono dopo di noi. Questo significa far parte dell’Eterno
    Israele.
    6 M. Buber, Due tipi di fede, Cinisello Balsamo (Milano) 1995, affermava
    che la fede ebraica si fondava suU’emuna, quella cristiana sulla pistis.
    (N.d.C.).
    26
    I
    UN EBREO OSSERVANTE
    DIALOGA CON GESÙ
    2
    «Gesù percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe
    e predicando la buona novella del Regno e curando
    ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo... E grandi
    folle cominciarono a seguirlo dalla Galilea, dalla Decapoli,
    da Gerusalemme, dalla Giudea e da oltre il Giordano...
    Vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna e messosi a
    sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli. Prendendo la
    parola, li ammaestrava, dicendo...»
    (Matteo 4,23-25; 5,1-2).
    Immaginate di camminare, un’estate, per una strada
    polverosa in Galilea, di imbattervi in un piccolo gruppo
    di giovani, guidati da un giovane uomo. La personalità
    dell’uomo attrae la vostra attenzione; egli parla, gli altri
    ascoltano, rispondono, discutono, eseguono attentamente
    ciò che egli dice, lo seguono. Voi non conoscete quell’uomo,
    ma sapete che l’incontro con lui ha cambiato la
    vita dei suoi discepoli e di molti fra coloro che l’hanno
    incontrato. La gente reagisce, qualcuno con rabbia, qualcuno
    con ammirazione, pochi con fede sincera. Ma nessuno
    se ne va senza interesse per l’uomo e per le cose
    che egli dice e fa.
    27
     
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    Adesso, se siete in grado di fare un salto in avanti di
    più di duemila anni, provate a immaginare di non aver
    mai sentito parlare del cristianesimo. Tutto ciò che conoscete
    sono poche frasi dette da quell’uomo, poche storie
    raccontate su di lui, qualcuna delle storie che egli raccontò,
    qualcuna delle cose che egli fece. Potete tornare indietro
    in Galilea a incontrarvi con Gesù prima della sua salita
    a Gerusalemme? Potete ascoltare le parole ripetute
    un’infinità di volte come se fossero state pronunciate proprio
    per la prima volta? Allora, ma solo allora, potrete incontrare
    l’uomo con i suoi discepoli e affrontare la discussione,
    nel mondo semplice e immediato nel quale vivete:
    se voi foste stati là, che cosa avreste fatto? Se non
    aveste saputo che cosa egli sarebbe diventato (parlando
    ora dalla prospettiva di un cristiano praticante) lo avreste
    scelto come vostro maestro e lo avreste seguito?
    Penso che possiamo leggere le parole che Matteo cita
    in nome di Gesù se, con un atto di immaginazione, ci
    mettiamo su una strada polverosa della Galilea e facciamo
    finta di non aver mai udito le parole che sono risuonate
    per secoli. Allora, e solo allora, trovando nuovo e
    stimolante ciò che i secoli hanno reso vecchio, possiamo
    rinnovare l’incontro - l’incontro, la discussione, il confronto
    - che fonda, a mio avviso, il cristianesimo: l’incontro
    con Gesù. Oggi, essendosi trasformati molti insegnamenti
    in banalità e luoghi comuni, è difficile recepire
    la sfida, il pungolo, la carica polemica di queste parole.
    Questo è il nostro compito, tuttavia, se vogliamo discutere
    seriamente di importanti verità. Ed è tempo - penso -
    che alcuni particolari insegnamenti del Gesù di Matteo
    ricevano un’attenzione seria e motivata, non come banalità
    e ovvietà, ma come affermazioni controverse e forti
    sulle quali si può essere d’accordo grazie a una discussione.
    Perché, se leggete le storie narrate da Matteo, non
    28
    potete ignorare che Gesù era un uomo, il quale affermava
    cose, a suo giudizio, nuove e importanti e che pretendeva
    che i propri ammaestramenti costituissero il modo corretto
    di eseguire e di adempiere la Torah, gli insegnamenti
    che Dio diede a Mosè sul monte Sinai.
    Quale vantaggio deriva dall’accettazione cristiana e
    dal rifiuto ebraico di ciò che secondo Gesù Dio vuole da
    noi? Le affermazioni di Gesù si pongono come una critica
    ai punti di vista altrui e come spiegazione nuova, forte
    e originale della rivelazione di Dio a Israele, all’interno e
    per mezzo della Torah.
    I cristiani dovrebbero forse accettare queste affermazioni
    forti come un semplice dato di fatto, dal momento
    che esse volevano cambiare il mondo... e dopo tutto lo
    hanno cambiato? E gli ebrei dovrebbero ascoltare gentilmente
    e banalizzare le affermazioni che Gesù presentò
    come proprio insegnamento, affermazioni che formavano
    chiaramente, a suo parere, l’insegnamento della Torah?
    Gesù insegna la Torah al pari di altri maestri, ma pretende
    di porsene al di sopra. Quanto più ascoltate Gesù come
    se non lo aveste mai ascoltato, tanto più capite che
    egli avanzò per se stesso pretese assai particolari, pretese
    che non possono essere accettate troppo facilmente o
    messe da parte troppo cortesemente, come i cristiani e
    gli ebrei hanno fatto nel corso dei secoli.
    Ecco un uomo, un uomo giovane e i suoi studenti, che
    alcuni ammirarono, alcuni odiarono, ma nessuno ignorò.
    Penso che dobbiamo ascoltarlo seriamente e ciò significa
    un incontro nuovo e coinvolgente, non solo genuflessione
    e obbedienza da un lato o casuale condiscendenza
    dall’altro.
    Perciò affermo assai semplicemente: io mi osservo,
    mentre incontro quest’uomo e dialogo cortesemente con
    lui. È la mia forma di rispetto, il solo complimento che
    29
    chiedo agli altri, l’unico serio omaggio che rendo alla gente
    che prendo sul serio: dunque rispetto e anche amore.
    Sono in grado di vedermi non soltanto mentre incontro
    quest’uomo e discuto con lui, isolando alcune cose specifiche
    che disse e sfidandolo sulla base della Torah che
    condividiamo - le Scritture che i cristiani avrebbero
    adottato più tardi come “Antico Testamento” -, ma anche
    posso immaginarmi mentre dico: «Amico, va’ per la tua
    strada, io andrò per la mia. Ti auguro ogni bene, senza di
    me. La tua non è la Torah di Mosè e tutto ciò che io ho
    ricevuto da Dio e tutto ciò di cui ho bisogno da parte di
    Dio, è la Torah di Mosè».
    Ci incontreremmo, dialogheremmo, ci lasceremmo da
    amici - ma ci lasceremmo. Egli sarebbe andato per la
    sua strada a Gerusalemme e al luogo che a suo parere
    Dio aveva preparato per lui; io sarei andato per la mia
    strada, a casa da mia moglie e dai miei figli, dal mio cane,
    al mio giardino. Egli sarebbe andato per la sua strada
    gloriosa, mentre io sarei andato ai miei compiti e alle
    mie responsabilità.
    Matteo fa diventare per noi, semplicemente, nuovo e
    meraviglioso, ciò che prima sembrava estremamente ovvio.
    Egli prepara la scena con poche semplici frasi: «Egli
    salì sulla montagna e messosi a sedere, i discepoli si avvicinarono.
    E prendendo allora la parola, li* ammaestrava
    dicendo...». Con queste parole Matteo evoca l’immagine
    di un maestro della Torah che insegna adesso la Torah ai
    suoi discepoli. Gesù siede, fatto che indicava di solito -
    lo sappiamo dagli scritti posteriori sui rabbini - che sta
    iniziando un serio insegnamento. Sedersi indicava proprio
    l’inizio della lezione. I discepoli lo circondano, fanno
    cerchio in silenzio. È una scena piena di dignità e di
    solennità. Gesù non conduce una conversazione; non tiene
    neppure un discorso; egli espone alcune verità. I di30
    scepoli ascoltano perché, a suo tempo, parteciperanno alla
    discussione e all’analisi di queste verità, contestando,
    spiegando, convincendosi attraverso un serrato dibattito.
    In questo senso dobbiamo comprendere il senso della parola
    Torah.
    Essa ha due significati, l’uno con la T maiuscola, l’altro
    con la t minuscola. Torah con la T maiuscola indica
    la rivelazione di Dio a Mosè sul monte Sinai. Quando
    noi scriviamo torah con la t minuscola, intendiamo “l’istruzione”
    impartita da un maestro nel contesto dell’insegnamento
    della Torah. Si tratta di un’oscillazione semantica
    piuttosto strana; ciò che Gesù insegna è la Torah e
    ciò che insegna è pure istruzione {torah). Perciò il suo
    impegno nei confronti della Torah di Mosè - e Matteo
    evidenzia quanto profondamente Gesù sia coinvolto nell’insegnamento
    della Torah - indica che le cose che egli
    dirà costituiranno pure una continuazione, un’espansione,
    un’elaborazione e una spiegazione della Torah. Egli
    insegna la Torah. Così nel quadro della Torah egli insegna
    la Torah ed egli stesso amplia la Torah: così il suo è
    anche un lavoro di torah.
    Questa semplice affermazione, che descrive Gesù come
    un maestro della Torah che espone la sua dottrina,
    rende possibile una discussione su un solo argomento:
    che cosa Dio desidera da me. Ciò che Dio insegnò a Mosè
    sul monte Sinai e ciò che Mosè scrisse nella Torah
    rappresentano un insieme di fatti che noi condividiamo.
    Un singolo problema, un “ordine del giorno” concordato,
    un insieme di fatti che condividiamo... Questi sono i requisiti
    per una seria e valida discussione: un dialogo.
    Perciò cercherò di narrare le ragioni di questo dissenso,
    descrivendo la maniera in cui avrei discusso con Gesù e
    il modo in cui avrei cercato di convincere, lui e quelli
    che erano con lui, che la loro opinione sulla Torah - di

    31
    ciò che Dio vuole dall’umanità - era sbagliata in punti
    importanti e sostanziali. E perciò, poiché quel particolare
    insegnamento non coincideva affatto con la Torah e con
    il Patto del Sinai, non lo avrei seguito né allora né adesso.
    Ciò non accade perché sono ostinato o incredulo. Accade
    perché credo che Dio abbia dato una Torah diversa
    da quella che Gesù insegna; e quella Torah, che Mosè ricevette
    sul Sinai, si contrappone alla Torah di Gesù, poiché
    essa prescrive il vero e il falso, il giusto e l’erroneo,
    nonostante tutte le altre Torah che la gente vuole insegnare
    in nome di Dio.
    Ciò che voglio discutere con Gesù è in che misura i
    suoi insegnamenti coincidano con la Torah. 11 criterio
    che ho stabilito non è valido per me soltanto, ma lo è anche
    per Gesù, dal momento che Gesù pretende esplicitamente
    di essere venuto a completare la Torah e non a distruggerla.
    Citando le parole di Matteo:
    «Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti;
    non sono venuto per abolire, ma per dare compimento.
    In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra,
    non passerà dalla legge neppure un iota o un segno, senza
    che tutto sia compiuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di
    questi precetti, anche minimi, e insegnerà agii uomini a fare
    altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi
    invece li osserverà e li insegnerà agli uomini,' sarà considerato
    grande nel regno dei cieli. Poiché io vi dico: se la vostra
    giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei,
    non entrerete nel regno dei cieli» (Matteo 5,17-20).
    Pertanto la Torah è un legittimo criterio di verità, dal
    momento che entrambi i partecipanti alla discussione sono
    dello stesso avviso. E si tratta di un problema importante,
    poiché, come vedremo, il Gesù di Matteo insegna
    al popolo a violare almeno tre dei Dieci Comandamenti.
    32
    E io sto per chiedere direttamente a Gesù: «Come puoi
    insegnare alla gente a violare alcuni dei Dieci Comandamenti
    e pretendere, tuttavia, di insegnare la Torah, senza
    tenere conto della Torah di Mosè data da Dio sul Sinai?
    ».
    In quanto ebreo credente e praticante che si rivolge ad
    un personaggio che, nonostante sia stato rappresentato in
    modo diverso, si presenta anche lui come un ebreo praticante
    e osservante, posso domandare se le affermazioni
    di Gesù coincidono con ciò che dice la Torah del Sinai.
    Secondo Matteo, Gesù ed io - in mezzo a tutto l’Israele
    fedele e impegnato - crediamo che Dio ha dato la
    Torah. Gesù ed io - insieme a quelli che si considerano
    figli di Abramo, Isacco e Giacobbe - crediamo che sia
    nostro dovere dare compimento alla Torah. Ciò spiega
    perché, a mio parere, vi possa essere una franca discussione:
    una discussione da svolgersi su un terreno ben delimitato.
    Un dibattito e una discussione presuppongono
    tuttavia un serio rispetto e io intendo esprimere, in ogni
    riga di questo libro, la mia stima per un personaggio di
    considerevole importanza.
    Comprendo che è difficile per i cristiani, oggi come
    tanto tempo fa, dare un senso alla continua vitalità della
    Torah, cioè dell’ebraismo. Per spiegare 1’“incredulità” di
    Israele i cristiani hanno chiamato gli ebrei “perfidi” cioè
    “increduli”; li hanno definiti ostinati e di dura cervice;
    hanno ascritto loro una invincibile ignoranza. I Vangeli
    dividono Israele fra credenti e conniventi e, per venti secoli,
    gli ebrei fedeli alla Torah di Mosè furono chiamati
    assassini di Cristo. C’è stata quindi una certa “impazienza”,
    forse comprensibile, verso di noi, l’Eterno Israele.
    Ritornando a un momento particolare della vita di Gesù -
    quando insegnava in Galilea prima dell’orrore della sua
    crocifissione, ma pure, dal punto di vista cristiano, prima
    33
    del miracolo redentore della sua risurrezione - un’altra
    posizione diviene possibile, al di là di quelle della fede o
    del rifiuto di Gesù come Cristo. È la posizione che assunse
    gran parte dell’Israele che conosceva Gesù quando visse
    ed insegnò e che io stesso assumo in questo libro; né seguirlo
    né tramare contro, ma rispondere gentilmente di no
    e passare oltre, ad altri problemi. Questa posizione diviene
    credibile, se immaginiamo noi stessi in Galilea mentre
    ascoltiamo un maestro che insegna la sua Torah, molto
    prima che egli entri nella storia e nell’eternità.
    Questo incontro con Gesù non potrebbe sembrare allora
    un atto del tutto irrispettoso? Come oso discutere proprio
    con il maestro? La risposta è sia personale sia religiosa;
    ho studiato intensamente per tutta la vita e, se non
    avessi preso sul serio le idee altrui, mi sarei facilmente
    arreso e sarei andato per la mia strada, oppure avrei finto
    di assecondare gli altri. I soli insegnanti dai quali ho appreso
    qualcosa, hanno ascoltato le mie idee e mi hanno
    esposto le loro critiche, ed essi sono gli unici che io abbia
    mai rispettato. Gli studenti di cui ho stima sono quelli
    che io voglio sfidare con la mia scrupolosa attenzione
    per ciò che essi dicono, dunque con la mia più rigorosa
    risposta alle loro idee: la critica.
    Ma la discussione rappresenta ben più di un modo personale
    ed eccentrico di manifestare stima; essa non è
    molto popolare, e uno dei miei amici più stretti in politica
    mi chiama «la persona più litigiosa che io abbia mai
    conosciuto» e lo considera un complimento, in particolare
    per me. Una buona, argomentata discussione è considerata
    dalla Torah il mezzo più giusto di rivolgersi a Dio,
    ossia un atto di grandissima devozione. Abramo, il fondatore
    dell’Eterno Israele, discusse con Dio per salvare
    Sodoma. Mosè discusse di continuo con Dio. Molti profeti,
    come per esempio Geremia, discussero. Perciò il no34
    stro Dio, quello della Torah, è un Dio che si aspetta di
    discutere; e la più profonda affermazione della signoria e
    della volontà di Dio che la Torah contiene - cioè il libro
    di Giobbe - è anch’esso una valida e sistematica discussione
    con Dio.
    Perciò come credente nella Torah, cioè nell’ebraismo,
    approdo ad una posizione completamente differente.
    Nella mia religione, la discussione rappresenta un aspetto
    della liturgia allo stesso titolo della preghiera; una discussione
    argomentata su problemi sostanziali, fondata
    sul rispetto per l’altro e resa possibile dall’accordo sulle
    premesse. Questo tipo di controversia non è soltanto un
    gesto di stima e di rispetto per l’altro, ma offre anche,
    nel contesto della Torah, il dono dell’intelletto sull’altare
    della Torah. Non penso che un non cristiano possa rendere
    un omaggio più sincero a colui che i cristiani conoscono
    come il Cristo se non attraverso una valida, concreta
    discussione.
    Tanto basta per la scelta della discussione. Ma perché
    rappresentare tale discussione? Che cos’è che la rende
    così urgente ora che siamo all’inizio del terzo millennio?
    Per duemila anni entrambe le parti si sono reciprocamente
    ignorate, l’ebraismo diede per scontato che il cristianesimo
    non avesse mai attribuito alcuna importanza alla
    Torah. Il cristianesimo rappresentò l’ebraismo in modo
    così repellente che, in tutta onestà, perché mai una persona
    dabbene avrebbe dovuto instaurare un dialogo con
    quella religione? Perciò perché dovremmo preoccuparci
    di cominciare proprio ora una discussione rimandata per
    quasi duemila anni?
    Dovremmo preoccuparcene, in primo luogo, perché
    nell’America del ventunesimo secolo si sta realizzando il
    dialogo religioso; la nostra innata curiosità americana e
    una fondamentale buona volontà lo ha reso possibile.
    35
    Dovremmo preoccuparcene, in secondo luogo, perché
    nel clima libero della religiosità americana ci si chiede di
    spiegare chi siamo e questo, in un paese a maggioranza
    cristiana, significa: «Perché non siete cristiani come
    noi?».
    Dovremmo preoccuparcene, infine, perché nei diversi
    cristianesimi di questo paese, ce n’è uno che si definisce
    ebraismo, “ebraismo messianico”, che osserva (in tutto o
    in parte) l’ebraismo e crede anche che Gesù sia il Cristo.
    La gente vuole sapere, quindi, perché essi non possano
    essere sia ebrei sia cristiani allo stesso tempo: l’ebraismo
    tradizionale afferma che non possono esserlo. Perché
    no? Che cosa c’è che non va in Gesù? Questa descrizione
    dei problemi, per quanto poco felice, è normale
    nell’ambito delle strettissime relazioni - intellettuali e
    sentimentali - fra ebrei e cristiani, nelle quali prosperiamo
    insieme, grazie alla libera e aperta società americana.
    Allo stesso tempo, i cristiani sono attratti verso l’ebraismo
    per le sue specifiche caratteristiche. E una parte del
    loro interesse nella scelta dell’ebraismo è dovuta al fatto
    che il cristianesimo li porta al Sinai (1’“Antico Testamento”)
    che, per alcuni, si rivela essere l’unica destinazione.
    Così da entrambe le parti assistiamo in questi giorni non
    solo all’incontro di vicini, ma anche alla pretesa di incontrarsi
    nella casa dello stesso Israele.
    Ma c’è un’altra ragione, tuttavia, per uno stretto dialogo
    racchiuso in una solida discussione. La discussione
    rende compagni - come ho detto difendendo l’idea di
    avere un dibattito con un’altra religione - ed ebrei e cristiani
    si incontrano adesso nei matrimoni e nell’allevare
    figli. La casa d’Israele ospita adesso cristiani, figli di cristiani
    e di convertiti dal cristianesimo all’ebraismo. Ebrei
    diventano cristiani, come cristiani diventano ebrei. E lo
    scambio ebraico-cristiano ha luogo, in questi giorni, a
    36
    casa e a letto. Pertanto il matrimonio di ebrei e di cristiani
    va avanti velocemente, con il risultato che l’intimità
    porta a condividere adesso anche le convinzioni religiose.
    Dove trovano allora ebrei e cristiani un punto di mutua
    comprensione? E che cosa hanno da dirsi quando si
    confrontano con le affermazioni fiduciose della religione
    dominante di questo paese?
    Dalla prospettiva della mia religione, noi ebrei troviamo
    assai poco credibili le fondamentali convinzioni dell’altro.
    Con molte di queste affermazioni è difficile dialogare,
    se non attraverso un’argomentata discussione.
    Che cosa farne dell’affermazione che Dio ha una madre
    che lo ascolta? Come dobbiamo comprendere l’affermazione
    che Gesù, unico in tutto il genere umano, fu Dio
    incarnato, proprio “a nostra immagine, a nostra somiglianza”
    - secondo il linguaggio del racconto della creazione
    dell’uomo e della donna della Genesi: Dio incarnato?
    Questa e altre credenze fondamentali del cristianesimo
    sono incomprensibili per coloro che sono fuori dalla
    fede. Da parte loro i cristiani, volendo essere giustamente
    compresi, trovano incomprensibile lo stesso senso di
    identità proprio deU’Eterno Israele. Perciò se gli ebrei
    considerano incomprensibile la concezione di Dio incarnato
    in un solo uomo, i cristiani trovano inattingibile la
    nozione di Popolo di Dio, l’elezione di Israele. Nessuna
    delle due parti può immaginare quindi un’analogia, in
    termini comprensibili, per ciò che è più sacro all’altro. E
    queste idee fondamentali, ognuna delle quali essenziale
    all’autocomprensione dei fedeli, parlano di ciò che è unico
    - cioè di ciò che per definizione può essere compreso
    soltanto per intuizione. Dio incarnato, l’elezione di Israele
    - le verità vincolanti di Cristo da una parte, la Torah
    dall’altra - non possono essere oggetto di una discussione
    ragionata fra noi e gli altri, per esempio, una discus-
    37
    sione per risolvere problemi sulla ragione e sul torto, il
    vero e il falso, una discussione che si basi su premesse
    condivise da entrambi e su argomenti scelti da entrambe
    le parti.
    Ma questa semplice affermazione porta ad uno stallo
    che non possiamo accettare per sempre. Non abbiamo
    niente da dire ai nostri amici, ai nostri vicini, e in non
    pochi casi, anche alle mogli dei nostri figli, ai mariti delle
    nostre figlie o anche ai nostri stessi figli? Ed essi non
    hanno niente da dirci? La nostra situazione in una società
    libera e aperta, con persone che vanno da ogni parte, non
    può tollerare un silenzio irrazionale: voi credete, noi no;
    oppure, ciò che voi credete è ciò in cui noi crediamo.
    C’è un’altra ragione per prendere sul serio il dialogo
    del cristianesimo con l’ebraismo. Avendo ascoltato venti
    secoli di “no”, i cristiani videro naturalmente il popolo di
    Gesù come ostinato e solo negativo. Ma se la negazione
    ha una forte affermazione, c’è per l’ebraismo nell’incontro
    con il cristianesimo più di un semplice no. C’è un no,
    perché... E in questo perché risiede la forte discussione fra
    di noi. Io mi propongo, pertanto, in queste pagine di mostrare
    come Israele, il popolo di Dio, apparirebbe se si potesse
    immaginare una ragionevole discussione fra le cose
    che Gesù insegnò e gli insegnamenti della Torah. Ciò che
    intendo è un dibattito sulla sostanza delle cose, come se
    tutto ciò che è in discussione sia ciò che è vero, alla luce
    del criterio accettato da entrambe le parti: la Torah.
    Ma quali sono le regole per un dibattito franco ed
    equilibrato?
    Prima di tutto entrambe le parti devono parlare dello
    stesso problema. Pertanto, come io ho spiegato in termini
    di casa e di famiglia, ho scelto un racconto di Gesù modellato
    per Israele proprio per confrontarsi: il Vangelo di
    Matteo.
    38
    Una discussione sincera può nascere, dal momento che
    il particolare ritratto che Matteo fece di Gesù proveniva
    da un gruppo ebraico, fu rivolto al resto di Israele e sottolineò
    che egli non era venuto a distruggere, ma a dare
    compimento alla Torah. La ragione è che qui e solo qui,
    una premessa sinceramente condivisa - la Torah - giudica
    tutti gli insegnamenti e le azioni, ponendo le basi per
    una discussione: la possibilità di fare riferimento a una
    singola fonte di verità. Su che cosa l’Eterno Israele può
    discutere con Paolo e Giovanni?
    Per loro tutti i problemi che Matteo ha sollevato sono
    stati risolti: il Gesù di Paolo è risorto dai morti; il Gesù
    di Giovanni sta fuori da Israele e descrive “i Giudei” come
    l’altro e come il nemico. Il Gesù di Matteo è descritto,
    al contrario, come uno di noi.
    In secondo luogo, ciascuna delle parti che partecipa alla
    discussione deve accettare la buona fede dell’altra. La
    quasi totalità della letteratura polemica cristiana sull’ebraismo
    e gran parte degli studiosi cristiani, anche ai nostri
    giorni, nega all’ebraismo qualsiasi rispetto. Nessun
    dialogo è possibile con questa letteratura. Non solo non
    avremmo nessuna ragione per parlare con loro, ma perché
    essi vorrebbero parlare con noi, visto e considerato
    che descrivono l’ebraismo come un mostro? Per esempio,
    non posso immaginare una discussione con il Gesù
    di Giovanni, poiché l’Eterno Israele è trattato in Giovanni
    con odio evidente. Ma non è il caso del Vangelo di
    Matteo.
    Matteo presenta più di una figura soprannaturale. Il
    suo Gesù della casa di Davide non soltanto compì miracoli,
    ma morì, passò tre giorni negli “Inferi”, poi risuscitò
    dai morti, lasciando una tomba vuota. Lo scritto di
    Matteo offre anche, come prova del perché dovrei riconoscere
    Gesù come il Cristo, gli insegnamenti che Gesù
    39
    espose mentre era qui in terra fra di noi. È giusto e opportuno,
    perciò, che io esamini alcuni di questi insegnamenti
    e che mi chieda se essi mi obblighino, all’interno
    dell’Eterno Israele, ad accettarli come parte della Torah.
    E questo è proprio ciò che mi propongo di fare. Facendo
    questo, considero valide le convinzioni fermamente
    accettate dell’altro che superano l’esame di un outsider,
    oppure le metto da parte in quanto non pertinenti alla domanda
    alla quale sono chiamato a rispondere: fate la vostra
    scelta.
    Terzo, ciascun partecipante alla discussione deve rispetto
    all’altro. I cristiani che adorano Gesù Cristo considereranno
    questa prolungata discussione con l’uomo che
    essi venerano come Dio incarnato come una strana forma
    di rispetto e non si sbagliano. Nella polemica ebraica
    contro il cristianesimo e nella polemica cristiana contro
    l’ebraismo nessuno ha mai affermato prima d’ora che noi
    discutiamo sulle stesse cose e soltanto su queste cose, facendo
    ricorso esclusivamente alla stesso criterio di verità.
    Ciò può rendere strano questo libro. Ma, ancora, come
    posso discutere con Dio incarnato? Evidentemente,
    come ho detto, una volta che Dio incarnato dice di fare
    una cosa invece di un’altra, ricorrendo alla Torah come
    criterio che conferma questa affermazione, allora è giusto
    e corretto discutere.
    Ancora una volta, nell’ebraismo, il dibattito rappresenta
    un modo importante della discussione religiosa; il modo
    in cui parliamo con gli altri dimostra il nostro rispetto
    e la nostra stima verso di loro. Un precetto religioso fondamentale
    nell’ebraismo esige lo studio della Torah e
    gran parte dello studio della Torah esige il dibattito: il dibattito
    e la discussione sulle asserzioni, sulle prove, sulla
    validità dell’analisi, su ciò che facciamo in ogni campo
    del sapere. Io trascorro la mia vita studiando la Torah (in
    modo particolare) e sono abituato a coniugare il mio impegno
    religioso, espresso in un serio confronto con l’intelligenza
    e con le idee dell’altro, con la mia professione
    mondana che mi chiede di valutare seriamente il punto di
    vista dell’altro.
    Riguardo a questo aspetto chiedo al cristianesimo di
    adottare una caratteristica della tradizione ebraica; come
    i cristiani, noi diamo importanza alla ragione e alla fede
    razionale. Esse formano nei nostri libri sacri una delle
    grandi tradizioni intellettuali dell’umanità. Il più influente
    libro dell’ebraismo è il Talmud di Babilonia (datato
    verso il 600 d.C.) che è un prolungato commento su
    un codice filosofico chiamato Mishnah (datato verso il
    200 d.C.). Il Talmud è semplicemente una lunga discussione,
    o piuttosto, sono appunti che ci permettono oggi
    di ricostruire la discussione svoltasi tempo fa. E dall’epoca
    in cui il Talmud raggiunse la sua forma finale,
    chiunque lesse lo scritto non solo ascoltò la discussione,
    ma cercò di parteciparvi. La vita religiosa della Torah -
    cioè dell’ebraismo - prende perciò la forma di una lunghissima
    discussione su questo e su quello. Altre persone
    trascorrono molto tempo nella lettura dei Salmi o nella
    preghiera e molti ebrei lo fanno. Ma la vera élite della
    nostra fede, i maestri (e adesso anche le maestre) della
    Torah passano lunghe ore a dibattere le affermazioni
    della Torah, esposte nella Mishnah e nel Talmud. Questa
    è la nostra più solenne azione nel servire Dio, una volta
    che abbiamo compiuto il nostro dovere verso gli altri
    uomini.
    Perché questo? Perché noi diamo valore all’uso dell’intelligenza,
    allo scambio di pensieri, di affermazioni,
    di ragioni, di prove, di analisi; noi consideriamo la discussione
    un esercizio nell’uso di ciò che ci fa simili a
    Dio, cioè la nostra intelligenza. Qualora se ne presentas-
    41
    se l’occasione, discuterei volentieri con Dio, proprio come
    fecero i grandi rabbini del Talmud: dunque perché
    non posso discutere con il Dio incarnato? Come potrei
    dimostrare meglio il mio rispetto verso quella religione e
    verso quel personaggio se non facendo del mio meglio in
    risposta al suo meglio?
    La discussione, come ho detto, è un gesto di rispetto,
    non di offesa. Abramo incontrò Dio faccia a faccia a Sodoma;
    Mosè insistè per vedere Dio, anche nella fessura
    della roccia; i profeti e Giobbe, dopo tutto, fanno parte
    anche della nostra Torah. E la stessa Torah orale, quella
    che ricevemmo dal Sinai ci insegna le regole di una discussione
    ragionata sulle cose sacre, fra persone che credono
    di servire Dio nell’esercizio della loro ragione applicata
    e della pratica nello studio della Torah. Quando
    saliremo in cielo, alcuni di noi almeno sperano di entrare
    nell’accademia di lassù, la celeste Yeshivà1 e di prendere
    parte alle discussioni di Mosè, nostro maestro, e dei grandi
    saggi.
    Nell’ottica di questa religione non c’è gesto di stima
    più grande che una discussione. Respingo quell’atteggiamento
    del dialogo ebraico-cristiano che per secoli, da
    parte ebraica, è consistito: 1) nell’affermare che il cristianesimo
    non esiste; 2) nel sostenere che, se il cristianesimo
    esiste, non cambia nulla per l’ebraismo (nel linguaggio
    dell’ebraismo, per “la Torah”)', 3) nel raccontare
    storielle di cattivo gusto sulla figura di Gesù. Mi disgustano
    le opere che screditano le religioni e gli uomini e le
    donne di fede; condivido sia l’offesa patita dall’Islam per
    la percezione musulmana dei Versetti Satanici di Rushdie
    (se questo giudizio sia reale o meno non è qui in discussione),
    sia la profonda offesa avvertita dai cristiani
    1 Yeshivà: scuola di studi talmudici (N.d.C.).
    42
    per le spregevoli rappresentazioni di Gesù che di tanto in
    tanto ricevono grande attenzione. Prestando servizio in
    organismi statali legislativi, ho condiviso la posizione dei
    cristiani che contestarono la concessione di fondi statali
    usati per diffamare la loro fede e il suo fondatore. Gli atti
    pubblici sono chiari: ne ho pagato volentieri il prezzo.
    Non voglio pertanto recare offesa, ma discutere. Ciò
    spiega ancora una volta perché enucleo ai fini della discussione
    solo questa componente terrestre di una figura
    completamente sovrannaturale - e nessuno può avvicinarsi
    al Gesù di Matteo senza essere d’accordo che nella
    mente dell’Evangelista, prima che nella nostra, è Dio incarnato.
    In ogni riga di queste pagine mi rendo conto di
    scrivere sul Dio di altri, al quale sono indirizzate tante
    preghiere e consacrate tante vite, non ad un uomo, ma a
    Dio incarnato, a cui grandi masse di uomini rivolgono la
    loro speranza di vita eterna.
    Non dubito affatto della fede del credente. Né è compito
    dell 'outsider giudicare la fede di altre persone. Sarei
    orgoglioso se i lettori cristiani rispondessero: «Sì, abbiamo
    valutato i problemi che tu hai sollevato e, dopo averci
    riflettuto e discusso mentalmente con te, confessiamo
    con forza maggiore di prima la nostra fede in Gesù Cristo
    ». E niente mi farebbe più felice che sentir dire dai
    lettori ebrei: «Ora comprendiamo perché siamo così; e
    siamo orgogliosi di essere così».
    In questa discussione non mi interessa vincere. Essa
    vuole spiegare sia agli ebrei sia ai cristiani l’altra posizione,
    quella della Torah, che gli ebrei hanno sostenuto per
    quasi duemila anni da quando andarono per la propria
    strada e scelsero di non seguire affatto Gesù. Lo affermo
    senza scuse, senza inganno, senza infingimento. Ciò che
    faccio è riaffermare semplicemente la Torah del Sinai sopra
    e contro il Gesù di Matteo. Mosè non pretenderebbe
    43
    di meno da uno di noi oppure il Gesù di Matteo, a mio
    parere, di più. Così quando io dico che, se quel giorno
    avessi ascoltato quelle parole, avrei proposto una discussione,
    è con l’uomo vivente, mortale, che cammina fra di
    noi, che parla fra di noi, che voglio discutere. Se avessi a
    disposizione solo queste parole, senza genealogia, miracoli,
    crocifissione, risurrezione, intronizzazione alla destra
    di Dio, quale risposta avrei dovuto trovare? Non saprei.
    Non avrei lodato il grande maestro e rabbino e non
    avrei affermato neppure che se non era il Messia, fu almeno
    un profeta. È insincero offrire a Gesù una posizione,
    dentro l’ebraismo, che il cristianesimo trova banale e
    fuori luogo. Se Gesù non è il Messia, Dio incarnato, allora
    a quale grande problema di fede appartiene quello che
    10 chiamo l’insegnamento di un rabbino o di un profeta?
    Queste concessioni evadono il problema in maniera insincera.
    Esse nascondono un rifiuto più sincero: si può
    ammettere che Gesù sia stato qualsiasi cosa fuorché ciò
    che il cristianesimo ha preteso, cioè il Cristo, il Messia,
    11 Dio incarnato. Perciò né in passato né oggi è mai stata
    tentata una solida discussione con quella componente del
    cristianesimo, Gesù Cristo, Dio incarnato, che l’ebraismo
    deve affrontare: voi pensate, a mio giudizio, di sapere
    il perché. Molte generazioni di apologisti ebraici hanno
    lodato insinceramente questo “taumaturgo galileo”,
    ponendolo nella tradizione di Elia, dei rabbini chassidici
    del diciottesimo secolo e oltre. Altre generazioni hanno
    esaltato Gesù come un grande rabbino. Questo schivare
    le pretese cristiane di rappresentare la verità non serviranno
    più. Il cristianesimo non crede in un taumaturgo
    galileo, né venera un rabbino. Da parte mia non sfuggirò.
    Neppure però farò concessioni. Non loderò con complimenti
    esagerati, irrilevanti il Dio di qualcun altro: è degradante
    e disonesto.
    44
    In conclusione, pertanto, rivolgendomi agli insegnamenti
    di Gesù come Matteo lo ritrae, rivolgo una seria
    attenzione a qualcosa che, finora, ha trovato scarsa attenzione
    fra gli ebrei. Fino ad oggi, infatti, gli ebrei hanno
    respinto il cristianesimo senza fare molta attenzione a
    ciò che Gesù insegnò in particolare. Dal primo secolo ad
    oggi, quando gli ebrei hanno risposto a Gesù, hanno risposto
    al cristianesimo considerato come un tutto, alla
    sua ricca e complessa visione dell’uomo e al suo significato.
    Conoscendo bene che cosa accadde dopo - dalla
    prospettiva cristiana, la sua morte e risurrezione, la fondazione
    della sua Chiesa, l’espansione della Chiesa su
    tutta la terra - gli ebrei a fatica hanno immaginato e raramente
    hanno intrapreso il più modesto ma più credibile
    confronto di idee sugli elementi di prova a favore di Gesù
    in quanto Cristo.
    Piuttosto che esaminare il racconto di Gesù secondo
    Matteo, come fanno gli studiosi, lasciatecelo godere, lasciateci
    immaginare di parteciparvi. Matteo fu, infatti, un
    grande narratore e lo dimostra il fatto che, dalla sua epoca
    fino alla nostra, i lettori hanno reagito con profonda
    emozione alla storia che egli racconta. Perciò, perché
    non possiamo apprezzare e godere fino in fondo la storia?
    D’ora in poi, rinuncerò alle citazioni erudite sul
    “Gesù di Matteo”. Questo non è un libro di erudizione:
    non elencherò nemmeno i libri letti nel tentativo di capire
    il Vangelo di Matteo; né questo è un libro sul Vangelo
    di Matteo. Questo è un libro sull’incontro di due fedi e,
    in ogni caso, ognuno comprende che il Gesù di Matteo è
    solo uno dei racconti del Gesù che visse effettivamente e
    insegnò, fece miracoli e prodigi, formò discepoli, patì
    sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, risuscitò dai morti ed
    ora siede sul trono nell’alto dei cieli. La strada di Matteo
    è perciò solo una delle tante.
    45
    Eppure intendo leggerla in questo modo, come una
    parte della Bibbia cristiana, come i fedeli nelle chiese e
    come fanno anche gli ebrei quando aprono il Nuovo Testamento,
    piuttosto che alla maniera altrettanto valida dei
    teologi nelle università e nei seminari. La mia discussione
    si svolge con il Gesù che il fedele cristiano venera,
    quello a lui noto dai grandi racconti e, fra gli altri, in particolare
    da quello scritto per gli ebrei. Adesso, allora,
    prendiamo parte alla storia che Matteo racconta su Gesù,
    parlando delle cose che il narratore ci narra come se fossero
    proprio là, davanti a noi. Conosciamo soltanto due
    cose: la Torah e le cose che Matteo narrò di Gesù - e
    niente di più.
    «Vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna e messosi
    a sedere, gli si avvicinarono i discepoli. Prendendo la parola
    li ammaestrava, dicendo...». Arriviamo immediatamente
    a quella montagna in Galilea dove Gesù espose il
    nucleo del suo insegnamento. Siamo ai piedi della montagna.
    Guardando in alto, vediamo la figura dell’uomo.
    Egli dice molte cose. Noi possiamo afferrarne solo alcune
    - noi, l’Eterno Israele, che ricorda quell’altra montagna,
    il Sinai - e ciò che Dio ordinò a Mosè.
    46

    3

    «NON PER DISTRUGGERE,
    MA PER COSTRUIRE»

    CONTRO
    «VOI AVETE SENTITO DIRE, MA IO VI DICO...»
    «Non pensiate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti;
    non sono venuto per abolire, ma per dare compimento.
    In verità vi dico: finché non siano passati i cieli e la terra,
    non passerà dalla legge neppure uno iota o un segno, senza
    che tutto sia compiuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di
    questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare
    altrettanto, sarà considerato minimo anche nel regno dei
    cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini, sarà
    considerato grande nel regno dei cieli. Poiché vi dico: se
    la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei,
    non entrerete nel regno dei cieli»
    (Matteo 5,17-20).

    Non sarebbe servito un lungo viaggio per incontrare il
    maestro. Era dovunque. Per ascoltare tutto il messaggio
    dovetti aspettare, tuttavia, fino al giorno in cui salì sulla
    montagna e parlò là ai suoi discepoli, facendosi ascoltare
    anche da coloro che non lo conoscevano. Da parte mia
    andai anch’io, curioso di sapere come la Torah avrebbe
    governato la mia vita in quel luogo e in quel momento.
    E feci bene ad andare. Quello che egli disse quel giorno,
    infatti, arrivato fino a noi sotto il nome di “Discorso
    della Montagna” e contenuto in Matteo 5,1 - 7,29, costi-
    47
     
    .
  4.  
    .
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    אילון

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    tuisce il nucleo principale degli insegnamenti di Gesù.
    Essi sono formati da affermazioni ben ordinate con le
    quali si può discutere, a differenza dei miracoli di Gesù,
    della storia della sua vita, delle cose che fece e, naturalmente,
    delle sue sofferenze sulla croce, della morte e
    della risurrezione: «Egli non è qui. È risorto» (Matteo
    28,6).
    Tutte queste parti del Vangelo, cioè della Buona Novella,
    hanno un senso per i credenti, poiché è al credente
    che Matteo annuncia la Buona Novella. Ma Gesù, seduto
    insieme ai suoi discepoli sulla montagna, insegna a loro
    - ma anche a noi che assistiamo alla sua torcili (insegnamento).
    E qui che egli dice alla gente come stanno le cose,
    che cosa dovrebbe fare, come Dio desidera che essa
    viva. E l’insegnamento (torah) di Gesù è importante e,
    per sua esplicita ammissione, controverso. Egli invita,
    perciò, alla discussione, aprendo la strada alla discussione,
    come fa ogni insegnante che intende cambiare la
    mente delle persone, per non parlare delle loro vite. Lasciatemi,
    perciò, partecipare alla discussione su quei problemi
    specifici che toccano la mia vita e il mio mondo,
    che furono formulati sul Sinai.
    Quando ascoltiamo Gesù per la prima volta egli sta
    parlando del regno di Dio invece che di se stesso. Si tratta
    per me di una preoccupazione ben nota, perché la Torah
    l’ha resa anche mia. Quando accetto il giogo dei comandamenti
    della Torah e li metto in pratica, accetto il
    dominio di Dio. Vivo nel regno di Dio, cioè nel regno dei
    cieli, qui sulla terra. In questo consiste per me vivere una
    vita santa: vivere secondo la volontà di Dio qui ed ora.
    Dal punto di vista dell’Eterno Israele e del suo Patto
    con Dio, questo messaggio conquista di certo la nostra
    approvazione, poiché la Torah struttura la vita di Israele
    come un regno di sacerdoti e un popolo santo posti sotto
    il dominio di Dio; quest’ultimo si attua per mezzo di un
    profeta, lo stesso Mosè, e per mezzo del sacerdozio fondato
    da Aronne, fratello di Mosè, ma di ordinazione divina.
    Quando recitiamo la preghiera «Ascolta o Israele, il
    Signore è il nostro Dio, il Signore è uno» (Deuteronomio
    6,4-9) - che è chiamata Shema’ dalla parola iniziale
    «Ascolta» - noi diciamo a noi stessi, al pari dei maestri
    della legge, che così facendo «accettiamo il giogo del regno
    dei cieli». In altre parole: accettiamo i comandamenti
    che Dio ci ha dato nel Patto del Sinai. Sia in questo caso,
    sia quando Gesù propone di insegnare la Torah a
    Israele, delle sezioni importanti del suo insegnamento risultano
    assai familiari. All’inizio, inoltre, egli afferma
    che non è sua intenzione abolire la Torah e i Profeti, ma
    dare loro compimento. La Torah rimane valida: questo è
    il suo messaggio e su questa base vengo ad ascoltare.
    Egli ha diritto ad essere ascoltato attentamente.
    Sono qui, ascolto parole che impressionano, sto a sentire
    con fiducia. Gesù inizia la sua predicazione del Vangelo
    del regno con un messaggio sul quale nessun discepolo
    di Mosè avrebbe trovato qualcosa da obiettare:
    «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli;
    beati i miti perché erediteranno la terra» (Matteo 5,3).
    «Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia perché
    saranno saziati. Beati i misericordiosi perché riceveranno
    misericordia. Beati i puri di cuore perché vedranno Dio.
    Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli
    di Dio» (Matteo 5,5-9). Non posso pensare di discutere
    simili insegnamenti che mantengono la promessa della
    Torah: «Colui che li esegue e li insegna sarà chiamato
    grande nel regno dei cieli».
    Nel contesto di Matteo, tuttavia, che cosa viene dopo?
    «Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e,
    mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per
    causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la
    vostra ricompensa nei cieli. Così infatti hanno perseguitato
    i profeti prima di voi» (Matteo 5,11-12). Perché dovrebbero
    essere perseguitati i discepoli di chi benedice i
    puri di cuori, gli operatori di pace e i poveri in spirito?
    L’attenzione di Gesù si è adesso spostata, tuttavia, dai
    poveri in spirito, da quelli che sono in lutto, dai miti, da
    quelli che hanno fame e sete di giustizia e dai misericordiosi
    a “voi”. Questo evidente contrasto richiama la mia
    attenzione. Ascoltando con attenzione presagisco delle
    controversie, ma non ne vedo il motivo. Il “voi” sposta il
    discorso, infatti, da tutti noi ebrei, l’Eterno Israele di oggi,
    verso quelli che sono perseguitati a causa di Gesù.
    Non c’è niente nel messaggio del maestro che mi porta a
    sollevare obiezioni su un singolo punto di ciò che ha detto.
    Nessuno dei suoi insegnamenti spiega perché questo
    maestro speciale dovrebbe ammonirmi sul fatto che seguirlo
    mi esporrà, in futuro, alle persecuzioni.
    Mi sento rassicurato quando sento dire: «Non pensiate
    che io sia venuto ad abolire la Legge e i Profeti; non sono
    venuto ad abolirli, ma a dare loro compimento». E
    questo significa che se c’è un rifiuto o una persecuzione,
    non è dovuta al conflitto fra ciò che ho ascoltato da lui e
    ciò che ho ascoltato dal Sinai. Da dove ha origine, perciò,
    la persecuzione, perché essere consolati per aver sofferto
    per lui? Il saggio stesso ne spiega, di fatto, il motivo.
    Il contrasto fra il messaggio che echeggia dal Sinai e
    ciò che sto ascoltando oggi è descritto esplicitamente. Mi
    è stato detto di prepararmi ad ascoltare qualcosa di nuovo,
    di originale, di più importante di ciò che era avvenuto
    in passato e, tuttavia, conforme alla Torah rivelata da
    Dio a Mosè sul Sinai. Il saggio si fissa un obiettivo importante
    che ogni saggio nella propria generazione
    50
    avrebbe accettato: ricevere una tradizione integra e perfetta,
    non trasmetterla mai uguale, ma sempre inalterata
    così da assumere il posto legittimo nella catena di tradizione
    dal Sinai.
    Il compito di ciascuna generazione è pertanto, secondo
    la frase iniziale del trattato della Mishnah chiamato Avot
    - i detti dei Padri dell’ebraismo - , quello di ricevere e di
    trasmettere la tradizione. La Mishnah è un codice di leggi,
    completato verso il 200 d.C., che rappresenta il primo
    scritto normativo e canonico dell’ebraismo dopo la Bibbia.
    L’ebraismo che fa ricorso alla Mishnah non riconosce
    altri libri sacri fra le Sacre Scritture o “Antico Testamento”
    e quel documento; tutti i libri sacri più tardi cominciano
    con la Bibbia o con la Mishnah. Quest’ultima
    è lo scritto più importante dell’ebraismo dopo la Torah.
    Il trattato in questione espone principi di fede e importanti
    regole di condotta. Il testo comincia con queste parole:
    «Mosè ricevette la legge al Sinai e la trasmise a Giosuè,
    Giosuè agli anziani e gli anziani ai profeti. I profeti la trasmisero
    agli uomini della grande assemblea. Essi solevano
    dire tre cose: siate cauti nel giudizio, educate molti discepoli,
    fate una siepe alla legge» (.Avot 1,1).
    È giusto e opportuno, pertanto, per il saggio riceverne
    e trasmetterne il senso, assumere l’eredità del Sinai e trasmetterla
    alla generazione successiva, insieme a qualcosa
    che egli stesso ha aggiunto. Dal momento che gli uomini
    della grande assemblea non hanno affermato di citare la
    Scrittura, ma di contribuire con il proprio insegnamento
    alla catena di tradizione, mi aspetto da Gesù non soltanto
    una ripresa, una semplice parafrasi della Scrittura, ma
    qualcosa di originale e di nuovo, ma che sia pur sempre
    51
    parte integrante della Scrittura ricevuta. Mi aspetto ciò
    che egli offre: ricevere la Torah, ma anche ascoltare il
    rinnovamento della Torah da parte di questo maestro.
    Sono a mio agio, dunque, quando viene esposta una
    serie di lezioni, ognuna delle quali introdotta dall’affermazione
    che Gesù insegna una verità più importante di
    quelle che hanno insegnato i maestri che lo hanno preceduto.
    Cinque frasi, fra quelle citate per dimostrare la volontà
    di «non abolire, ma di dare compimento alla Legge
    e ai Profeti», attirano la mia attenzione:

    1 «Avete inteso che fu detto... “Non uccidere...”. Ma io
    vi dico che chiunque si adira con il proprio fratello sarà
    sottoposto a giudizio» (Matteo 5,21-22).

    2 «Avete inteso che fu detto: “Non commettere adulterio”.
    Ma io vi dico che ciascuno che guarda una donna
    per desiderarla ha già commesso adulterio con lei nel
    suo cuore» (Matteo 5,27-28).

    3 «Avete anche inteso che fu detto agli antichi: “Non spergiurare,
    ma adempì i tuoi giuramenti con il Signore”.
    Ma io vi dico: non giurate affatto» (Matteo 5,33-34).

    4 «Avete inteso dire: “Occhio per occhio, dente, per dente”.
    Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se
    qualcuno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche
    l’altra» (Matteo 5,38-39).

    5 «Voi avete inteso dire: “Amerai il tuo prossimo e odierni
    il tuo nemico”. Ma io vi dico: amate i vostri nemici
    e pregate per quelli che vi perseguitano... Siate voi
    dunque perfetti come perfetto è il Padre vostro celeste
    » (Matteo 5,43-44; 48).

    Dobbiamo distinguere la sostanza di ciò che Gesù dice
    dalla forma delle sue affermazioni; il messaggio giustifica
    la mia fiducia, ma mi lascia, naturalmente, più perplesso
    di prima sull’eventuale valenza polemica di questi
    saggi e profondi commenti dei detti scritturistici. L’insegnamento
    di un maestro è di certo conforme alla Torah, e
    la rivelazione di Dio a Mosè sul Sinai lascia spazio in
    tutte le epoche agli insegnamenti dei saggi. Le affermazioni
    di Gesù in questi detti investono direttamente il
    cuore del messaggio della Torah.
    Per dimostrare concretamente di non «abolire la Legge
    e i Profeti, ma di dare loro compimento», Gesù espone
    una serie di insegnamenti che, messi insieme, esigono,
    nei confronti della Torah, un impegno più profondo di
    quello che la gente aveva compreso. Non basta da parte
    mia non uccidere: io non devo nemmeno oltrepassare
    quello stadio d’ira che porta, in ultima analisi, all’omicidio.
    Non è sufficiente da parte mia non commettere adulterio:
    non devo nemmeno incamminarmi sulla strada che
    conduce fino al l’adulterio. Non basta da parte mia non
    spergiurare in nome di Dio: non devo giurare affatto.
    Queste affermazioni rappresentano un’elaborazione di
    tre dei Dieci Comandamenti (più tardi ne incontreremo
    altre due). Abbiamo visto in precedenza che il trattato
    Avot, ascritto dalla tradizione a rabbini vissuti assai prima
    dell’epoca di Gesù, consiglia di «fare una siepe intorno
    alla legge», cioè di comportarsi in modo da evitare
    non solo il peccato, ma persino le cose che possono condurre
    al peccato.
    Ricercando la riconciliazione, mi metto al riparo dalla
    volontà di uccidere; per mezzo della castità di pensiero,
    mi metto al riparo dal consumare l’adulterio; non giurando
    mi metto al riparo contro i giuramenti falsi. Questo è
    un messaggio che vale la pena ascoltare, che spiega il
    53

    contrasto piuttosto strano fra quello che io ho ascoltato e
    quello che ascolto ora. Si tratta di uno stratagemma intelligente,
    però, per attirare la mia attenzione; è riuscito nell’impresa
    e ne sono molto impressionato. I rabbini avrebbero
    raggiunto, indubbiamente, nei grandi testi rabbinici
    posteriori la stessa conclusione per evitare l’ira, la tentazione,
    i voti e giuramenti, ma questo fatto non rientra nella
    nostra discussione. Degno di maggior attenzione è invece
    il fatto che molti insegnamenti dei libri sapienziali e
    profetici, per esempio il libro dei Proverbi, portano alla
    stessa lodevole conclusione; il Signore odia, per esempio,
    un falso testimone, odia che tu desideri in cuor tuo la bellezza
    di una donna cattiva e non permette che tu sia adescato
    dai suoi sguardi (cfr. Proverbi 6,25-26), e così via.
    Ma non basta: l’insegnamento della Torah, attraverso
    la sua parafrasi, formerà più tardi una “siepe” di insegnamenti
    rabbinici. Possiamo far riferimento, infatti, a un
    grande maestro, Johanan ben Zaccai (il nome è strano:
    “Johanan” significa Giovanni e “ben Zaccai” può tradursi
    “il giusto”; da qui “Giovanni il Giusto”, che suona meno
    stravagante) per ritrovare, nei detti attribuiti a lui ed ai
    suoi discepoli, lo stesso programma: riaffermare in termini
    concreti e in un contesto più profondo le richieste
    della Torah del Sinai. Una rapida occhiata alla maniera
    in cui egli insegnò ai suoi discepoli e alla loro maniera di
    parafrasare gli insegnamenti della Torah per farli allo
    stesso tempo, più concreti e più profondi, dimostrerà
    perché mi sento tanto a mio agio, ascoltando le parole
    dalla montagna in Galilea:

    «Rabban Johanan figlio di Zaccai ricevette la tradizione da
    Hillel e da Shammài. Egli diceva: “Se tu hai studiato molto
    la santa Legge non fartene un merito, perché a tal uopo fosti
    creato”.
    54

    Cinque discepoli ebbe Rabban Johanan ben Zaccai, e questi
    sono: R. Eliezer figlio di Ircano; R. Giosuè figlio di Hananià;
    Rabbi Josè il Sacerdote; R. Simeone figlio di Netanèl e
    Rabbi Eleazaro figlio di Aràch...
    Ei disse loro: “Considerate un po’ quale sia la via retta a cui
    l’uomo debba attenersi”. R. Eliezer disse: “Un buon occhio”.
    R. Jehoshua disse: “Un buon compagno”. R. Josè
    disse: “Un buon vicino”. R. Simeone disse: “Essere previdente”.
    R. Eleazaro disse: “Un buon cuore”. Ei disse loro:
    “Io approvo la sentenza di R. Eleazaro figlio di Aràch, più
    che le vostre sentenze, perché nelle sue parole sono comprese
    anche le vostre”. Ei disse loro altresì: “Considerate un
    po’quale sia la via cattiva da cui l’uomo deve tenersi lontano”.
    R. Eliezer disse: “Un cattivo occhio”. R. Giosuè disse:
    “Un cattivo compagno”. R. Josè disse: “Un cattivo vicino”.
    R. Simeone disse: “Prendere a prestito e non pagare...”. R.
    Eleazaro disse: “Un cattivo cuore”. Ei disse loro: “Io approvo
    la sentenza di R. Eleazaro figlio di Aràch più che le vostre
    sentenze, perché nelle sue parole sono comprese anche
    le vostre”.

    Essi dicevano tre cose: R. Eliezer diceva: “ti sia l’onore del
    tuo prossimo altrettanto caro che il tuo; non lasciarti trasportare
    facilmente dall’ira; fa’ penitenza un giorno prima
    della tua morte...”. Rabbi Josè diceva: “Gli averi del tuo
    prossimo ti siano altrettanto cari quanto i tuoi; metti ogni
    tua disposizione nello studio della Legge, perché essa non ti
    può essere lasciata in retaggio, e tutte le opere tue sian&a
    fine di Dio”» (Mishnah, Trattato Avot 2,8-13; traduzioni
    italiana di V. Castiglioni, Mishnaiot - Ordine Quarto: Nezikin,
    Roma 1962, pp. 293-294).

    Se volessi spiegare il significato del grande comandamento
    «Tu amerai il tuo prossimo come te stesso» (Levitico
    19,18), non potrei far di meglio che rivolgermi ai discepoli
    di Johanan ben Zaccai. La frase finale mi avvicina
    alla sua massima estensione: «amare il mio prossimo
    55
    come me stesso» significa che debbo prendermi cura dell’onore
    del mio vicino come del mio onore, del denaro
    del mio vicino come del mio. Né Gesù né i discepoli di
    Johanan ben Zaccai menzionano passi della Scrittura o
    esempi. I discepoli replicano alle domande del maestro;
    Levitico 19,18 non viene citato, ma è ben presente. Reso
    alla maniera in cui Matteo presenta Gesù, dovrebbe suonare
    così: «Avete inteso che fu detto: “Amerai il prossimo
    tuo come te stesso”. Ma io vi dico: l’onore del tuo
    prossimo ti sia caro quanto il tuo».
    «Avete inteso che fu detto: “Amerai il tuo prossimo
    come te stesso”. Ma io vi dico: il denaro del tuo prossimo
    ti sia caro come il tuo».
    Voi comprendete che cosa intendo dire quando affermo
    che il messaggio riscuote la mia fiducia, ma che la
    sua forma è scioccante. Facendo ricorso alla Torah e
    spiegando che capirne le vere richieste travalica la comprensione
    attuale della gente, Gesù raggiunge lo scopo
    che i saggi si erano prefissi, che consiste non solo nel ricevere
    la Torah, ma anche nel trasmetterla. E ciò significa
    non solo ripetere o parafrasare, ma anche insegnare,
    spiegare, estendere, ampliare, arricchire. In questi detti è
    proprio questo ciò che Gesù realizza.
    Ciò non significa che tutto quello che ho ascoltato nella
    frase: «Voi avete inteso che fu detto» è addirittura migliore
    dell’insegnamento a me familiare. Cerco invano
    fra queste affermazioni l’ovvia conferma all’affermazione
    di Gesù di non essere venuto a distruggere, ma a dare
    compimento. Perché la quarta e la quinta affermazione
    presentano, infatti, un problema diverso. Non bisogna resistere
    al male? La Torah e i Profeti affermano il contrario.
    Nessuno pensava, ovviamente, che sarebbe stata giusta
    la precisa retribuzione fisica: il risarcimento in denaro
    per lesioni personali non sorprende nessuno.

    Ma non resistere a chi è cattivo non ha a che fare con
    «occhio per occhio». Questo non rientra nella categoria
    di «fare una siepe intorno alla legge». È un dovere religioso
    resistere al male, combattere per il bene, amare
    Dio e combattere quelli che diventeranno nemici di Dio.
    La Torah non conosce l’idea di non resistere al male e
    non ha stima né del codardo che si sottomette al male, né
    del superbo che considera poco consono alla propria dignità
    opporsi al male. Restare passivi di fronte al male fa
    il gioco del male. La Torah richiede sempre dall’Eterno
    Israele di combattere per la causa di Dio; la Torah ammette
    la guerra, riconoscendo l’uso legittimo della forza.
    Trovo sorprendente, perciò, l’affermazione di Gesù che è
    un dovere religioso piegarsi di fronte al male.
    Il libro dei Proverbi ci insegna, invero, che «una risposta
    gentile calma la collera» (Proverbi 15,1). Chiunque
    conosce questo versetto lo avrà paragonato al suo allargamento
    da parte di Gesù. Non dovremmo ignorare,
    inoltre, un altro versetto del libro dei Proverbi, che recita:
    «Se il tuo nemico ha fame, dagli pane da mangiare; se
    ha sete, dagli acqua da bere; così ammasserai tu stesso
    carboni ardenti sul suo capo e il Signore ti ricompenserà
    » (Proverbi 25,21-22). Questo consiglio, per quanto
    sottile, ci prepara a fatica al comandamento: «Non opponete
    resistenza a chi è malvagio», che esige qualcosa di
    completamente diverso.

    La quinta affermazione cita un detto assente nella Torah,
    che non prescrive in nessun comandamento di odiare
    i propri nemici. L’insegnamento dei rabbini posteriore
    sostiene: «Odia il male, non colui che lo fa». Chiunque
    conosca la Torah si chiederà stupito dove avremmo dovuto
    ascoltare questo comandamento che Dio non comandò
    a Mosè di dirci. I nemici di Dio rappresentano
    però un altro problema e dobbiamo resistere contro questi,
    come fa lo stesso Gesù in altre parti del racconto. Ma
    non basta: la Torah ci dice chiaramente di combattere
    contro i nemici di Dio. Fra i molti ne ricordiamo solo
    due: Amalek e Core.
    Nel tentativo di dare un senso a questi due casi, trovo
    assai intelligente l’osservazione di C. G. Montefiore:

    «Gesù non stava pensando alla giustizia pubblica, all’ordinamento
    della comunità civile, all’organizzazione dello stato,
    ma soltanto al comportamento che i membri della sua
    associazione religiosa avrebbero dovuto tenere gli uni verso
    gli altri e al loro esterno. La giustizia pubblica è fuori dal
    suo pensiero»1.

    Chi può dissentire se Gesù voleva insegnare ai suoi discepoli
    seduti attorno a lui a porgere l’altra guancia, a
    permettere all’altro di impadronirsi del mantello di qualcuno,
    a camminare per un miglio in più?
    Questa è la strada della pazienza che, dopo tutto, i discepoli
    di Johanan ben Zaccai descrivevano, allo stesso
    modo, come la strada buona: un cuore aperto che, soprattutto,
    perdona. Ma allora il messaggio non si rivolge a
    quelli che stanno ai piedi della montagna, ma soltanto a
    quelli che siedono sulla cima. In questo contesto possiamo
    notare, ancora una volta, che l’insegnamento di Qesù
    si incentra soprattutto sul “noi”, cioè sul piccolo gruppo
    di discepoli che gli siede intorno sulla cima della montagna,
    mentre il resto della gente restava giù ai suoi piedi.
    Gesù non si rivolge all’Eterno Israele, ma ad un gruppo
    di discepoli. Egli ha in mente ripetutamente un obiettivo
    limitato. L’Eterno Israele non nasce, tuttavia, dal Sinai,
    come un insieme di famiglie, ma come qualcosa di
    1 C.G. M ontefiore, The Synoptic Gospels, Ktav Publishing House, New
    York, 1968 (1927), p. 71.
    58
    più: una collettività che è formata da qualcosa in più della
    somma delle parti, da qualcosa in più delle famiglie,
    ma piuttosto un popolo, una nazione, una società: «un regno
    di sacerdoti e un popolo santo». Man mano che l’insegnamento
    si svela, io comincio a domandarmi se in
    questo caso il bersaglio non sia stato mancato: non si
    tratta di un errore, ma di un bersaglio non perfettamente
    centrato. Gesù si rivolge sulla montagna non a “tutto
    Israele” formato da individui e famiglie. Egli parla alle
    nostre vite, ma non a tutto quello che forma il mondo in
    cui viviamo. Noi ci troviamo ad ascoltare, infatti, un
    messaggio destinato alla nostra stessa casa, per crescere
    e per invecchiare, ma non per la nostra comunità, per lo
    stato, per l’ordine sociale futuro, del quale fa parte l’Eterno
    Israele.
    Come osserveremo più avanti, notiamo subito, in primo
    luogo, che Gesù si sofferma sui poveri, su quelli che
    sono in lutto, sui deboli, sui misericordiosi, sui portatori
    di pace. E tutti questi costituiscono l’Eterno Israele, forse,
    dal punto di vista divino, sono proprio la parte migliore.
    Ma io attendo un messaggio rivolto non solo a me
    stesso o alla mia vita o alla mia famiglia, ma anche a tutti
    noi, all’Eterno Israele, che si trovò al Sinai non come
    una folla eterogenea, ma come popolo di Dio, come figli
    di Abramo, Isacco e Giacobbe. Lo stesso Gesù - così mi
    racconta Matteo - è figlio di Davide, figlio di Abramo.
    Quando sta sulla montagna, tuttavia, non è questo l’uditorio
    che egli contempla. Questo è però il pubblico di cui
    faccio parte. Questo è ciò che io intendo per bersaglio
    mancato. Questo basta per la sostanza; il silenzio si rivela
    di cattivo augurio. Noi - l’Eterno Israele - abbiamo
    bisogno della Torah perché ci dica che cosa Dio desidera
    da noi. Gesù ha parlato, tuttavia, soltanto di come io, in
    particolare, posso realizzare ciò che Dio vuole da me.
    59
    Passando dal “noi” del Sinai all’“io” presente nell’insegnamento
    del maestro galileo, Gesù fa un passo importante,
    ma nella direzione sbagliata. E se fossi stato là, mi
    sarei chiesto che cosa doveva dire non a me, ma a tutto
    Israele, riunito davanti a lui quel giorno, nelle persone
    presenti, per ascoltare il suo insegnamento.
    Ma se il contenuto mi colpisce sia per i pregi sia per gli
    errori, la forma in cui si esprime è meravigliosa, come
    Matteo precisamente afferma. Se fossi stato là, avrei condiviso
    lo stupore delle folle, proprio per la stessa ragione
    offerta da Matteo: «perché egli insegnava loro come uno
    che ha autorità e non come i loro scribi» (Matteo 7,29).
    La frase «Voi avete inteso che fu detto» lascia inevase
    le seguenti domande: da parte di chi? per che cosa? Un
    maestro della Torah è giudicato dalla Torah e ne è responsabile.
    Certamente, quando è in discussione la Torah, si richiede
    un chiaro riferimento alla stessa Torah. E la perifrasi
    qui è ambigua: chi non sa, infatti, se quel «fu detto
    agli uomini antichi» si riferisca a ciò che Dio disse a
    Mosè sul Sinai? Gesù sa questo lassù sulla montagna ed
    io lo so come quelli intorno a me. Quello che ho udito è
    infatti ciò che Dio disse a Mosè nella Torah'. «Non uccidere;
    non commettere adulterio; non pronuncerai il nome
    di Dio invano» e altri dei Dieci Comandamenti. Anche in
    questo caso la corretta affermazione di interpretare quello
    che dice la Torah è unita ad una formula davvero
    sconcertante.
    Confesso che sarei stato meravigliato. C’è qui un insegnante
    della Torah che spiega in suo nome quello che la
    Torah dice in nome di Dio. Una cosa è dire dal proprio
    punto di vista in che modo un fondamentale insegnamento
    della Torah orienta la vita di ogni giorno - per
    esempio: «gli averi del tuo prossimo ti siano altrettanto
    60
    cari quanto i tuoi» -, ma tutt’altra è affermare che la Tornii
    dice una cosa, «ma io sostengo...» e annunciare poi
    in proprio nome quello che Dio espose sul monte Sinai.
    Questo spiega sia la mia meraviglia, sia il mio apprezzamento
    per l’insegnamento di un maestro della Torah che
    mi aveva fatto comprendere meglio alcune delle cose
    dette da Dio nella Torah. Egli mi aveva spiegato, nel
    caso particolare, come innalzare una siepe intorno ad
    alcuni dei Dieci Comandamenti e come comportarmi
    in modo tale da mostrare la mia fede in Dio e nella Provvidenza
    di Dio: «Non ti vantare del domani, perché non
    sai neppure che cosa genera l’oggi» (Proverbi 27,1) e
    così via.
    Che tipo di insegnamento è quello che migliora gli insegnamenti
    della Torah senza citarne la fonte e cioè Dio
    stesso? Non sono tanto turbato dal messaggio, su alcuni
    punti del quale potrei avanzare qualche obiezione, quanto
    dal messaggero. La ragione sta nella forma scioccante
    di questi insegnamenti. Mentre siede sulla montagna, la
    frase di Gesù «voi avete inteso che fu detto... ma io vi dico
    » si pone in aperto contrasto con la frase di Mosè sul
    monte Sinai. I saggi, come abbiamo visto, dicono le cose
    in base alla propria autorità, ma senza pretendere di migliorare
    la Torah. Mosè, il profeta, non parla a proprio
    nome, ma in nome di Dio, dichiarando quello che Dio gli
    ha ordinato di dire. Gesù non parla né da saggio, né da
    profeta. Dobbiamo notare che le prime parole dette da
    Mosè quando si rivolse al popolo sul monte Sinai, furono
    le seguenti: «Io sono il Signore Dio tuo che ti ha tratto
    fuori dalla terra d’Egitto, fuori dalla casa di schiavitù».
    Mosè parla da profeta di Dio, in nome di Dio, per gli
    scopi di Dio.
    Come debbo reagire, perciò, a questo “io” che contrasta
    evidentemente con quello che gli ho sentire dire?
    61

    Lo stesso Matteo, a questo punto del racconto, evidenzia
    il contrasto, affermando che «egli insegnava come uno
    che ha autorità e non come i loro scribi». Il solo Mosè
    aveva autorità. Gli scribi insegnano il messaggio e il significato
    della Torah messa per iscritto da Mosè per ordine di
    Dio. Eccoci, dunque, di fronte al problema di partenza:
    come dare un senso, all’interno della Legge, a un maestro
    che si stacca o si pone forse al di sopra di essa. Noi comprendiamo
    adesso, da molti punti del dettagliato racconto
    di Matteo sugli insegnamenti di Gesù, che alla fine c’è
    proprio la figura di Gesù e non tanto i suoi insegnamenti.
    Così, ripetutamente, nel contesto dei rapporti dei discepoli
    con Gesù, viene detto loro: «Beati voi quando vi
    insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno
    ogni sorta di male contro di voi per causa mia» (Matteo
    5,11); e ancora: «Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”,
    entrerà nel Regno dei Cieli, ma colui che fa la
    volontà del Padre mio che sta nei cieli» (Matteo 7,21); e
    infine: «Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le
    mette in pratica è simile ad un uomo saggio che ha costruito
    la sua casa sulla roccia» (Matteo 7,24). Queste ed
    altre simili affermazioni non sono rivolte all’“Eterno
    Israele”, ma ai soli Israeliti (o altri) che riconoscono quel
    “me”, che fa riferimento al “Padre mio” e che può parlare
    di “queste mie parole”. Tutte queste cose producono
    un solo risultato: sul Sinai Dio parlò per mezzo di Mosè,
    ma su questa collina di Galilea Gesù parla per sé. Mosè
    parlò per conto di Dio a “noi”, aH’“Eterno Israele” e noi,
    Israele, rispondemmo tutti insieme: «Noi faremo, noi obbediremo
    ». In Galilea Gesù parla alle folle stupite per il
    suo insegnamento, considerandole degli ascoltatori speciali,
    singoli individui fra l’Eterno Israele, che ascoltano
    questo maestro mentre si rivolge loro non come fanno «i
    loro scribi», ma «come uno che ha autorità».
    62

    In futuro troverò il coraggio di avvicinarmi al maestro,.
    di camminare con lui e di parlargli. Ma qui, durante questo
    primo incontro, tengo i miei pensieri per me solo.
    Quello che mi turba, tuttavia, è assai semplice e se quel
    giorno avessi potuto salire sulla montagna e parlare sia
    col maestro sia coi discepoli, avrei obiettato: «Come
    puoi dire queste cose senza fondamento sulla base della
    tua propria autorità e non sulla scorta degli insegnamenti
    di Mosè sul Sinai? Sembra quasi che ti consideri Mosè o
    superiore allo stesso Mosè. La Torah di Mosè non mi dice
    che Dio sta per dare insegnamenti al di fuori di Mosè
    e degli altri profeti oppure che ci sarà un’altra Torah.
    Non so davvero che cosa fare di queste tue affermazioni.
    Tu parli attraverso un “io”, ma la Torah parla soltanto a
    “noi”, a noi che formiamo, insieme a te, Israele».
    Perciò, sin dal primo giorno, comincia a farsi strada in
    me l’idea che, se non credo già in questo “io” che contrasta
    con la Torah, troverò straordinariamente difficile
    capire il discorso che sto ascoltando. E questo vale specialmente
    per quello specifico “obiettivo”, i «voi che sarete
    perseguitati a causa mia», come se la massa di persone
    ai piedi della montagna si fosse dileguata nelle colline
    di Galilea. Nella scena che si svolge davanti ai nostri
    occhi, Gesù comincia con un messaggio rivolto a tutto
    Israele, ma, come abbiamo visto ora, finisce per rivolgersi
    solo a quella parte di Israele che gli appartiene. Non
    stupisce che il narratore ci parli dello stupore della folla,
    quando Gesù ebbe finito di insegnare. Secondo il criterio
    della Torah, Gesù ha chiesto quello che la Torah concede
    soltanto a Dio.
    E non basta: Gesù costruisce, ripetutamente, un muro
    fra se stesso e gli altri Israeliti, che definisce ipocriti, come
    provano i seguenti esempi: «Quando, dunque, fai l’elemosina,
    non suonare la tromba davanti a te, come fan-
    63

    no gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade per essere
    lodati dagli uomini» (Matteo 6,2). E ancora: «Quando
    pregate, non siate simili agli ipocriti che amano pregare
    stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze,
    per essere visti dagli uomini... Ma quando tu preghi, entra
    nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo
    nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà
    » (Matteo 6,5-6).
    Prima di proseguire, permettetemi di rispondere a queste
    critiche rivolte alla religiosità pubblica. Questi detti
    presentano una solida critica contro le esagerazioni della
    religiosità pubblica, ma, nello stesso tempo, respingono
    la vita comunitaria di Israele. Una cosa è condannare gli
    ipocriti perché ostentano la propria carità e la propria religiosità.
    L’antico e il moderno Israele, il popolo eterno,
    ha infatti una parte di ipocriti che si vantano della propria
    religiosità. Ma tutt’altra cosa è dire che la vera preghiera
    debba aver luogo individualmente, privatamente,
    in segreto. Se Gesù intende dire che la preghiera pubblica
    è sconveniente, egli mette allora in discussione la premessa
    fondamentale della Torah, secondo la quale Israele
    non serve Dio da solo, ma tutto insieme e allo stesso
    tempo.
    In verità la Torah riconosce le preghiere offerte da individui,
    esclusivamente per proprio conta. La Torah
    chiama tuttavia Israele a servire Dio in comunità - nel
    tempio, per esempio - cosicché la Torah troverebbe difficilmente
    sostenibile l’idea che la sola preghiera valida è
    quella recitata in segreto. In una tale affermazione Gesù
    mette in discussione tutta la tradizione della preghiera
    comunitaria, di quel “noi” presente nella preghiera di
    Israele.
    Una cosa è rigettare quello che viene fatto in pubblico
    perché la gente ostenta la propria religiosità - come ho
    64

    visto fare nelle sinagoghe e nelle chiese a tal punto da
    dubitare di codesta religiosità - , ma è ben altra cosa considerare
    inutile la pratica del culto pubblico.
    Ritornando al punto principale, come posso replicare,
    restando all’interno della Torah, alle particolari affermazioni
    sul giusto e sull’erroneo, sul vero e sul falso che
    Gesù ha fatto questa mattina?
    Intendo aprire un dialogo su un campo ben delimitato,
    ricorrendo a un gruppo di fatti che condividiamo, cioè ai
    dati della Torah.
    La Torah non mi prepara ad ascoltare un messaggio
    nel quale il suo messaggio contrasta con quel «io dico»,
    né mi aiuta a capire un messaggio formulato in maniera
    tale da mettere da parte la stessa Torah, cioè la fonte dell’insegnamento
    impartito. Tutta la rivelazione sul Sinai
    viene relegata, adesso, alla frase «fu detto» e questo in
    netto contrasto con quell’“io”.
    La Torah fu data, infine, a tutto Israele, riunito ai piedi
    del Sinai, mentre questo insegnamento sembra avere un
    valore speciale per quelli che lassù credono in colui che
    lo impartisce come proprio. Costoro credono non tanto
    che quel maestro conosca a fondo la Torah, quanto che
    insegni molto sulla propria autorità, come se egli rivelasse
    ciò che Dio vuole. Me ne vado via, portando con me
    sia delle nuove ed originali interpretazioni dei Dieci Comandamenti,
    sia un profondo turbamento. Evidentemente
    c ’è qualcosa di diverso in gioco in questo insegnamento
    rispetto all’insegnamento della Torah di Johanan ben
    Zaccai e dei suoi discepoli.
    Per fortuna, essendo sul posto, posso farmi largo fra la
    folla, fino alle prime file e aspettare, per nulla intimidito,
    che il maestro mi passi vicino.
    Io: «Maestro, posso farti una domanda?». Lui: «Fammela
    ». Io: «Possiamo parlare di quello che hai detto que-
    65

    sta mattina, non dei dettagli, ma del punto fondamentale?
    ». Lui: «Quale credi che sia il punto fondamentale?».
    Io: «Tu dici questo: “Non pensiate che io sia venuto ad
    abolire la Torah e i Profeti; non sono venuto ad abolirli,
    ma a dar loro compimento”. Ma se tu avessi voluto abolire
    la Torah e non darle compimento, non avresti avuto
    modo migliore che evitare di citare ciò che la Torah di
    fatto dice, che, lo ammetto volentieri, tu migliori in modo
    impressionante. Tu mi insegni come osservare alcuni
    dei Dieci Comandamenti meglio di prima, ma dimentichi
    di dirmi quello che hai davvero in mente. Mi consigli come
    applicare alcune sagge massime dei Proverbi, ma non
    citi i Proverbi. La gente è sorpresa da come parli, perché
    non parli come un maestro della Torah, ma in un altro
    modo».
    Gesù non risponde allo stupore delle folle. Con questo
    dettaglio si conclude il racconto del grande messaggio.
    E tuttavia...
    E tuttavia io ascolto invano questo messaggio dalla
    montagna, alla ricerca di un insegnamento per la gente
    che sta in basso, per tutti noi, tutti insieme, ugualmente:
    Israele. Credo di non aver ascoltato cose più sconvolgenti
    di quelle che ho ascoltato. In fin dei conti Gesù elabora
    il proprio messaggio in un modo accattivante: «Voi avete
    inteso che fu detto... ma io vi dico...» certamente sorprende.
    Benissimo. Molto di quello che dice esige rispetto,
    qualcosa strappa l’assenso, e una parte del dissenso è
    costituito solo da cavilli.
    Ma se i discepoli che stavano in prima fila fossero venuti
    da me e mi avessero detto: «Non è poi così male, vero?
    Vieni con noi?», avrei risposto: «Se venissi con voi,
    abbandonerei Dio».
    E replicando alla loro meraviglia avrei detto: «Quan
    66

    do Dio parla attraverso Mosè, parla a tutto Israele, mentre
    il vostro maestro parla soltanto a voi. Il resto di noi
    sono fuori gioco. E Dio non conosce israeliti fuori gioco,
    ma soltanto peccatori, ai quali la Torah insegna a
    pentirsi.
    Gesù mi ricorda un profeta che parla in virtù della sua
    autorità, ma non un profeta d’Israele. Egli parla come
    uno di fuori, oppure, se ammettiamo che egli è più iniziato
    di noi, allora molto di quello che dice mette fuori il
    resto di noi.
    Egli è uno di noi, ma ci osserva da lontano, come un
    altro profeta su un’altra montagna molto tempo fa, ma
    quel profeta era sorto fra i gentili:
    “La mattina Balak prese Balaam e lo fece salire a Bamot
    Baal, da dove si vedeva un’estremità dell’accampamento
    del popolo” (Numeri 22,41). “Dalla cima delle rupi
    lo vedo, dalle alture lo contemplo” (Numeri 23,9).
    Guardando sempre da lontano, [Balaam] venne per maledire,
    ma fu costretto da Dio a benedire”.
    Il vostro maestro benedice quelli che fanno ciò che
    egli dice. Dammi piuttosto il rimprovero dei profeti di
    Israele che non la benedizione del profeta dei gentili2. Il
    suo insegnamento è per alcuni di noi, ma la Torah ci giudica
    tutti».
    No, se fossi stato là quel giorno, non mi sarei aggregato
    a quei discepoli per seguire il maestro lungo la sua
    strada. Me ne sarei tornato invece alla mia famiglia e al
    mio villaggio, proseguendo la mia vita come una parte
    deH’Etemo Israele e all’interno di esso. Montefiore spiega
    il perché: «La giustizia pubblica è fuori dal suo sco-
    2 II profeta dei gentili è Balaam, protagonista dei capitoli 22-24 del libro
    dei Numeri. Chiamato da Balak, re di Moab, a maledire Israele, fu costretto
    suo malgrado a benedirlo (N.d.C.).
    67

    po...», come pure tutto quanto l’Eterno Israele nel quale
    esisto. Non intendo recare offesa. Ma eccepisco contro
    un insegnamento che mi tocca solo personalmente, ma
    non tocca la mia famiglia e il mio paese, l’Eterno Israele,
    quale noi qui e ora l’incarniamo.
    68

    4
    «ONORA TUO PADRE E TUA MADRE»
    CONTRO
    «NON CREDIATE CHE IO SIA VENUTO
    A PORTARE PACE SULLA TERRA»
    «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra;
    non sono venuto a portare la pace, ma una spada. Sono venuto
    infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre,
    la nuora dalla suocera e i nemici dell’uomo saranno
    quelli della sua casa. Chi ama il padre e la madre più di me
    non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me
    non è degno di me»
    (Matteo 10,34-37).
    Anche se avevo deciso, dopo aver ascoltato il “Discorso
    della Montagna”, di non seguire il maestro e di tornare
    tranquillamente a casa, il mio interesse per quello che
    il maestro aveva detto restava vivo e non credo che, se
    fossi vissuto allora, sarebbe scemato facilmente. Nessuna
    persona riflessiva avrebbe potuto ascoltare queste parole
    stimolanti senza reagire, visto e considerato che,
    grazie alla forza del loro messaggio e non soltanto grazie
    alla potenza degli eserciti cristiani, gli insegnamenti di
    Gesù conquistarono e costituirono larga parte della civiltà
    mondiale. Così, dirigendomi verso casa, avrei passato
    tutto il pomeriggio attraversando la Galilea e riflettendo
    su quello che avevo ascoltato quel giorno.
    69
     
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    אילון

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    Avendo in mente soprattutto la Torah, le impressionanti
    formulazioni di Gesù sui Dieci Comandamenti -
    non solo non debbo uccidere, ma non debbo neanche irritarmi;
    non solo non debbo commettere adulterio, ma
    non debbo nemmeno pensarlo; non solo non debbo giurare
    il falso (non pronunciare il nome di Dio invano), ma
    non debbo giurare affatto - mi avrebbero colpito come le
    sue affermazioni più attraenti. La ragione non risiede
    nell’attenzione per i Dieci Comandamenti, tanto puntigliosa
    da respingere persino la possibilità di pensare di
    violarli. Avrei ammirato questo precetto, ma non lo avrei
    certamente considerato originale; qualcun altro disse di
    «fare una siepe» intorno alla Torah. Questa particolare
    “siepe” sposta, invero, il confine che protegge i comandamenti
    da fuori a dentro, cioè al cuore, all’intelligenza,
    all’immaginazione. Queste affermazioni toccano, certamente,
    la mia vita quotidiana; in essa l’omicidio è insolito,
    ma l’ira è abituale, l’adulterio è raro, ma fantasticarne
    è frequente, il giuramento falso è eccezionale, ma giurare
    è normale. Egli ha usato, perciò, il potere della sua immaginazione
    per rendere questi comandamenti più diretti
    e urgenti.
    Ammirando la forza di queste affermazioni, io rifletto,
    tuttavia, pure sul loro pathos perché laddove siamo forti
    è proprio là che risiede anche la nostra debolezza.. Per
    spiegare ciò che intendo, sottolineo che non viviamo soltanto
    dentro di noi, cioè nella nostra coscienza. Viviamo
    anche in comunità, in mezzo ad altra gente. Nessuno di
    noi è soltanto un “io”; tutti noi facciamo parte anche di
    un “noi”. E questo “noi” è fatto di case e di famiglie, ma
    anche di comunità oltre i muri delle nostre case. E evidente,
    adesso, che Gesù ha parlato alla sfera privata, così
    come parlò della preghiera in una stanza chiusa. Ma noi,
    l’Eterno Israele, preghiamo insieme, non solo e non tanto
    per nostro conto, «in una stanza chiusa». Il parere di Gesù
    contrasta con ciò che siamo e con chi siamo, cioè
    sempre e comunque “Israele”, tutto un popolo, una comunità
    di famiglie, ognuno di noi con gli stessi genitori e
    con gli stessi nonni, Abramo e Sara, Isacco e Rebecca,
    Giacobbe e Lia e Rachele, il cui Dio è il Dio di tutti noi.
    Perciò preghiamo così: «Benedetto sei Tu, Signore, Dio
    di Abramo, Isacco e Giacobbe...». Come ci può essere
    spazio, in una stanza chiusa, per questo “noi”, per tutta
    questa famiglia?
    E questa idea della preghiera ha molto più valore come
    insegnamento per la vita interiore; la forza del “Discorso
    della Montagna”, per quanto io riesco a capirlo, governa
    una sola dimensione della mia esistenza, quella individuale.
    Le altre due dimensioni, quella comunitaria e
    quella famigliare, sono purtroppo assenti. Nell’ordine naturale
    prima viene la famiglia, poi il villaggio, e solo dopo
    l’individuo trova il suo posto nell’ordine delle cose.
    Perciò l’insegnamento che ho ascoltato dalla cima della
    montagna trascura, a mio avviso, le prime due dimensioni
    della vita.
    Ma non subito. Colpito dall’originale e profonda lettura
    dei comandamenti personali, sarei tornato a riflettere
    soltanto più tardi sulle mie riserve iniziali su Gesù. E sarei
    tornato al cuore del problema, solo dopo aver ripassato
    nella mia mente gli altri comandamenti. Posso leggerli
    nella maniera in cui il maestro insegnò gli altri? C’è un
    messaggio che posso isolare - forse non così insistentemente
    come «voi avete sentito che fu detto..., ma io vi
    dico» - in risposta ad alcuni altri fra i Dieci Comandamenti,
    oltre a quelli che Gesù insegnò con tanta forza?
    Volevo non soltanto imparare ma anche trarre delle
    conclusioni, non solo prendere appunti, ma anche prendere
    dei rischi, cioè spingermi con il pensiero al di là di
    quello che avevo ascoltato. La grandezza di questo maestro
    e di questo insegnante sta, infatti, non solo in quello
    che dice, ma anche nel modo in cui mi insegna a pensare
    come lui. E il valore di un buon allievo, quale io voglio
    essere in questa lezione di Torah, si manifesta non dalle
    lezioni che impara, ma dalle conclusioni che sa trarne.
    Mentre il maestro capace insegna e l’allievo diligente
    impara, il grande maestro mostra come studiare e il grande
    allievo sa trarne le conclusioni.
    Perciò, per parlare adesso della nostra vita attuale, essendo
    stato talvolta insegnante, ma sempre studente -
    anche nel senso di allievo dei miei studenti passati -, ho
    imparato che un allievo diligente prende appunti, ma uno
    grande trae le conclusioni.
    Tuttavia si possono trarre delle conclusioni soltanto se
    si parla, se si espone un punto di vista, se si discute e si
    dibatte, se si ascolta attentamente l’altro e si presta attenzione
    a ciò che egli dice. Prendo Gesù sul serio; anche
    ignorando quale sarà il seguito della sua vita e dei suoi
    insegnamenti, capisco che sta sfidando la mia capacità di
    comprensione della Torah. Perciò gli rendo l’omaggio di
    un incontro approfondito coi suoi insegnamenti. Voglio
    raggiungere delle conclusioni e questo significa usare
    quello che ho imparato per mio conto, per passare dall’imitazione
    alla ri-formazione.
    Di conseguenza la conclusione che volevo raggiungere,
    in questo lungo viaggio verso casa, vorrebbe riguardare
    il modo corretto di intendere «Voi avete sentito...,
    ma io vi dico» e poi quella meravigliosa “siepe per la
    legge” esposta in un linguaggio insistente e provocatorio.
    Nella mia mente penso ad uno studio parallelo per i tre
    comandamenti che riguardano la condotta personale e
    cioè non uccidere, non commettere adulterio, non nominare
    il nome di Dio invano. Mentre penso e ripenso a
    72

    questi comandamenti, aspetto che essi mi indichino come
    vivere la mia vita. Comincio perciò dai grandi comandamenti
    teologici che formano il prologo: non avere
    altri dei, non ti fare immagini scolpite.
    Ma che cosa dire dello spazio fra ciò che è decisamente
    pubblico e ciò che è più privato? Non si tratta di tutto
    Israele in astratto, visto dalla prospettiva dei cieli, ma
    neppure della semplice sfera della vita privata, della preghiera
    nella stanza chiusa, autosufficiente. Ecco, noi siamo
    nel “mondo di mezzo” dove la vita è vissuta, con la
    gente: Israele in comunità. Che dire della famiglia, la
    pietra d’angolo dell’ordine sociale?
    Gesù parte da affermazioni basilari riguardo alla vita
    con Dio e conclude con insegnamenti sulla vita personale.
    Nel mezzo, fra i comandamenti teologici iniziali e
    quelli personali conclusivi, trovo due comandamenti, entrambi
    incentrati sulla vita nella società di qui e di adesso.
    Io vivo in essa e in essa ferve la vita. Queste parole
    attraggono perciò la mia attenzione:

    «Ricordati del giorno di sabato per santificarlo; sei giorni
    faticherai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il
    sabato in onore del Signore, tuo Dio; tu non farai alcun lavoro,
    né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né
    la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora
    presso di te. Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e
    la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il settimo
    giorno. Perciò il Signore ha benedetto il giorno di sabato
    e lo ha dichiarato sacro» (Esodo 20,8-11).
    «Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi
    giorni nel paese che ti dà il Signore, tuo Dio» (Esodo
    20,12).

    Qui non abbiamo a che fare con Dio e con il popolo,
    Israele, da un lato, o con il comportamento individuale,
    73

    con i problemi di un agire retto e - Gesù vi insiste giustamente,
    e non è il solo fra i maestri della Torah - di un
    giusto pensiero, dall’altro.
    Un comandamento riguarda il sabato, facendo riferimento
    alla creazione; l’altro fa riferimento in particolare
    alla casa e alla famiglia: la vita domestica. Qui la mia riflessione
    investe non tanto tutto Israele o il mio comportamento,
    quanto la pietra fondante dell’Eterno Israele a
    partire da Abramo, Isacco, Giacobbe fino a mia madre e
    a mio padre. Nel prossimo capitolo cercherò di trattare
    del comandamento sul sabato, ossia il momento in cui la
    famiglia e la casa si uniscono ad altre famiglie e ad altre
    case per un istante sacro in un unico posto e in questo
    spazio sacro viene celebrata la creazione del mondo naturale:
    la santificazione del tempo e dello spazio nella
    natura.
    Venendo proprio al punto, l’insegnamento di Gesù sul
    comandamento che riguarda la famiglia - «Onora tuo
    padre e tua madre perché si prolunghino i tuoi giorni nel
    paese che ti dà il Signore, tuo Dio» (Esodo 20,12) - mi
    spaventa e mi preoccupa. Egli contraddice direttamente
    la Torah affermando che «Io sono venuto a mettere l’uomo
    contro suo padre e la figlia contro sua madre...».
    L’Eterno Israele possiede la terra - così dicono i Dieci
    Comandamenti - perché onora il padre e la madre.
    Quando Dio dice a Mosè: «perché si prolunghino i tuoi
    giorni nella terra che ti dà il Signore, tuo Dio», gli interessi
    non sono banali. Ora, nel contesto del messaggio di
    Gesù, un discepolo può farmi notare che, per seguire Gesù,
    io debbo porre il mio amore per lui al di sopra di
    quello per i miei genitori. Si legge infatti: «Chi non prende
    la sua croce e non mi segue, non è degno di me. Chi
    avrà trovato la sua vita, la perderà; e chi avrà perduto la
    sua vita per causa mia, la troverà» (Matteo 10,38-39).
    74

    Tuttavia se faccio come egli dice, abbandono mio padre
    e mia madre, i miei fratelli e le mie sorelle, mia moglie e
    i miei figli. Che cosa vuol dire, allora, far parte di Israele?
    Se tutti noi facessimo quello che egli vuole, la famiglia
    si disintegrerebbe, la casa crollerebbe e quello che
    tiene unito il villaggio e la terra, il corpo della famiglia,
    cederebbe. Per seguirlo, debbo violare uno dei Dieci Comandamenti?
    Inoltre nella rappresentazione della Torah, “Israele” ,
    forma una famiglia: vale a dire l’Israele reale, l’Israele
    “secondo la carne”, per usare una frase cristiana posteriore,
    la famiglia viva e presente di Abramo e Sara, Isacco
    e Rebecca, Giacobbe, Lia e Rachele. Noi preghiamo il
    Dio che conosciamo prima di tutto attraverso la testimonianza
    della nostra famiglia, il Dio di Abramo e Sara,
    Isacco e Rebecca, Giacobbe, Lia e Rachele. Perciò, per
    spiegare chi siamo, l’Eterno Israele, i saggi fanno ricorso
    alla metafora della genealogia, perché il legame della
    carne, e della famiglia costituisce la ragione logica dell’esistenza
    sociale di Israele. Gesù farebbe lo stesso, rovesciando
    senza sforzo la metafora: la mia famiglia è
    composta di persone che fanno quello che vuole Dio,
    convertendo la genealogia in vera religiosità.
    Perciò io non definisco personale, ma pubblico, sociale
    e corporativo il comandamento che riguarda l’onore
    dovuto al padre e alla madre. Gesù mette in discussione,
    dunque, il primato della famiglia nella scala delle mie responsabilità,
    la centralità della famiglia nell’ordine sociale.
    Ma non basta, dal momento che Gesù afferma
    esplicitamente:

    «Mentre egli parlava ancora alla folla, sua madre e i suoi
    fratelli, stando fuori in disparte, cercavano di parlargli.
    Qualcuno gli disse: “Ecco, di fuori tua madre e i tuoi fratelli
    75

    che vogliono parlarti”. Ed egli, rispondendo a chi lo informava,
    disse: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?”.
    Poi stendendo la mano verso i suoi discepoli disse: “Ecco
    mia madre ed ecco i miei fratelli; perché chiunque fa la volontà
    del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello,
    sorella, madre”» (Matteo 12,46-50).

    Gesù non mi insegna, allora, a violare, fra tutti i Dieci
    Comandamenti, uno dei due grandi comandamenti che
    riguardano l’ordine sociale? Il discepolo potrebbe ribattere
    che «per servirlo, noi dobbiamo andare con lui. Il
    padre e la madre ti danno la vita in questo mondo, ma
    Gesù, che noi conosciamo come il Cristo, dà la vita eterna
    ». Ed anche in un più semplice contesto accademico -
    poiché noi possiamo occuparci soltanto degli insegnamenti
    di Gesù, di Gesù come insegnante di principi specifici
    - la maniera di imparare consiste nel seguire, imitare,
    osservare e ancora nell’ascoltare e nel discutere e
    non solo nel restare ai piedi della montagna per un’ora o
    poco più. Il discepolo - forse lo stesso Matteo - concluderebbe
    così: «Stargli accanto per un’ora non significa
    imparare la sua Torah, ma solo ascoltare le sue parole».
    Dopo tutto, ogni vero maestro non insegna forse con
    l’esempio e con il gesto, più che con le parole? La Torah
    muore se resta un semplice libro fatto di semplici parole
    scritte su una pagina o su una pergamena. La Torah vive,
    specialmente, nell’atteggiamento e nell’azione, nella maniera
    in cui i maestri della Torah la incarnano. Perciò la
    richiesta di studiare la Torah ad un certo punto contrasta
    con la richiesta di onorare il padre e la madre. E non basta
    poiché, dopo tutto, i discepoli di Gesù ancora oggi
    trascurano sia i loro genitori sia i loro doveri famigliari.
    Se un discepolo è sposato, che ne sarà della moglie e dei
    figli? La Torah ci comanda non solo di onorare i genito76
    ri, ma anche di comportarci in maniera responsabile verso
    la nostra sposa: che ne è di questo?
    In un mondo nel quale è dato per scontato che discepoli
    e maestri sono tutti uomini, che ne è delle mogli? In
    gioco non ci sono solo i genitori, ci sono la moglie e i figli,
    la casa, l’intera famiglia, descritta con così tanti dettagli
    nel comandamento che riguarda il sabato: «Tu, o
    tuo figlio o tua figlia, la tua serva o il tuo servo, o il tuo
    bestiame, o il forestiero che è presso di te» (Esodo
    20,10). Ciò che mi turba profondamente, pertanto, è che
    seguendo Gesù, abbandonerò la mia casa e la mia famiglia,
    mentre la Torah mi ha imposto sacre responsabilità
    proprio verso la casa, verso la famiglia e anche verso la
    comunità.
    Non afferma Gesù che è nostro compito eseguire i comandamenti
    che Dio diede anche ad Adamo ed Èva: essere
    fecondi e moltiplicarsi, per perpetuare la vita sulla
    terra? Matteo non ci dice che fosse sposato o che avesse
    una famiglia con figli; egli dice ai suoi discepoli, tuttavia,
    di prendere la croce e di seguirlo, mentre, al contrario,
    il principio fondamentale in vista del regno dei cieli
    che la Torah chiede a Israele di realizzare è quello di formare
    una società durevole nella santificazione.
    I maestri della Torah ed i loro discepoli affronteranno
    più tardi lo stesso problema e, dopo tutto, il discepolo
    perspicace noterà che in seguito i maestri avrebbero
    chiamato i loro discepoli ad abbandonare le loro case e
    le loro famiglie ed essi stessi avrebbero lasciato per lunghi
    periodi le proprie mogli e i propri figli per studiare la
    Torah. In verità una delle più grandi storie d’amore dell’ebraismo
    è costruita proprio su questo motivo: la volontà
    della donna di mandare il proprio marito a studiare
    la Torah anche a costo di essere trascurata. Gesù esige
    per se stesso niente di più di quello che i maestri della
    77

    Torah esigevano per la Torah: anteporre la Torah alla casa
    e alla famiglia.
    Ma ecco cosa si racconta di questa storia d’amore in
    un trattato del Talmud:

    «Rabbi Aqiba, che non sapeva né leggere né scrivere, lavorava
    come pastore presso Ben Kalba Sabua. La figlia di
    quest’uomo, accortasi di quanto egli fosse morigerato e
    gentile, gli disse: “Se noi fossimo fidanzati, andresti a
    scuola a studiare la TorahT. Egli rispose di sì. Si fidanzò
    segretamente con lui e lo mandò via. Quando suo padre lo
    venne a sapere, la cacciò di casa e giurò di diseredarla. Egli
    andò e studiò per dodici anni. Quando tornò a casa, portò
    con sé dodicimila discepoli e sentì un saggio che diceva alla
    sua promessa sposa: “Per quanto tempo ancora vivrai
    come una vedova?”. Lei gli rispose: “Se facesse attenzione
    a ciò che desidero, egli dovrebbe studiare per altri dodici
    anni”. Egli disse: “È quello che farò con il suo permesso”.
    Quando ritornò per la seconda volta, portò con sé ventiquattromila
    discepoli. La moglie lo seppe e gli andò incontro.
    I suoi vicini le dissero: “Prendi in prestito qualche bel
    vestito ed indossalo”, ma lei rispose loro: “Il giusto ha cura
    del suo bestiame” (Proverbi 12,10). Quando venne da lui,
    si prostrò e gli baciò i piedi. I suoi servi stavano per allontanarla,
    ma egli ordinò loro: “Lasciatela stare: quello che è
    mio e quello che è vostro appartengono interamente a lei”.
    Avendo suo padre udito che un importante studioso era venuto
    in città si disse: “Mi recherò da lui e forse scioglierà il
    voto che ho fatto”. Andò da lui e quello gli disse: “Hai fatto
    questo voto perché volevi avere un importante studioso
    [come genero]?”. Ben Kalba Sabua gli rispose: “Se avessi
    studiato un solo capitolo oppure una sola legge [non avrei
    fatto questo voto]”. Rabbi Akiba gli disse: “Quell’uomo
    sono io”. L’altro si prostrò davanti a lui baciandogli i piedi
    e gli diede metà dei suoi beni» (Talmud Babilonese, Trattato
    Ketubot 62b-63a).
    78

    Che motivo c’è, perciò, di discutere con Gesù, visto
    che egli ha detto ai suoi discepoli: «Chi ama suo padre o
    sua madre più di me non è degno di me; e chi ama suo
    figlio o sua figlia più di me, non è degno di me»? Se la
    Torah fosse personificata, così come lo è la Sapienza
    nella Scrittura, non avrebbe potuto dire di meno. Tutto
    quello che Gesù chiese ai discepoli fu di amarlo più di
    quanto essi amassero la propria famiglia. E Gesù non
    sta forse costruendo una famiglia, edificandola sulle
    fondamenta della fedeltà e dell’amore? E non si tratta,
    forse, di una famiglia soprannaturale, nel cui amore alla
    fine si riflette qualcosa di soprannaturale? E la famiglia
    non è forse il fondamento del regno dei cieli, la nuova
    casa d’Israele? Così il discepolo potrebbe dire per conto
    del maestro.
    Ma non basta: il discepolo perspicace potrebbe giustamente
    osservare che altri maestri, in seguito, non avrebbero
    avanzato pretese minori, e, anche in questo caso,
    quel discepolo avrebbe ragione.
    Nella Torah, secondo l’interpretazione di altri saggi,
    ad Israele sarebbe stato ordinato di anteporre l’onore per
    la Torah, vista anche nella persona del saggio, a quello
    del padre e della madre. In che cosa differisce questa
    prescrizione da quella di Gesù? Tra un momento ritorneremo
    all’unica differenza, nella quale risiede, naturalmente,
    il contrasto: la Torah contro Cristo. In seguito,
    nelle affermazioni dei saggi, troviamo lo stesso contrasto
    che abbiamo tracciato seguendo Gesù: la genealogia
    contrapposta ad un altro legame, che va oltre quello della
    famiglia, un legame soprannaturale: propriamente “una
    famiglia santa”, fondata sulla santità, sull’amore che travalica
    la comprensione, sull’amore sovrannaturale, se
    vogliamo descriverlo in termini profani. Non meraviglia
    che tanto i cattolici quanto gli ortodossi si trovino così a
    79

    proprio agio fra le braccia della Vergine Maria, per usare
    in questo contesto il loro linguaggio.
    Nel testo seguente lo studio della Torah è posto prima
    di tutto in contrasto con lo status genealogico che a quel
    tempo aveva grande importanza in Israele. Benché le
    classi del tempio, i sacerdoti e i leviti, avessero la precedenza,
    sulla base della genealogia che, secondo la Torah,
    risaliva rispettivamente fino ad Aronne e a Mosè, nondimeno
    il discepolo di un maestro aveva la precedenza:

    «Il sacerdote precede il levita, il levita l’israelita laico, un
    israelita precede un bastardo... Quando vigono queste norme?
    Quando si trovano nelle medesime condizioni. Ma se il
    bastardo era un conoscitore della Legge e il Sommo Pontefice
    un ignorante, il bastardo istruito nella Legge ha la precedenza
    sul Sommo Pontefice ignorante» (Mishnah, Trattato
    Horaiot 3,8; traduzione italiana di V. Castiglioni, op. cit.,
    p. 376).

    Poiché una persona i cui genitori non potevano legalmente
    contrarre matrimonio (per esempio fratello e sorella)
    ha alle spalle un albero genealogico assai complicato
    e di conseguenza anche uno status sociale altrettanto
    problematico, è in certo modo rivoluzionario affermare
    che questa persona abbia la precedenza su un
    Sommo Sacerdote. Proiettando questa affermazione
    nella realtà attuale, potremmo immaginare che, in un
    pranzo ufficiale, un modesto professore associato di
    scienze politiche abbia la precedenza non sul rettore
    della propria università, ma sul presidente degli Stati
    Uniti d ’America senza afferrare, però, completamente
    quanto sia rivoluzionaria questa affermazione. Perché
    la figlia di un rettore o del presidente degli Stati Uniti
    d’America può sposare, infatti, un professore associato
    80
    0 un semplice laureato, ma la figlia di un sacerdote non
    potrebbe, mai e poi mai, sposare il figlio nato da un’unione
    illegittima.
    Questa è la forza dell’affermazione: «Ma se il bastardo
    era un conoscitore della Legge e il Sommo Pontefice era
    ignorante, ora il bastardo istruito nella Legge ha la precedenza
    sul Sommo Pontefice ignorante». Così, se Gesù
    intende dire che la sua chiamata ha la precedenza su tutte
    le altre chiamate, allora nel contesto che esaminerò più
    avanti, potrei identificare certamente la sua chiamata con
    l’insegnamento della Torah, come l’ho capito. Cioè: il
    più umile discepolo del maestro aveva la precedenza sul
    più illustre lignaggio familiare.
    La Torah prende allora il posto della genealogia e il
    maestro della Torah acquista un nuovo lignaggio. In questo
    contesto comprendo che anche Gesù mi offre qualcosa
    che è definibile come un nuovo lignaggio.
    Egli è paragonabile, in verità, ad un padre spirituale.
    In tale contesto, posso accettare la sua pretesa di riconoscere
    una nuova famiglia, formata in risposta alla paternità
    di Dio e al discepolato di Gesù? «Ecco mia madre e
    1 miei fratelli! Chi fa la volontà del Padre mio che è nei
    cieli è mio fratello, e mia sorella e mia madre» (Matteo
    12,49-50). Posso dare un senso a questa affermazione in
    rapporto alla Torah come io la comprendo adesso? Sì,
    senza difficoltà.
    Tuttavia è proprio su questo punto dello svolgimento
    del dibattito che intendo discutere. Non è così semplice
    capire come gli altri maestri della Torah, all’infuori di
    Gesù, intendano il discepolato. Essi non pensano che il
    discepolo debba rinnegare il proprio padre naturale in favore
    di un nuovo padre, il maestro, che lo condurrà nella
    vita futura. Ciò che essi pensano è abbastanza differente:
    il maestro ha la precedenza sul padre; il padre e il mae-
    81

    stro restano accomunati, tuttavia, da un unico legame, da
    un ordine sociale durevole. Leggiamo per esempio:
    «Se uno deve ricuperare una cosa smarrita da lui e un’altra
    smarrita da suo padre, la sua ha la precedenza; se una cosa
    smarrita da lui e un’altra smarrita dal suo maestro, la sua ha
    la precedenza; per una cosa smarrita dal padre e un’altra
    smarrita dal maestro, quella del maestro ha la precedenza.
    Perché il padre lo ha messo a questo mondo, ma il maestro
    che gli ha insegnato sapienza gli procura la vita avvenire.
    Se il padre è un sapiente ha la precedenza quella del padre.
    Se suo padre e il suo maestro portano un peso, scarichi prima
    quello del suo maestro, poi quello del padre. Se suo padre
    e il suo maestro erano prigionieri, libera prima il maestro
    e poi libera il padre. Se però il padre era un sapiente, libera
    il padre e poi libera il maestro» (Mishnah, Trattato Baba
    Metzia 2,11; traduzione di V. Castiglioni, op. cit., p. 53).
    Ognuno è dunque responsabile di se stesso. Ma quello
    che colpisce qui è, tuttavia, che il maestro e il padre possono
    entrare in concorrenza, ma solo se quest’ultimo non
    è un maestro della Torah', se lo è, allora il maestro della
    Torah non ha la precedenza sul padre che gode della
    stessa posizione.
    L’analogia che ho illustrato qui - Cristo ha la precedenza
    sulla famiglia, nel senso che la relazione sovrannaturale
    ha la meglio su quella naturale così come la Torah
    ha la precedenza sulla famiglia - viene meno perché
    non è completamente esatta. Secondo l’interpretazione
    dei saggi, la Torah rende uguale tutto Israele (ieri solo gli
    uomini; oggi sia gli uomini sia le donne).
    In caso di contrasto fra due richieste avanzate rispettivamente
    da un maestro e da un genitore che non sa né
    leggere né scrivere, la preminenza è stabilita dalla conoscenza
    della Torah. Ma se il genitore è un saggio, allora
    82

    la sua richiesta, basata sia sulla Torah sia sulla genealogia,
    prevale su quella del maestro.
    Nel quadro di questa esposizione, l’analogia originale
    sembra piuttosto confusa e fuori luogo. Ho comparato
    Cristo e la Torah, ma la comparazione è errata, perché al
    centro non sta né il maestro né il padre, ma la Torah. È la
    conoscenza della Torah che conferisce all’uomo un certo
    rango; ma se entrambi gli uomini godono dello stesso
    rango, allora il padre ha la precedenza. Il detto di Gesù
    può essere letto allo stesso modo? No di certo, poiché il
    discepolato nei riguardi di Gesù è unico. Non è il discepolato
    nei riguardi della Torah, che ognuno può studiare
    approfonditamente, che conferirà un rango sovrannaturale
    al rapporto fra due persone, il maestro e il discepolo. E
    unicamente il discepolato nei riguardi di Gesù Cristo ad
    essere in discussione e solo Gesù è chiamato alla missione
    di Cristo. «Chiunque fa il volere del Padre mio che sta
    nei cieli è mio fratello e mia sorella» non equivale a dire
    «chiunque diviene un saggio, maestro della Torah, entra
    nel rango della Torah». La prima affermazione è peculiare,
    specifica rispetto a Gesù, l’altra è generale e applicabile
    a chiunque. La Torah sta in un mondo, Cristo in un
    altro.
    Osserviamo ancora una volta quanto sia personale il
    centro della predicazione di Gesù: esso ruota intorno a
    lui e non intorno al suo messaggio. Comprendiamo perfettamente
    che ognuno può padroneggiare la Torah e godere
    dello stesso status rispetto agli altri studiosi, mentre
    Gesù è l’unico modello. «Prendi la tua croce e seguimi»
    non equivale a dire «Studia la Torah che io insegno e che
    ho appreso dal mio maestro prima di me». «Seguimi» e
    «Segui la Torah» sembrano simili, ma non lo sono. Sono,
    invece, quasi il contrario. Ciascun israelita (allora solo
    uomo; ma oggi uomo o donna) può studiare a fondo la
    83

    Torah e diventare un saggio, ma soltanto Gesù può essere
    Gesù Cristo.
    Le analogie che ho tracciato fra i due modelli di discepolato
    a un saggio - quello di Gesù e quello della Mishnah
    - non mi preparano affatto a questa pretesa, che va
    ben oltre i confini della Torah, e che non è in ultima analisi
    rilevante per la Torah. È davvero irrilevante discutere
    sul fatto che Gesù, chiedendomi di amarlo più di quanto
    io ami mio padre e mia madre, mi dica di violare uno dei
    Dieci Comandamenti: questo non è in discussione. Fino
    a ora ho tracciato solo un parallelo che ha condotto ad un
    contrasto stupefacente. Ma non si può discutere in base a
    teoremi che affermano che le linee parallele non si incontrano.
    Perciò come posso discutere con Gesù, in quel
    tempo e in quel luogo, su problemi che tutti noi dobbiamo
    dibattere dovunque e sempre?
    Per discutere dobbiamo enucleare un argomento in cui
    non ci sia in gioco la Torah, ma piuttosto ciò di cui siamo
    debitori verso Dio. Qual è l’interesse di Dio nell’onorare
    il padre e la madre? Gesù è assai esplicito su questo
    punto nello stesso passaggio: «Chi riceve voi riceve
    me e chi riceve me riceve colui che mi ha mandato»
    (Matteo 10,40). In gioco non c’è soltanto l’onore dovuto
    al padre e alla madre rispetto all’onore dovuto al maestro,
    né è specificato fin dove possiamo spingerci nel trascurare
    i genitori per seguire Gesù (o per studiare la Torah).
    Qui troviamo un’affermazione, connessa all’onore
    per il padre e la madre, equivalente a quella di Gesù:

    «Rabbi [Giuda il Patriarca] dice: “L’onore del padre e della
    madre è caro a colui che parlò e il mondo fu perché l’onore
    dato a loro è pari all’onore dato a Lui, il timore di loro è pari
    al timore di Lui e chi maledice loro è come se maledicesse
    Lui.
    84

    Sta scritto, infatti: ‘Onora tuo padre e tua madre’ e a questo
    corrisponde: ‘Onora il Signore con i tuoi averi’ (.Proverbi
    3.9). In tal modo, l’onore dovuto al padre o alla madre viene
    equiparato a quello dovuto al Luogo (a Dio).
    Sta scritto, infatti: ‘Ciascuno tema suo padre e sua madre’
    (.Levitico 19,3) e a questo corrisponde: ‘Temerai il Signore
    tuo Dio’ (Deuteronomio 6,13; 10,20). Così il timore del padre
    e della madre è equiparato al timore del Luogo (di Dio).
    Infine, sta scritto: ‘Chi maledice suo padre e sua madre dovrà
    morire’ (Esodo 21,17), a cui corrisponde: ‘Se qualcuno
    maledirà il suo Dio, porterà il peso del proprio peccato’ (Levitico
    24,15).
    Anche la maledizione del padre e della madre viene pertanto
    equiparata a quella del Luogo (di Dio).
    Considera, inoltre, quanto sia simile la ricompensa che è
    promessa per l’osservanza di questi comandamenti. Sta
    scritto, infatti: ‘Onora il Signore con i tuoi averi’ (Proverbi
    3.9) e come ricompensa sta scritto: ‘I tuoi granai si riempiranno
    in abbondanza’ (Proverbi 3,10).
    Parallelamente, sta scritto: ‘Onora tuo padre e tua madre’ e
    la ricompensa è: ‘Perché si prolunghino i tuoi giorni nella
    terra che ti ha dato il Signore, tuo Dio’.
    ‘Temerai il Signore, tuo Dio’ (Deuteronomio 6,13) e come
    ricompensa sta scritto: ‘Sorgerà un sole di giustizia per voi
    che temete il mio nome’ (Malachia 3,20).
    ‘Ciascuno tema sua madre e suo padre e osservate i miei sabati’
    (Levitico 19,3). Qual è dunque la ricompensa per l’osservanza
    del sabato? ‘Se tratterrai il tuo piede dal sabato, allora
    ti delizierai nel Signore che ti farà cavalcare sulle alture
    della terra’ (Isaia 58,13-14)”» (Mekhilta di R. Ishmael su
    Esodo 20,12; traduzione di A. Mello tratta da: Il dono della
    Torah. Commento al Decalogo di Es 20 nella Mekhilta di R.
    Ishmael, Roma 1982).

    Adesso possiamo vedere che cosa c’è veramente in
    gioco: l’onore dovuto ai genitori forma un’analogia

    85
    mondana rispetto all’onore di Dio. Il problema non è
    perciò il solo discepolato, ma la comparazione delle e fra
    le diverse relazioni: relazione del discepolo verso il maestro,
    del figlio verso il padre, relazione dell’essere umano
    verso Dio. E questo mi riporta alla discussione che io
    avrei voluto intavolare se non con Gesù quel giorno, con
    un suo discepolo il giorno seguente: «Il tuo maestro è
    Dio?». Comprendo, infatti, che solo Dio può esigere da
    me quello che sta chiedendo Gesù.
    Se perciò non posso seguire il discepolo nell’affermare
    che “seguendo Gesù io seguo Dio”; se non posso fare
    questo, allora non posso nemmeno seguire quel maestro
    lungo il sentiero che egli ha tracciato davanti a me con le
    sue parole. Alla fine Gesù avanza una richiesta che soltanto
    Dio fa, come Giuda il Patriarca avrebbe evidenziato
    molto tempo dopo, alla fine del secondo secolo, in un
    testo che gli fu attribuito. Il legame famigliare che si instaura
    in Gesù fra maestro ed allievo costituisce soltanto
    il primo passo che non porta ad onorare il maestro come
    o più del genitore, ma, in ultima analisi, ad onorare il
    maestro come e più di Dio.
    Avevo osservato in precedenza che alcuni vogliono
    tracciare una distinzione fra il “Gesù della storia” e il
    “Gesù della fede” oppure vogliono distinguere la fede di
    Gesù da quella di Paolo o ancora separare Gesù Cristo
    dalla Chiesa che rappresenta il suo corpo mistico. Alcuni
    cristiani sostengono che il Gesù storico, l’uomo che realmente
    visse ed insegnò, non avrebbe riconosciuto la fede
    che la Chiesa cristiana avrebbe formulato più tardi. Essi
    si riconoscono negli insegnamenti dell’uomo Gesù, ma
    non nelle dottrine che la Chiesa, a loro avviso, avrebbe
    formulato in seguito.
    E non basta: i critici ebraici del cristianesimo, distinguono
    fra il Gesù che essi onorano come un grande rab86
    bino o come un grande profeta in virtù dei suoi insegnamenti
    e il cristianesimo; essi descrivono Gesù come un
    taumaturgo galileo o un rabbino o un profeta, ma non come
    il Cristo. Ci sono studiosi sia ebrei sia cristiani che
    distinguono fra il Gesù che ammirano e l’apostolo Paolo
    che, a loro avviso, avrebbe cambiato la fede di Gesù -
    rabbino o profeta - nella religione di Cristo. Sia la lettura
    cristiana sia quella ebraica del Nuovo Testamento producono,
    insomma, una distinzione importante nelle parole e
    nel contesto.
    Non posso addentrarmi a discutere su questi problemi
    assai più complicati, dal momento che la mia discussione
    è limitata ad un solo Vangelo, al racconto dell’evangelista
    Matteo su Gesù e ai detti che lui trasmise in nome di
    Gesù. Debbo chiedermi, tuttavia, perché non possiamo
    riconoscere nei detti di Matteo non solo il Gesù della
    storia, ma anche il Gesù della fede. La distinzione fra
    l’uno e l’altro, importante per alcuni settori del cristianesimo
    e per alcuni teologi ed apologisti tanto ebrei quanto
    cristiani, mi colpisce perché è poco fondata.
    Infatti se la gente crede, generalmente, che Gesù pronunciò
    davvero quelle affermazioni che stiamo esaminando,
    allora dobbiamo ripensare alla distinzione fra il
    Gesù della storia e il Cristo della fede. In queste osservazioni
    che riguardano un problema assai modesto, scaturito
    dal confronto fra «Onora tuo padre e tua madre» e
    «Chi ama suo padre e sua madre più di me non è degno
    di me», io non sono in grado di riconoscere l’abisso che
    separa Gesù, come uomo, dal Cristo della fede. Gesù ha
    senso, come abbiamo visto, soltanto nel contesto del Gesù
    della fede. Quando paragoniamo in maniera puntuale
    - cioè in modo che ogni membro dell’equazione corrisponda
    all’altro - quello che Gesù disse sul comandamento
    che prescrive di onorare il padre e la madre con
    87

    quello che dissero gli altri saggi, vediamo nel Gesù della
    storia precisamente quel Cristo della fede che, per venti
    secoli, i cristiani hanno ritrovato tanto nel Gesù di Matteo
    quanto nel Cristo di Paolo.
    Dove troviamo, allora, la discussione che io vorrei intrattenere
    con l’uomo Gesù? Se potessi sul serio scambiare
    qualche parola con Gesù, il saggio, vorrei sapere
    ancora: «Maestro, che ne sarà delle famiglie e dei villaggi
    che formano Israele? Hai un insegnamento che ci prescrive
    di amare i nostri padri e le nostre madri, i nostri figli
    e le nostre figlie? E che ne sarà di noi, i capifamiglia
    nelle nostre case, che formiamo in questo luogo e in questo
    momento l’Eterno Israele che sta davanti alla Torah
    del Sinai?».
    Quello che caratterizza il maestro è la capacità di
    ascoltare il discepolo, rispondere alla domanda che viene
    proposta e non a quella a cui il maestro vuole rispondere
    e queste domande non saranno mai le stesse. Il vero saggio
    (e non è piaggeria dire che, in tutti i racconti evangelici,
    Gesù offre un modello per l’insegnante) porrà perciò
    una domanda per chiarire un’altra domanda (e anche per
    rispondere ad essa). Perciò Gesù potrebbe voler sapere
    che cosa intendo quando dico: «Che cosa ne sarà di
    noi?».
    Ed io risponderò subito a questa domanda piuttosto
    che chiedere a Gesù di indovinarlo: «Capisco il tuo insegnamento
    sui comandamenti che prescrivono di non uccidere,
    non commettere adulterio, non giurare il falso. La
    tua siepe intorno a questi comandamenti della Torah è alta
    e solida. Sono una persona migliore perché ho ascoltato
    il tuo insegnamento, sono più fedele alla Torah di Dio
    di quanto lo fossi stato prima: tu hai davvero dato compimento,
    chiarificato, elaborato, tu non abolisci o distruggi
    affatto. Ma allora, tutto il tuo insegnamento dà compi
    88

    mento alla Torah facendo riferimento solo alla mia condotta
    individuale? Non c’è nessun insegnamento che mi
    riguardi in quanto parte di una famiglia, in quanto parte
    di quell’Israele che esisteva già prima del Sinai e che si
    radunò ai piedi del Sinai: figli di Abramo e Sara, Isacco e
    Rebecca, Giacobbe, Lia e Rachele? Io sono parte della
    famiglia di Israele? Che cosa hai da dirmi in questa famiglia?
    ».
    Sarebbe presuntuoso da parte mia chiedere al maestro
    di ripetere qualcosa che aveva già detto forse in precedenza.
    Perciò, prima di proseguire, ripenso all’insegnamento
    che ho ascoltato nel “Discorso della Montagna”.
    Alla ricerca di un messaggio per le famiglie che formano
    Israele, lo cerco in questo discorso, specialmente in ciò
    che, secondo Matteo 5-7, Gesù avrebbe detto quel giorno.
    C’è qualcosa che riguarda non “tutto Israele” in rapporto
    a Dio - «Non avrai altri dèi al di fuori di me» - né
    me personalmente in rapporto a Dio, ma me, in quanto
    parte della mia famiglia, pietra fondante dell’ordine sociale
    di Israele?
    La risposta verrà, naturalmente, dall’identificazione di
    quel “voi” al quale Gesù si rivolse sulla montagna. Do
    per certo che si tratta proprio di “me”; ma “voi” è plurale
    non solo singolare e di fronte a Gesù c’erano molti “io”.
    E per sapere chi intendesse con il suo “voi”, dobbiamo
    giocare con i due tipi di ascoltatori: «E messosi a sedere,
    gli si avvicinarono i suoi discepoli. Prendendo allora la
    parola, li ammaestrava dicendo...» (Matteo 5,1-2). C’è
    perciò il gruppo dei discepoli in cima alla collina e c’è la
    massa d’Israele ai piedi della collina.
    «Maestro, a chi ti rivolgi? Solo ai discepoli? Certamente
    no. Molto di quello che hai detto quel giorno era
    rivolto a tutti noi. A tutti noi in generale, allora? Certamente
    no. Alcune cose riguardavano in particolare i tuoi
    89

    discepoli, ad esempio: “Beati voi quando vi insulteranno,
    vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di
    male contro di voi a causa mia”» (.Matteo 5,11).
    «Maestro, nel tuo “voi” è compreso anche Israele, ma
    non in astratto, bensì come esso è qui ed ora nel mio villaggio
    e nella mia famiglia?».
    «Maestro, tu parli soltanto a me e non alla mia famiglia?
    Solo alla famiglia dei tuoi discepoli e non alla tua
    famiglia secondo la carne?».
    «Perciò, maestro, dov’è il luogo e il tempo nel tuo
    “voi”, per quel “noi” che costituisce Israele?».
    Il maestro non deve rispondere alla domanda, perché
    lo ha già fatto. Sta pensando ad altre cose. Io sto facendo
    le mie domande e lui sta dando le sue risposte. Se non
    faccio mie le sue domande, non sto ascoltando le sue risposte.
    Nelle sue risposte io odo anche una risposta alle
    mie domande.
    «Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello
    che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di
    quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e
    il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo; non
    seminano, non mietono, né ammassano nei granai; eppure il
    Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di
    loro? E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere
    un’ora sola alla sua vita? Non affannatevi dunque dicendo:
    che cosa mangeremo? o che cosa berremo? che cosa indosseremo?
    Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il vostro
    Padre celeste infatti sa che ne avete bisogno. Cercate
    prima il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi
    saranno date in aggiunta» (Matteo 6,25-27.31-33).

    In questo caso il maestro certamente si rivolge ad
    Israele, attraverso un “voi” che ci comprende tutti. Egli è
    esplicito, quando mette in opposizione questo “voi” con i
    90

    pagani; i pagani cercano, perciò, queste cose, ma «il Padre
    celeste sa che ne avete bisogno». Gesù ha così un
    messaggio per me in Israele. Ma Israele, in questo caso,
    non è formato dalla famiglia e dal villaggio; alle preoccupazioni
    della famiglia e del villaggio - l’Israele attuale
    e presente - , al cibo, all’acqua, ai vestiti e al riparo,
    provvederà naturalmente Dio. Ma allora, se ciò che mi
    preoccupa è il suo regno e la sua giustizia, dove e con chi
    vivo non ha davvero importanza. Ancora una volta anche
    nel silenzio troviamo un messaggio, come ne ricevemmo
    uno anche nel discorso che ascoltammo dalla cima della
    montagna. Questo “Israele” è qualcosa d’altro, differente
    dall’Israele che conosco, fatto di case e di famiglie. E la
    mia discussione consiste soltanto di un “ma”:

    «Ma, maestro, l’Israele fatto di case e di famiglie è il posto
    dove io vivo».

    Questa risposta mi porta a farmi, anche, altre domande
    scaturite dalla mia meditazione sui Dieci Comandamenti.
    Che ne è di Israele dove esso è, che ne è di Israele dove
    vive? E per chiarire queste domande piuttosto oscure e
    spiegare che cosa significano, ci volgiamo ad uno dei comandamenti,
    a quello che ci prescrive di santificare il sabato,
    il comandamento che ci parla del tempo e dello
    spazio: Israele che vive qui e ora nella famiglia e nel villaggio.

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    אילון

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    «RICORDATI DEL GIORNO DI SABATO
    PER SANTIFICARLO»

    contro

    «GUARDA, I TUOI DISCEPOLI STANNO
    FACENDO QUELLO CHE NON È LECITO FARE
    DI SABATO»

    «In quel tempo Gesù passò fra le messi in giorno di sabato
    e i suoi discepoli ebbero fame e cominciarono a cogliere
    spighe e le mangiavano. Vedendo ciò, i farisei gli dissero:
    “Ecco, i tuoi discepoli stanno facendo quello che non è lecito
    fare in giorno di sabato ”. Ed egli rispose: “Non avete
    letto quello che fece Davide quando ebbe fame insieme ai
    suoi compagni? Come entrò nella casa di Dio e mangiarono
    i pani dell’offerta, che non era lecito mangiare né a lui
    né ai suoi compagni, ma solo ai sacerdoti? O non avete letto
    nella Legge che nei giorni di sabato i sacerdoti nel tempio
    infrangono il sabato e tuttavia sono senza colpa? Ora vi
    dico che c ’è qualcosa più grande del tempio. Se aveste
    compreso che cosa significa: ‘Misericordia io voglio e non
    sacrificio’ [Osea 6,6], non avreste condannato persone senza
    colpa. Perché il Figlio d e ll’uomo è signore del sabato”»
    (Matteo 12,1-8).

    I racconti sui molti miracoli del maestro - guarigione
    dei lebbrosi, delle paralisi e delle febbri; acquietamento
    della tempesta; espulsione dei demoni - dovrebbero attirare
    la mia attenzione. Ma io dovrei essere abituato ai
    miracoli; la Torah mi induceva ad attenderli e i taumaturghi
    di quel tempo non mi avrebbero deluso. Queste cose
    possono apparire necessarie, ma erano banali ai miei occhi.
    La mia preoccupazione, infatti, non era tanto quella
    di trovare prove sovrannaturali per le affermazioni del
    maestro, ma imparare ciò che lui aveva da insegnarmi
    sulla Torah: analisi, discussione, prove. E va a merito di
    Gesù aver mandato via la gente che chiedeva un segno,
    perché quello che importava era il messaggio.
    Perciò, mentre il maestro percorreva le città e i villaggi,
    insegnando nelle “loro” sinagoghe, «predicando il
    vangelo del regno e curando ogni malattia e infermità»
    (Matteo 9,35), io avrei manifestato un amichevole e paziente
    interesse. In ogni caso, il discorso che gli avrei
    sentito fare sulla montagna in Galilea mi avrebbe lasciato
    pensieroso.
    Benché avessi ancora in mente i Dieci Comandamenti,
    avrei dovuto prestare più attenzione del consueto a quello
    che il maestro fece e disse di sabato. Il sabato rappresenta,
    infatti, il culmine e la realizzazione nella vita quotidiana
    della Torah. Ricordare di santificare il giorno di
    sabato formava e forma adesso quello che l’Eterno Israele
    fa insieme, è ciò che rende l’Eterno Israele ciò che è:
    il popolo che, come fece Dio quando creò il mondo, si riposò
    dalla creazione il settimo giorno. Il sabato presenta
    sia lati positivi sia negativi: in quel giorno non facciamo
    lavori manuali; in quel giorno celebriamo la creazione.
    Per sei giorni facciamo cose, ma nel settimo le apprezziamo.
    Osservare quello che il maestro e i discepoli fanno
    o non fanno di sabato e giudicarli su questa base mi
    esporrebbe, in verità, all’accusa di essere più “santo di
    te”. Chi sono io per controllare la santificazione della vita
    di qualcun altro?
    Dio si prende cura di tutti noi, ma soltanto Dio giudica
    tutti quanti. Non è questo il tipo di problema che avrei
    voluto sollevare. Ma se Gesù lo ha sollevato o se i discepoli
    agirono in un modo che la gente trovava, in generale,
    sorprendente o sconcertante, questa sarebbe un’altra
    faccenda. E le cose sarebbero andate così. Non ci sarebbe
    stata nemmeno la pretesa di osservare il sabato come
    la gente faceva abitualmente.
    Perché allora dovrebbe essere così importante? La Torah
    non è affatto una mera raccolta di formule magiche,
    di prescrizioni e di divieti. La posta in gioco per il sabato
    è assai alta e questo spiega perché Gesù e i suoi discepoli
    avrebbero esposto la loro dottrina anche nel contesto del
    sabato e della santità. Non lavorare di sabato, infatti, rappresenta
    ben più di un semplice rito. E un modo di imitare
    Dio. Dio riposò nel giorno di sabato e lo dichiarò santo
    (Genesi 2,1-4). Questo spiega perché noi, che formiamo
    l’Eterno Israele, riposiamo di sabato, lo “godiamo”,
    ne facciamo un giorno santo. Il settimo giorno della settimana
    noi imitiamo quello che Dio fece nel settimo
    giorno della creazione.
    Questo rende più sorprendente la maniera in cui Gesù
    presenta il problema. Scegliendo il sabato come argomento
    di discussione, Gesù individua un problema controverso
    piuttosto che andarsene in giro a compiere miracoli
    e prodigi che non trasmettono alcun messaggio e
    non hanno alcun significato. Gesù tratta del sabato, in
    particolare e con grande interesse, in due dichiarazioni
    parallele. Le due dichiarazioni trattano, appropriatamente,
    innanzitutto del sabato in rapporto con Dio e solo in
    un secondo momento in rapporto alle cose da fare e da
    non fare in quel giorno. Perciò Gesù si colloca, con il
    suo messaggio sul sabato, ben all’intemo della Torah: un
    istante mondano che ci rivela l’eternità.
    Il sabato costituisce il momento più importante della
    nostra vita con Dio e Gesù lo considera come il punto
    più importante del suo insegnamento; solo in un secondo
    94

    momento tratta delle cose da fare e da non fare e delle
    cose di cui non preoccuparsi.
    Queste dichiarazioni sul sabato (come Matteo me le
    racconta) si trovano, giustamente, in successione immediata.
    Gesù parla prima del riposo dal lavoro, e poi, solo
    in un secondo tempo, del sabato. Unendole insieme noi
    troviamo un messaggio veramente notevole:

    «Tutto mi è stato dato dal Padre mio e nessuno conosce il
    Figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il
    Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare. Venite a
    me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò.
    Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me che sono
    mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre
    anime. 11 mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero»
    (Matteo 11,27-30).


    Dal momento che, di sabato, riposo, come Dio riposò
    nel settimo giorno della creazione, qui trovo del tutto appropriate
    due domande: come arrivo a Dio? Come trovo
    riposo?
    Queste due domande, considerate in qualsiasi altro
    contesto che non fosse quello della Torah, sembreranno
    sconnesse. Ma i Dieci Comandamenti includono anche
    quello che recita: «Ricordati di santificare il giorno di sabato...
    perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la
    terra, il mare e quanto vi è in essi, ma si è riposato il settimo
    giorno; perciò il Signore ha benedetto il giorno di
    sabato e lo ha dichiarato sacro». Quando ricordiamo,
    adesso, che osserviamo il sabato perché Dio si riposò di
    sabato, comprendiamo che osservare il sabato ci fa simili
    a Dio. Il tema del lavoro e dei carichi gravosi, da un lato,
    e il riposo dall’altro, formano allora uno stretto legame
    con «Venite a me, e vi darò riposo».
    95

    Presa da sola, la dichiarazione di Gesù parla soltanto
    del riposo. Ma, come abbiamo visto, nello stesso contesto
    egli parla del sabato. Ascoltando quello che dice, io
    penso solo al sabato che rappresenta il modo in cui l’Eterno
    Israele trova riposo: «Sei giorni faticherai e farai
    ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore
    del Signore, tuo Dio: tu non farai alcun lavoro» (Esodo
    20,9-10). Il problema non è banale e non può essere trattato
    alla stregua di uno stupido rito, come non camminare
    sulle buche dei marciapiedi. La posta in gioco è davvero
    molta alta.
    Dio ci disse per bocca di Isaia: «Se... chiamerai il sabato
    delizia, se... lo onorerai evitando di metterti in cammino,
    di sbrigare affari e di contrattare; allora troverai la
    delizia nel Signore» (Isaia 58,13). Quando sento parlare
    del riposo per la mia anima, di sosta per il mio lavoro,
    Gesù sta parlando di scambiare il mio carico pesante col
    suo e di trovare così riposo. E nello stesso contesto apprendo
    nel racconto di Matteo come i discepoli di Gesù
    raccolsero cibo di sabato - Isaia lo avrebbe chiamato
    «sbrigare affari e contrattare» (Isaia 58,13) - e come egli
    spiegò chi fosse e che cosa fosse importante: «Il Figlio
    dell’uomo è il signore del sabato».
    Questo insegnamento è illustrato dall’azione seguente,
    secondo la quale «è permesso compiere il bene di sabato»:

    «Allontanatosi di là, andò nella loro sinagoga. Ed ecco, c’era
    un uomo che aveva la mano inaridita, ed essi chiesero a
    Gesù: “È permesso curare di sabato?”. Dicevano ciò per accusarlo.
    Ed egli disse loro: “Chi tra di voi, avendo una pecora,
    se questa gli cade di sabato in una fossa, non l’afferra
    e non la tira fuori? Ora, quanto più prezioso è un uomo di
    una pecora! Perciò è permesso fare del bene anche di sabato”
    » (Matteo 12,9-12).

    96

    Tuttavia, come vediamo, in discussione nel sabato non
    c’è un problema etico («è lecito fare il bene»). Quando
    ricordiamo perché riposiamo di sabato, dobbiamo trovare
    piuttosto scioccante l’asserzione: «E lecito fare il bene
    di sabato». La ragione sta nel fatto che questa affermazione
    è semplicemente fuori luogo; il sabato non concerne
    il fare oppure il non fare il bene; il problema del sabato
    è la santità e, nella Torah, essere santi è essere come
    Dio.
    Il comandamento del sabato è, in verità, esplicito, e offre
    due distinte e altrettanto valide ragioni per il precetto
    del sabato:

    «Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il
    mare e quanto è in essi, ma si è riposato il settimo giorno;
    perciò il Signore ha benedetto il giorno di sabato e lo ha dichiarato
    sacro» (Esodo 20,11).


    «Osserva il giorno di sabato per santificarlo... Ricordati che
    sei stato schiavo nel paese d’Egitto e il Signore tuo Dio ti
    ha fatto uscire di là con mano potente, con braccio teso;
    perciò il Signore tuo Dio ti ordina di osservare il giorno di
    sabato» (Deuteronomio 5,12-15).


    Il sabato celebra la creazione; mi riposo dalla mia
    creazione perché Dio si riposò quel giorno dopo aver
    creato il mondo; mi riposo in quel giorno per ricordare
    che non sono uno schiavo e il mio schiavo si riposa in
    quel giorno anche lui, perché sia ricordato che lo schiavo
    non è uno schiavo. In entrambi i casi, il sabato si impone
    sull’ordine sociale, il momento che definisce la società,
    in particolare un ordine sociale che si organizza intorno
    ai giorni della settimana.
    Affrontando la questione del sabato, perciò, Gesù e i
    suoi discepoli attaccano direttamente un problema deci-
    97

    sivo: che cosa dobbiamo fare per imitare Dio? Come
    dobbiamo vivere per trasformarci nell’Eterno Israele che
    Dio, attraverso la Torah, ha portato alla vita?
    Come l’onore che dobbiamo al padre e alla madre,
    perciò, la celebrazione del sabato definisce che cosa
    rende Israele Israele. L’intero modo di vita della comunità
    ruota intorno a quel giorno. Ecco un esempio di come
    ogni momento della settimana si rivolge verso quel
    giorno:

    «Elazar b. Hanania b. Hizqia b. Hanania b. Garon dice: “Ricorda
    il giorno di sabato per santificarlo. Ricordatene fin
    dal primo giorno della settimana, perché se ti capitasse
    qualcosa di buono da mangiare, tu possa prepararlo per il
    sabato”. R. Itzhaq dice: “Non contare i giorni della settimana
    nel modo in cui li contano gli altri, ma contali a partire
    dal sabato [il primo, il secondo giorno fino al settimo che è
    il sabato]”» (Mekhilta di Rabbi Ishmael 53,2.7, traduzione
    di A. Mello, op. cit., p. 86).


    Il primo punto da osservare è che i sei giorni lavorativi
    sono rivolti verso il settimo giorno e, durante la settimana,
    dobbiamo ricordarci del sabato, contando persino i
    giorni che mancano al suo arrivo. Come dobbiamo, allora,
    celebrare il sabato?
    E uno stato d’animo: riposarci dal pensiero stesso del
    lavoro.

    «Per sei giorni lavorerai, compiendo ogni tuo lavoro. È forse
    possibile all’uomo compiere in sei giorni tutto il suo lavoro?
    Ma tu riposa, come se ogni tuo lavoro fosse compiuto.
    Altra spiegazione (che riguarda sempre “per sei giorni
    lavorerai, compiendo ogni tuo lavoro”). Riposa persino dal
    pensiero di lavorare. Infatti si dice: “Se tratterrai il tuo piede
    dal sabato {Isaia 58,13), allora ti delizierai nel Signore”»

    98

    (Mekhilta R. Ishmael 53,2,9,10; traduzione di A. Mello, op.
    cit., p. 87).
    Nessuno finisce l’opera della creazione in sei giorni,
    anche l’opera della creazione da parte di Dio va avanti
    continuamente. Questo non è allora il punto centrale del
    sabato. Ciò che costituisce il punto centrale del sabato è
    invece che, in quel giorno, non pensiamo alla creazione,
    ma alla celebrazione della creazione: un giorno di lode.
    E l’ultima frase contiene la chiave: se eviti di lavorare di
    sabato, allora tu hai gioia in Dio. Noi apprezziamo, ancora
    una volta, che il sabato è il nostro modo di avere
    gioia in Dio. E non è sorprendente che il sabato sia il dono
    di Dio all’umanità, dal momento che per noi e non
    per Dio era necessario il riposo:

    «“Ma si riposò nel settimo giorno”. Forse che Egli conosce
    stanchezza? Non si dice al contrario: “Il creatore di tutta la
    terra non si affatica e non si stanca” (Isaia 40,28). “Egli dà
    forza all’affaticato” (Isaia 40,29). “Dalla parola del Signore
    fu fatto il cielo e la terra” (Salmo 33,6)?


    Come può dire dunque la scrittura che si riposò? In realtà,
    è come se Egli abbia permesso che si scrivesse di lui
    che, dopo aver creato il suo mondo in sei giorni, nel settimo
    si riposò. Cosicché noi possiamo applicare il criterio
    qal wahomer1', se infatti Colui che non conosce stanchezza
    ha permesso che si scrivesse di lui che, dopo aver
    creato il suo mondo in sei giorni, nel settimo si riposò,
    quanto più nel settimo giorno deve riposarsi l’uomo, del
    quale sta scritto: “Per la fatica è nato l’uomo” (Giobbe
    1 Qal wahomer:


    secondo questa regola ermeneutica, enunciata dal rabbino
    Hillel, vissuto tra il i sec. a.C. e il I sec. d.C., è possibile inferire da un caso
    meno rilevante (qal significa “leggero”) una chiave di lettura per un caso
    più importante (homer significa “pesante”) (N.d.C.).
    99

    5,7)»
    (Mekhilta di R. Ishmael 53,2,17; traduzione di A.
    Mello, op. cit., p. 90).


    In tutte queste affermazioni, noi comprendiamo un po’
    di più sulle discussioni del sabato e, in questo contesto,
    noi vediamo che, di sabato, i cieli e la terra si incontrano;
    Dio e l’umanità si uniscono, mentre l’umanità imita Dio
    in un modo assai concreto e particolare.
    L’ordine sociale dell’Eterno Israele prende forma non
    nella sola divisione del tempo. Esso concerne anche la
    delimitazione dello spazio, perché la società diviene concreta
    sia nello spazio sia nel tempo. Quando, perciò, vediamo
    il sabato come il momento determinante nella vita
    deH’Eterno Israele, anticipiamo che questa affermazione
    racconta solo una parte della storia. L’altra parte riguarda
    dove Israele colloca se stesso e non solo quando il sabato
    arriva per santificare Israele. La definizione di dove deve
    essere trovato Israele diviene concreta nel sabato, in virtù
    di una semplice regola della Torah.
    Dio disse a Mosè di dire al popolo di restare a casa nel
    settimo giorno: «Vedete che il Signore vi ha dato il sabato!
    Per questo vi dà al sesto giorno il pane per due giorni.
    Restate ciascuno al proprio posto! Nel settimo giorno
    nessuno esca dal luogo dove si trova. Il popolo dunque
    riposò nel settimo giorno» {Esodo 16,29-30). Perciò per
    rispettare il sabato si rimane a casa. Non basta soltanto
    non lavorare. Si deve anche riposare. E riposare significa
    anche formare di nuovo, una volta alla settimana, il cerchio
    della casa e della famiglia, ciascuno a casa e al suo
    posto; rientrare nella vita del villaggio e della comunità,
    indipendentemente da come è vissuta la vita negli altri
    sei giorni della creazione.
    Anch’io posso capire questa preoccupazione profonda
    per il ritorno alla vita nella propria comunità che l’arrivo
    100

    del giorno santo - tempo sacro - provoca. Quando i miei
    bambini stavano crescendo, io considerai un mio preciso
    dovere passare il sabato con loro, a partire dalla cena del
    venerdì sera, quando la nostra famiglia si riuniva. Allora
    portavo i miei studenti a casa mia perché fossero parte
    della mia famiglia e perché i miei figli avessero davvero
    un’idea allargata di che cosa sia una famiglia. È il sabato
    che fa di una famiglia ebraica una famiglia santa, ed è rimanendo
    all’interno dei confini fisici della casa che la famiglia,
    in questo luogo e in questo momento della vita
    concreta e reale, si realizza compiutamente, si concretizza.
    Non stiamo parlando perciò qui di una formula magica,
    di una linea magica che non possiamo attraversare.
    Stiamo trattando, invece, dell’interazione tra spazio e
    tempo, in un giorno incantato: il giorno che ci trasforma
    in qualcos’altro rispetto a ciò che pensiamo di essere.
    Nel quadro del versetto citato che comanda al popolo di
    non andare nei campi a raccogliere la manna, risulta che
    ci si aspetta che la gente non porti dei pesi da un luogo
    all’altro. Ci si aspetta che rimangano a casa e che non
    trasportino cose da un luogo ad un altro luogo: due facce
    della stessa medaglia. Quello che comprendo è che non
    debbo lavorare di sabato, non debbo raccogliere cibo o
    portare pesi. Per contrasto, tuttavia, io resto al mio posto:
    “rimango al mio posto” significa che mi godo il riposo
    nel mio villaggio.
    Il divieto di sollevare e portare pesi da un posto all’altro,
    di sabato, diviene davvero effettivo all’inizio del sabato.
    In questa legge della Torah, pertanto, ci si presenta
    un giorno che definisce Israele nello spazio e nel tempo.
    Di conseguenza la Torah pone le basi per la costruzione
    della vita santa dell’Eterno Israele nel giorno di sabato.
    Esodo 16,29-30 esige da ogni persona di restare dove si
    trova nel giorno di sabato: «Vedete, il Signore vi ha dato
    101

    il sabato, perciò nel sesto giorno vi dà il pane per due
    giorni. Restate ciascuno al proprio posto! Nel settimo
    giorno nessuno esca dal luogo dove si trova. Il popolo
    dunque riposò nel settimo giorno». Restare al proprio
    posto non vuol dire, in verità, che una persona non possa
    lasciare la propria casa, ma significa che bisogna rimanere
    nel proprio villaggio che consiste dell’area abitata e
    delle sue immediate vicinanze.
    Isaia allude all’importanza di celebrare il giorno del riposo
    “senza sbrigare i propri affari”. «Se tratterrai il piede
    dal violare il sabato, dallo sbrigare affari nel giorno a
    me sacro... Io ti farò calcare le alture della terra» (Isaia
    58,13-14).
    Resto a casa nel mio villaggio, insieme a Dio cammino
    sulle alture. Quando viene il giorno santo, pertanto,
    esso mi incanta e mi trasforma. Io ero carico ed adesso
    lascio il mio fardello. Con il tramonto del sole, tutto è
    cambiato; io sono cambiato. Andavo dovunque. Ora sto
    a casa. Facevo ogni cosa; adesso faccio una sola cosa: ristorarmi
    e rallegrarmi. Non c’è da stupirsi se, nell’inno
    del sabato, noi cantiamo: «Coloro che osservano il sabato,
    gioiranno nel tuo regno». Il sabato è quando il regno
    di Dio viene. Giustamente, allora, Gesù collegò i due
    messaggi: prendete il mio giogo, il Figlio dell’uomo è il
    signore del sabato. Egli non avrebbe potuto rendere il
    problema più chiaro.
    Allora, quando io noto la condotta dei discepoli di Gesù,
    che raccolgono spighe nel giorno di sabato, facendo
    un lavoro manuale all’interno della creazione piuttosto
    che celebrare la creazione, la mia curiosità diviene più
    profonda. L’obiezione di Gesù fa riferimento al fatto che
    i seguaci di Davide presero del cibo riservato ai sacerdoti.
    Ne consegue che se abbiamo fame, possiamo fare
    qualsiasi cosa per procurarci cibo. Il sabato esige, però,
    102

    di preparare il cibo in anticipo, senza cucinare in quel
    giorno. Questo è il significato dell’affermazione che abbiamo
    notato prima, cioè di fare di ogni giorno della settimana
    una preparazione per il settimo giorno. Non accendere
    il fuoco, non portare oggetti, non cuocere cibo
    non sono dei divieti sciocchi, ma rappresentano l’espressione
    mondana di quell’atto di santificazione che imita
    l’atto di santificazione divina nel settimo giorno.
    Quando Gesù giustifica, in seguito, le azioni dei suoi
    seguaci sottolineando che il loro comportamento è corretto,
    dal momento che, nel tempio, i sacerdoti eseguono
    i riti cultuali, egli avanza un’obiezione assai profonda e
    afferma per sé qualcosa di paragonabile, per il suo grandissimo
    valore, a quello che disse sull'abbandonare il padre
    e la madre e seguirlo. Per capire quello che disse (e
    per cercare di afferrare quanto lo trovo sorprendente) dovete
    sapere che il tempio e il mondo che sta fuori di esso
    sono delle immagini specularmente opposte. Quello che
    facciamo nel tempio è l’opposto di quello che facciamo
    altrove.
    La Torah afferma esplicitamente che i sacrifici debbono
    essere offerti in quel giorno. Numeri 28,3-8; 28,9-10
    prescrive, per esempio, di offrire per il sabato un ulteriore
    sacrificio; il pane di presentazione era sostituito di sabato
    (Levitico 24,8).
    Ciascuno aveva ben chiaro, perciò, che quello che non
    doveva essere fatto fuori dal tempio, cioè nello spazio
    profano, doveva essere fatto nello spazio sacro, cioè nel
    tempio stesso. Quando, perciò, Gesù afferma che qui c’è
    qualcosa di più grande del tempio, può solo voler dire
    che egli e i suoi discepoli hanno compiuto, di sabato,
    quell’azione, perché essi hanno preso il posto dei sacerdoti
    nel tempio; il luogo santo è cambiato e si identifica
    con il gruppo formato da Gesù e dai suoi discepoli.
    103

    A turbarmi non è, pertanto, la disobbedienza dei discepoli
    a una delle leggi della Torah; si tratta di un fatto banale
    che esula dalla questione. A catturare la mia attenzione
    è l’affermazione di Gesù - un’esposizione davvero
    originale dei problemi -, che non mette in discussione il
    sabato, ma il tempio. La sua affermazione non riguarda,
    allora, se il sabato vada o meno santificato, ma dove sia
    e che cosa sia il tempio, il luogo dove si fanno, di sabato,
    delle cose che altrove non si debbono fare affatto. E non
    basta: come è permesso, di sabato, porre sull’altare il cibo
    da offrire a Dio, così è permesso ai discepoli di Gesù
    di preparare, di sabato, il loro cibo. È ancora un cambiamento
    davvero sbalorditivo.
    Per quale ragione non si dovrebbe convenire che l’intento
    di queste affermazioni - «Venite a me voi che siete
    stanchi e oppressi ed io vi ristorerò; ... voi troverete riposo
    per le vostre anime, perché il mio giogo è dolce e il
    mio peso è leggero... È lecito fare il bene di sabato» - è
    riassunto completamente nella semplice e necessaria conclusione:
    «Il Figlio dell’uomo è, infatti, il signore del sabato
    ». Proprio questo è in discussione negli insegnamenti
    del maestro su quel comandamento che riguarda il sabato.
    Sto per violare due fra i Dieci Comandamenti cioè
    «onorare il padre e la madre» e «osservare il sabato»? La
    stessa Scrittura, come abbiamo già notato, li ha legati insieme:

    «“Ognuno rispetti sua madre e suo padre e osservi i miei sabati”
    (Levitico 19,3). E come ricompensa? “Se tu tratterrai il
    tuo piede dal violare il sabato, allora troverai la delizia nel Signore”
    {Isaia 58,13-14)» (Mekhilta R. Ishmael, Bahodesh 8).

    Ancora una volta, superficialmente, c’è in gioco l’insegnamento
    di Gesù a violare due fra i Dieci Comanda
    104

    menti, entrambi connessi con la vita santa dell’Eterno
    Israele.
    Perché dubitare che Gesù conoscesse gli stessi versetti
    della Scrittura che i passi citati presentano? E perché domandarsi
    se Gesù avesse o meno compreso che, attraverso
    questi insegnamenti sul sabato, egli non dava affatto
    compimento al sabato, ma lo aboliva? Naturalmente egli
    sapeva bene che cosa significasse il sabato nella presentazione
    che ne fa la Torah e ovviamente egli comprendeva
    quanto era stata rivoluzionaria la sua decisione sul
    corretto comportamento dei suoi discepoli di sabato. Mi
    sembra chiarissimo, perciò, che ci troviamo di fronte ad
    un conflitto inconciliabile. L’alternativa è tra: «Ricordati
    di santificare il sabato» e «Il Figlio dell’uomo è il signore
    del sabato». Non possiamo scegliere entrambi.
    Una volta che abbiamo posto la questione in questi termini,
    allora la soluzione è ovvia. Gesù non propone di
    abolire, ma di dare compimento alla Torah, e anche: Gesù
    è il signore del sabato. Osservando allora il sabato nel
    modo in cui lo rappresenta Gesù, noi diamo compimento
    alla Torah alla maniera in cui Gesù le vuole dare compimento.
    E poiché la sua maniera differisce radicalmente
    dalla mia, è chiaro che stiamo ascoltando due diverse voci
    dal Sinai: lui per la sua parte, io per la mia. Ogni altra
    conclusione banalizza la sbalorditiva contrapposizione
    che il Cristo della fede sta esprimendo qui.
    Tornando ancora una volta al primo dei due discorsi sul
    sabato, a quello che parla di riposo e di ristoro, ricordiamo
    che venire a Dio è proprio ciò che è in gioco nel sabato
    e nel suo riposo: «Tutte queste cose mi sono state rivelate
    dal Padre mio, e nessuno conosce il Figlio fuorché il
    Padre, e nessuno conosce il Padre fuorché il Figlio e colui
    al quale il Figlio decide di rivelarlo». Queste parole, prese
    da sole, non hanno nessun chiaro collegamento con il sa-
    105

    bato. Esse non stanno, tuttavia, da sole, perché portano
    direttamente alla preghiera successiva rivolta al Padre attraverso
    il Figlio che così recita: «Venite a me, voi tutti,
    che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il
    mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite
    ed umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime.
    Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero».
    Il messaggio del Sinai per il sabato si ode a fatica sopra
    l’orizzonte lontano. E tuttavia se faccio di sabato
    quello che Dio fece il primo sabato, allora, sia pure in
    termini diversi, Gesù dice ai suoi discepoli quello che
    Mosè disse a tutto Israele. Di sabato ricordo e faccio
    quello che fece Dio: «Ricorda il giorno di sabato... perché
    in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra... e
    si è riposato nel settimo giorno; perciò il Signore ha benedetto
    il giorno di sabato, e lo ha reso sacro». Quelli
    che cercano riposo, secondo la revisione radicale di Gesù,
    cercano Dio così come noi lo cerchiamo; ma anziché
    lasciare i loro pesi, essi ne prendono uno nuovo: un giogo
    che è facile e leggero.
    Non fa meraviglia, allora, che il Figlio dell’uomo sia il
    signore del sabato! La ragione non sta né nell’interpretazione
    liberale che egli dà delle restrizioni del sabato, né
    nei motivi più o meno fondati che egli adduce per permettere
    alla gente di mietere e di mangiare il proprio raccolto
    in quel giorno o per curare i malati o fare ancora
    del bene in quel giorno. Gesù non fu affatto un nuovo
    rabbino riformatore che rendeva la vita più facile alla
    gente. E nessuno che osservi il sabato per imitare Dio fa
    molta attenzione alle interpretazioni di maggiore o minore
    rigore se non per sapere, attraverso la Torah, che cosa
    Dio vuole da noi.
    Il problema non sta nella leggerezza del peso, ma altrove.
    106

    In discussione è la rivendicazione di autorità da parte
    di Gesù e non il carattere più o meno rigoroso della sua
    decisione su ciò che dobbiamo fare nel giorno santo.
    Questi consigli esprimono semplicemente e concretamente
    una convinzione molto più profonda e se egli disse
    davvero queste cose, come dobbiamo riconoscere per
    lo scopo di questa discussione, egli volle affermare, dunque,
    per mezzo loro, che lui e i suoi discepoli formavano
    una nuova entità al posto di quella vecchia. E le sue decisioni
    legali - intese nel contesto che la Torah avrebbe assunto
    in futuro - non derivano da quella ristretta lettura
    di passi scritturistici che noi chiameremmo esegesi, benché
    esse nascano da un’attenta lettura esegetica di racconti,
    di fatti e di obiezioni comunemente accettate. La
    storia di Davide, il fatto che i sacerdoti officino nel tempio
    di sabato, il richiamo all’ovvio diritto di fare il bene
    di sabato, indicano che un cambiamento fondamentale
    ha avuto luogo nella sua persona e in sua presenza. In
    discussione non c’è né l’osservare né l’infrangere il comandamento
    sul sabato, ma invece, qui come altrove, la
    persona di Gesù o secondo il linguaggio cristiano, di Gesù
    Cristo. Quello che importa di più è la semplice affermazione:
    «Nessuno conosce il Padre tranne il Figlio e
    chiunque al quale il Figlio decida di rivelarlo». Qui, in
    questa frase allarmante e poco consequenziale rispetto a
    quanto precede e segue, sta l’essenza dell’insegnamento
    sul sabato: il mio giogo è leggero, io vi do ristoro, il Figlio
    dell’uomo è invero signore del sabato, perché il Figlio
    dell’uomo è ora il sabato di Israele: il nostro agire
    come Dio.
    Nel contesto stesso del sabato, quando, nello spazio
    sacro e nel tempo sacro, Israele agisce come Dio, afferriamo
    che Gesù affronta proprio il problema del significato
    della conoscenza di Dio, e lo fa precisamente nel
    107

    modo in cui, dal Sinai in poi, Israele conosce Dio e agisce
    come Dio: il sabato. Gesù ha scelto con grande precisione
    il messaggio che desiderava esporre sul sabato, sia
    riguardo al punto principale, sia riguardo ai dettagli e alle
    conseguenze che scaturiscono da esso.
    Quando si arrivò a discutere di questi tre comandamenti
    che Gesù rese così ricchi di significato, volevo interrogarlo
    sulla dimensione pubblica e su quella privata
    della mia esistenza - cioè sulla comunità, sulla famiglia
    e sulla casa - che mi sembravano trascurate. Che cosa ne
    pensa Gesù della vita di Israele in quanto comunità? Nel
    tempo e nello spazio, Israele visto come comunità, diviene
    santo nell’incanto del sabato. Il villaggio si isola: le
    famiglie si radunano, allora, in casa, formando una comunità
    in preghiera, che prende parte ai riti religiosi e
    che studia la Torah, in sinagoga.
    Israele è Israele di sabato: santo, ogni persona che fa
    quello che fece Dio, tutto Israele che vive fuori della perfetta
    creazione che fu benedetta e fu santificata in quel
    giorno. Mi domando allora: dove è il messaggio di Gesù
    per me, non come individuo preoccupato di non uccidere,
    di non commettere adulterio, di non giurare il falso,
    ma come membro di una famiglia e come membro di
    una comunità che condivide l’ordine sociale del popolo
    santo?
    Gesù mi ha allora insegnato a violare uno dei due
    grandi comandamenti, fra i Dieci Comandamenti, quelli
    che riguardano l’ordine sociale? La risposta positiva o
    negativa dipende dalla vostra prospettiva.
    Dalla prospettiva della Torah, così come io la comprendo,
    solo Dio è il signore del sabato. Tutto quello che
    Dio vuole che io conosca, me lo ha rivelato sul Sinai.
    Tutti noi conosciamo Dio attraverso la Torah ed è a tutto
    quanto Israele che Dio ha rivelato la Torah. La Torah mi
    108

    insegna a riposare di sabato, perché questo è il modo in
    cui imparo ad agire come Dio. Gesù insegna tutto questo
    in un modo differente e per un altro scopo. Anche lui ha
    ascoltato il messaggio dal Sinai, ma quando si tratta del
    sabato, egli ha inteso individualmente quello che il resto
    d’Israele ha inteso dire a noi tutti, ugualmente e allo stesso
    tempo.
    Il discepolo incontrato lungo la strada può obiettare
    che è proprio così: attraverso lui conosciamo il Padre; attraverso
    il sabato fatto a suo modo noi portiamo quel
    giogo lieve, quel peso leggero che è il suo. Ancora una
    volta io e il discepolo siamo d’accordo: Cristo sta adesso
    sulla montagna, egli prende adesso il posto della Torah.
    Questa è la ragione per cui egli è il signore del sabato per
    quelli che possono affermare che noi conosciamo il Padre
    per mezzo del Figlio, soltanto attraverso questo Figlio.
    Ancora una volta noi ci troviamo ad un punto morto,
    che è lontano dal disaccordo del passato ma non molto
    vicino ad una discussione coerente.
    Dov’è allora la discussione? Dov’è l’interesse di Dio
    nel ricordare il sabato? La Torah mi insegna che facendo
    questo celebro la creazione e mi comporto di sabato come
    si comporta Dio nel giorno in cui la creazione cessa:
    benedicendo il sabato e santificandolo. Anche Gesù insegna
    che il sabato porta il dono del riposo, ma è il riposo
    che Dio dà attraverso il Figlio. Ci troviamo precisamente
    nel punto dove eravamo quando ci domandammo che cosa
    c’era in discussione nell’onorare il padre e la madre:
    osservare il sabato rappresenta il modo terreno di imitare
    Dio. Il signore del sabato rappresenta un modello terreno,
    secondo la frase della Torah: «Perché in sei giorni il
    Signore ha fatto il cielo e la terra... perciò il Signore ha
    benedetto...» e perciò: «Ricorda di santificare il giorno di
    sabato» non lavorando, come Dio che smise di lavorare.
    109

    Perciò io chiedo al discepolo se è proprio vero che il
    suo maestro, il Figlio dell’uomo, sia il signore del sabato.
    E soggiungerei, rifacendogli la domanda che già gli
    posi: «Il tuo maestro è Dio?».
    E questo è il nocciolo della questione. Non è possibile
    nessuna discussione? Al contrario, noi possiamo svolgere
    una discussione seria incentrata sulla perfezione. Che
    cosa dobbiamo fare per essere simili a Dio? Tutto mi ha
    preparato ad affrontare questo problema, e a rapppresentare
    una discussione non con il discepolo, ma con lo stesso
    maestro.
    «Maestro, se tu sei il signore del sabato, e se, nell’osservare
    il sabato mi comporto come Dio, allora che cos’altro
    devo fare per essere come Dio? So che cosa mi
    insegna la Torah; fammi ascoltare anche la tua lezione».
    110


    «VOI SARETE SANTI, PERCHÉ IO,
    IL SIGNORE VOSTRO DIO, SONO SANTO»

    Contro

    «SE VUOI ESSERE PERFETTO, VA’, VENDI
    TUTTO QUELLO CHE POSSIEDI; POI VIENI
    E SEGUIMI»

    «Ed ecco un tale gli si avvicinò e gli disse: “Maestro, cosa
    devo fare per ottenere la vita eterna?”. Egli rispose: “Perché
    mi interroghi su ciò che è buono? Uno solo è buono. Se
    vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti”. Ed egli
    chiese: “Quali?”. Gesù rispose: “Non uccidere, non commettere
    adulterio, non rubare, non testimoniare il falso,
    onora il padre e la madre [Esodo 20,12-16], ama il prossimo
    tuo come te stesso” [Levitico 19,18]. Il giovane gli disse:
    “Ho sempre osservato tutte queste cose; che mi manca
    ancora?”. Gli disse Gesù: “Se vuoi essere perfetto, v a ’,
    vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro
    nel cielo; poi vieni e seguimi”. Udito questo, il giovane se
    ne andò triste, poiché aveva molte ricchezze»
    (Matteo 19,16-22).


    I dettagli dei Dieci Comandamenti, cioè onorare i genitori
    o seguire il Cristo, osservare la santità del sabato o
    riconoscere il Figlio dell’uomo come signore del sabato,
    stanno in verità in secondo piano. Essi sono importanti,
    ma esemplificano soltanto il problema fondamentale affrontato
    da Gesù.
    Ma che cosa dire del problema davvero fondamentale:
    che cosa vuole Dio da me? E come posso trasformarmi

    111
     
    .
  7. cogito
     
    .

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    Secondo il pensiero cristiano, con Gesù si instaura una Nuova, ovvero, Seconda Alleanza, nella quale la Legge viene "iscritta nei cuori"(Ger31,31)
    Allora, non è più la Legge scritta esternamente(Torah) a stabilire come deve essere rispettato il Sabato, ma quello che è stato "iscritto nel cuore" mi istruisce in proposito.
    Ciò che vale per il Sabato vale naturalmente anche per gli altri Comandamenti.
    L'essenza del Comandamento, cioè l'imitazione di D-o, insita nel rispetto del Sabato, rimane inalterata, perché facendo del Bene si imita molto di più e molto più pienamente D-o ("Uno solo è Buono")
    Gesù presenta e si presenta come un nuovo modello di imitazione di D-o.
    Quando invita ad andare da Lui per "trovare riposo" intende un tipo di riposo sabatico nuovo, un'imitazione nuova di D-o.
    Quindi, nell'ottica del cristiano, Gesù il Cristo, rappresenta la Legge Vivente.

    Riporto questa citazione da una sintesi di "Il Vangelo ebraico" di Daniel Boyarin fatta da Marco Fasol.

    "Ricapitolando, Boyarin arriva a sostenere che già nell’antico ebraismo erano presenti, anche se in forma misteriosa e profetica, le idee dell’Incarnazione divina e della Trinità. Mi sembra che si tratti proprio di una svolta interessantissima per i rapporti contemporanei tra ebraismo e cristianesimo. Le tesi di questa “autorità rabbinica” di fama mondiale possono aprire la porta ad un dialogo tra ebraismo e cristianesimo capace di trovare un terreno comune molto più ampio di quanto si è creduto finora. Leggiamo le testuali parole di Boyarin: “Gli ebrei dovranno smetterla di svilire le idee cristiane su Dio, considerandole una congerie di fantasie ‘non ebree’, forse pagane, sicuramente strampalate… le idee cristiane non sono del tutto aliene alle nostre, sono nate dalle nostre, ed a volte , forse, da alcune antichissime idee ebraico-israelitiche.” (p. 27).
     
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    Ho letto il libro in questione, certamente molto interessante.L'autore tuttavia limita il suo campo di indagine al vangelo secondo Matteo; ora, sono personalmente convinto che nel complesso il messaggio di Gesù si sia meglio conservato nel Vangelo secondo Luca,a dispetto della affermata "ebraicità" attinente al testo di Matteo ( uso questi nomi per tradizione;concordo infatti con l'opinione accademica secondo cui tali opere siano state redatte da più autori rimasti anonimi, ed in fasi storiche diverse).Personalmente non credo che Gesù concepisse la sua attività con particolare riferimento all'approfondimento della Torah;certo,era un ebreo osservante della Legge, ma non mi sembra che traspaia dal complesso delle fonti una sua particolare inclinazione a disquisizioni di carattere halachico; la sua è una visione di stampo prettamente escatologico:Gesù mi appare come un "hasid" galileo, e già come tale più orientato all'azione che all' Halachah ( quindi secondo una dimensione essenzialmente etico-sapienziale) ,convinto che fosse imminente un intervento diretto di HaShem nella storia d'Israele e del mondo ( il Regno di Dio appunto); di conseguenza, Gesù si sentiva investito dal Gran Re ( un messia quindi, anche se forse non si considerava "Il Messia") della missione di recuperare "le pecorelle perdute della casa d'Israele" e di condurle verso il Regno, insieme ai giusti. La visione di Gesù come "nuovo Mosè" mi sembra una caratteristica del solo Matteo.Opinione meramente personale la mia .

    HaShem vi benedica
     
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    אילון

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    in ciò che Dio vuole che io sia e in che cosa Dio mi fa
    diventare? Si può intavolare una discussione su quel problema
    fondamentale? E se fossi stato là, che cosa avrei
    dovuto ascoltare e come avrei dovuto reagire di fronte al
    nucleo degli insegnamenti di Gesù?
    Immaginate dunque che quel giorno io fossi là vicino
    e fossi testimone di questo meraviglioso dialogo: «Che
    cosa devo fare per avere la vita eterna?». Io mi sarei avvicinato
    al maestro per ascoltare ogni sua parola; questo
    è il nocciolo del problema: che cosa mi accadrà quando
    morirò, che è un altro modo di chiedere che cosa Dio
    vuole davvero che io faccia, e che io sia in questa vita.
    Gesù, come tutti noi ebrei, darebbe per scontato che la
    Torah risponde alla domanda e tutti noi insieme avremmo
    compreso che quello che io faccio in questa vita concorre
    a decidere quello che mi capiterà nell’eternità. La
    domanda del giovane è meditata e giusta e quello che
    realmente vuole che il maestro ci dica, a conti fatti, è:
    che cosa conta davvero?
    Questa domanda, normale e pressante per gli Israeliti
    che credono nella vita dopo la morte e nel mondo a venire,
    dà per scontato che quello che faccio interessa a Dio e
    che Dio mi ricompenserà o mi punirà per come agisco in
    questa vita.
    Il giovane che fece questa domanda, Gesù e i suoi discepoli
    e tutti noi condividiamo questa fede. È naturale
    per noi domandarci che cosa fare per meritare la vita
    eterna e la risposta di Gesù è fedele alla Torah: «Osserva
    i Dieci Comandamenti e il Grande Comandamento» (Levitico
    19,18).
    Abbiamo qui una risposta totalmente coerente con gli
    insegnamenti della Torah. Se la storia fosse finita qui, mi
    sarei accodato volentieri per ascoltare ancora altri insegnamenti
    da questo vero maestro della Torah. Un grande
    112

    maestro non è, infatti, colui che dice qualcosa di nuovo,
    ma colui che dice quello che è vero e il maestro che cerco
    è colui che mi parla, che vuol farsi trovare da me, cosicché
    possa anch’io imparare ciò che Dio esige da me
    attraverso la Torah.
    Ma la conversazione non si fermò là. Il giovane trovò
    lacunosa la risposta e, scrutandone la faccia, ne avvertii
    la delusione. Egli voleva qualcosa di più di una risposta
    normale. Lui ed io avremmo potuto replicare a questo; io
    gli avrei detto, infatti, che quello che la Torah offre è tutto
    ciò che hai e tutto ciò che dovresti volere. Ma lui stava
    parlando con Gesù, non con me.
    Il giovane disse: «È tutto qua? Che cosa mi manca?».
    Gesù replicò: «Se hai in mente la perfezione...».
    Questo rapido dialogo mi mise in allarme. Gesù stava
    spostando la discussione da «quello che devo fare per
    avere la vita eterna» a «se vuoi essere perfetto». Qui c’è
    un cambiamento profondo. Gesù ha afferrato la domanda
    che il giovane voleva porre davvero, che non riguardava
    semplicemente la vita eterna, ma la perfezione che è
    qualcosa d’altro.
    Questo giovane vuole essere più che mortale, dal momento
    che aspira ad essere perfetto, accettando quello
    che noi esseri umani siamo? Tutti noi, dopo tutto, conosciamo
    la storia di Adamo ed Èva. Ricordiamo il triste
    racconto delle dieci generazioni che vanno da Adamo ed
    Èva ad Abramo, la discesa dell’umanità verso il diluvio.
    La perfezione, certamente! Lasciami almeno osservare
    quello che Dio, che comprende la mia fragilità, mi chiede:
    almeno qualcuno dei Dieci Comandamenti, almeno
    «Ama il tuo prossimo come te stesso».
    La perfezione? Chi l’ha mai menzionata, chi ci ha mai
    pensato? La semplice vita eterna è per i mortali e Dio
    comprende che cosa e chi siamo: «Il Signore vide che la
    113

    malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni
    disegno concepito dal loro cuore non era altro che male.
    E il Signore si pentì di aver fatto l’uomo sulla terra e se
    ne addolorò in cuor suo» (Genesi 6,5-6). Data la fragilità
    dell’umanità nessuno può attendersi la perfezione, come
    prezzo della vita eterna.
    Per capire che cosa c’è in discussione in questo dialogo,
    dobbiamo far dunque un salto in avanti di duecento
    anni e ascoltare quello che gli altri maestri della Torah,
    all’infuori di Gesù, risposero alla domanda: che cosa deve
    fare l’uomo per guadagnare la vita eterna, o il mondo
    a venire, o la vita dopo la morte, oppure il regno dei cieli?
    Tutte queste differenti definizioni indicano, così mi
    sembra, la stessa cosa. Essi definirono le cose in maniera
    più limitata rispetto al Gesù di Matteo, non esigendo
    nemmeno la perfetta obbedienza ai Dieci Comandamenti
    o alla “Regola Aurea” espressa da Levitico 19,18. Tutto
    ciò che richiesero fu la fede e la lealtà in Dio; Dio, misericordioso
    e clemente, avrebbe fatto il resto.
    In verità il giogo di questi maestri era lieve, il loro carico
    leggero, poiché essi avevano affermato molto semplicemente:
    «Chiunque crede nella vita dopo la morte
    meriterà la vita dopo la morte», sebbene con alcune eccezioni:


    «Tutti gl’israeliti hanno parte nella vita a venire, conforme
    al testo che dice: “E il tuo popolo sono tutti giusti, in eterno
    possederanno la terra, un ramo dalle mie piantagioni, opera
    delle mie mani perché io ne sia glorificato” (Isaia 60,21).
    Questi sono quelli che non hanno parte nella vita eterna: chi
    dice che la risurrezione dei morti non si può dedurre dalla
    Scrittura o che la Torah non fu rivelata da Dio è un epicureo.
    R. Akiba opina: “Anche chi legge libri estranei e chi bisbigliando
    su una ferita dice: ‘Nessuno dei malori che posai

    114

    sugli Egizi non poserò su di te, perché io il Signore sono il
    tuo medico’” (Esodo 15,26).
    Abbà Saul aggiunge: “Anche chi pronuncia il nome di Dio
    con le sue lettere”» (Mishnah, Trattato Sanhedrìn 10,1 ; traduzione
    di V. Castiglioni, op. cit., pp. 153-154).


    Il contrasto fra questa definizione complessiva - tutti
    quanti tranne pochi peccatori di primo piano, soprattutto
    eretici, contro solo coloro che osservano solo i principali
    comandamenti o, ancora più limitatamente, soltanto i
    perfetti - è stupefacente. Questi saggi, che leggono la
    stessa Torah di Gesù, per ragioni che vedremo fra poco,
    dissero semplicemente che tutti i santi, cioè tutto il popolo
    santo, saranno salvati e tutto Israele è santo. Così la
    loro stessa dottrina su chi e che cosa sia l’Eterno Israele
    li istruì anche su chi ha parte nel mondo futuro e la Torah
    stessa definì Israele assai semplicemente: «Voi sarete
    santi, perché io, il Signore vostro Dio, sono santo».
    Questi pensieri mi hanno distratto dalla conversazione
    fra Gesù e il suo giovane interlocutore. Ma non basta:
    avrei voluto chiedere al maestro: «Maestro, così pochi?».
    Ma questo non è quello che voglio chiedergli davvero
    e, incoraggiato dalla pazienza del maestro, mi faccio largo,
    gli sono a fianco e parlo. Confido nella sua pazienza
    e, ricordando la pazienza che Dio ebbe sia con Sodoma e
    Gomorra, sia con Israele nel corso del tempo, spero che
    Gesù non risponderà in maniera brusca a quella che, a
    mio avviso, è una domanda spinosa.
    «Maestro, mi sembra che tu abbia risposto a una domanda
    che il giovane non ti aveva fatto e forse lui ti ha
    chiesto qualcosa alla quale non hai risposto. Ciò che lui
    voleva sapere riguarda quali buone azioni doveva fare.
    Egli non aspirava alla perfezione. Ma dicendogli come
    essere perfetto, tu hai spezzato la stessa vita che gli hai
    115

    promesso: “Se vuoi entrare nella vita eterna, osserva i
    comandamenti”. Ma se ti ascolta, che ne sarà di lui? Egli
    rinuncerà alla casa e alla famiglia, taglierà i suoi legami
    con tutto e con tutti aU’infuori di te: “Liberati da ogni
    cosa e seguimi”».
    Ritorniamo così ai dettagli: onora i tuoi genitori o servi
    il maestro? Ricorda il sabato o riconosci il maestro? È
    davvero proprio questo il nocciolo della questione?
    Spingendomi ancora oltre, posso delineare le cose in
    una maniera che il maestro approverà: la scelta della ricchezza
    contro quella della Torah è una scelta, perché non
    scegliere la ricchezza al posto di Cristo? Il maestro,
    pronto e sapiente, mi segnala un passaggio sul quale altri
    saggi della stessa Torah di Mosè data sul Sinai sarebbero
    stati, in futuro, quasi del medesimo avviso. Gesù rivela
    un tipo di sapienza vicina a quella di Akiba, che vivrà
    pochi decenni dopo di lui. In futuro, egli mi dice, ci sarà
    un maestro della Torah, che dirà al suo discepolo di vendere
    tutto quello che ha per studiare la Torah. Egli potrebbe
    pertanto affermare in maniera gentile che il suo
    parere non differisce molto da quello del maestro che
    verrà più tardi:

    «R. Tarfon diede a R. Akiba sei monete d’argento dicendogli:
    “Va’, compraci un pezzo di terra, cosicché avremo, allo
    stesso tempo, di che vivere e potremo studiare la Torah”.
    Egli prese il denaro e lo diede agli scribi, a chi insegnava la
    Mishnah e a chi studiava la Torah.
    Dopo qualche tempo, R. Tarfon lo incontrò e gli domandò:
    “Hai comprato la terra che ti avevo detto?”. R. Akiba rispose:
    “Sì”.
    Allora R. Tarfon gli chiese: “C’è un raccolto?”. Quello gli
    rispose: “Sì”.
    R. Tarfon replicò: “E non vuoi mostrarmelo?”.
    R. Akiba lo prese e gli mostrò gli scribi, coloro che insegna116
    no la Mishnah e la gente che stava studiando la Torah e la
    Torah che avevano acquistato.

    R. Tarfon gli disse: “C’è qualcuno che sta lavorando per
    niente? Dov’è l’atto che riguarda il campo?”.
    R. Akiba gli rispose: “Sta col re Davide, del quale è scritto:
    ‘Egli dona largamente ai poveri, la sua giustizia dura per
    sempre’ (Salmo 112,9)”» (Levitico Rabba 34,16).


    Quello che Akiba ha fatto è quasi la stessa cosa chiesta
    da Gesù in un contesto differente: «Liberati dei beni di
    questo mondo, consacra ogni tua ricchezza alla Torah».
    Il consiglio è lo stesso, solo il contesto cambia. Ci siamo
    soffermati abbastanza sugli insegnamenti di Gesù, per
    trovare familiare quelli dell’altra parte: «Vendi tutto
    quello che hai, da’ il denaro ai poveri e seguimi». L’equazione
    è la stessa, ma Cristo ha preso il posto della
    Torah.

    E tuttavia sento che le cose hanno subito una radicale
    riduzione, passando dalla perfezione al «seguimi». E tutto
    qui il messaggio del maestro? Naturalmente no, sono
    ben lungi dal pensarlo. Ancora una volta la conversazione
    - non è più davvero una discussione - scivola dal dettaglio
    al punto principale. Ma il pomeriggio sta per finire,
    cosicché dobbiamo separarci.

    Alcuni giorni dopo, ebbi la fortuna di ascoltare Gesù
    riprendere lo stesso problema, in maniera diretta e semplice.
    Che cosa vuole da me la Torahl II problema di che
    cosa debbo fare per ottenere ciò che voglio non è mai
    stato presentato in modo più sincero, innocente, oserei
    dire santo: che cosa vuole Dio da me? Gesù rispose ed
    insegnò un messaggio della Torah, dicendo al popolo
    quello che i saggi di Israele trovarono nella Torah, che
    cosa la Torah esigeva da loro:
    117

    «“Maestro qual è il più importante comandamento della
    Legge?”. Gli rispose: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto
    il cuore, con tutta l’anima e con tutta la tua mente. Questo è
    il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è
    simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da
    questi due comandamenti dipende tutta la Legge e i Profeti”
    » (Matteo 22,36-40).


    Abbiamo qui qualcosa di familiare ed autentico: amare
    Dio, come richiede lo Shema’x, la preghiera che proclama
    l’unità di Dio e la sottomissione di Israele al dominio
    di Dio; ed amare il proprio prossimo come se stesso.
    Nessun saggio potrebbe trovare da ridire contro questi
    insegnamenti. Nel come sono pensati sta lo spazio per la
    discussione e l’obiezione.
    Per capire perché, dobbiamo esaminare, dapprima, il
    contesto nel quale è inquadrato il secondo dei due comandamenti:

    «Il Signore disse ancora a Mosè: “Parla a tutta la comunità
    degli Israeliti e ordina loro: Siate santi, perché io, il Signore,
    Dio vostro, sono santo...”» (Levitico 19,1-2).
    «Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera
    apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai
    d’un peccato per lui. Non ti vendicherai e non serberai rancore
    contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo
    come te stesso: io sono il Signore» (Levitico 19,17-18).


    Se io dovessi soffermarmi su uno di questi “grandi comandamenti”
    della Torah, avrei detto: «Maestro, ce n’è
    un terzo che gli somiglia: “Voi sarete santi, perché io il

    1 Shema’\ preghiera che l’ebreo osservante recita al mattino e alla sera,
    prima delle altre orazioni. È composta da tre passi biblici (Deuteronomio
    6,4-9; 11,13-21; Numeri 15,37-41) e comincia con le parole «Ascolta (shema’)
    Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è Uno» (N.d.C.).


    Signore, tuo Dio, sono santo”». Questo è un comandamento
    che non si rivolge, dopo tutto, né a me personalmente,
    né a come devo amare Dio e neppure a me in relazione
    a qualcun altro, ma a tutti noi, a tutto Israele insieme.
    Ancora una volta, perciò, sono colpito dalla dimensione
    individuale alla quale Gesù si rivolge: Gesù si
    rivolge alla persona che cerca la salvezza e all’uomo alla
    ricerca di Dio. E fatti salvi i suddetti insegnamenti della
    Torah, la Torah afferma qualcosa su una dimensione della
    vita umana che, in questi detti, Gesù non distingue: la
    comunità nel suo complesso, quello che oggi noi chiameremmo
    “l’ordine sociale”.
    Perché non c’è nessun messaggio che riguarda la terza
    dimensione dell’esistenza umana, che trascende la vita
    umana in rapporto a se stessi, che va oltre il rapporto esistenziale
    fra due persone? Che cosa dire riguardo al rapporto
    con Dio? Significa amare Dio tutto questo? Non
    siamo noi tutti in relazione davanti a Dio? Posso amare
    Dio e il mio prossimo, ma vivere, tuttavia, a Sodoma.
    Ma Dio distrusse Sodoma. Dio si prende cura, perciò,
    certamente di ogni singolo individuo, più che di tutta l’umanità.
    Dio si prende cura di tutta l’umanità subito e
    complessivamente. Questa è la ragione, così insegna la
    Torah, per cui Dio elesse Abramo e Sara, Isacco e Rebecca,
    Giacobbe, Lia e Rachele ed amò a tal punto i loro
    figli da dargli la Torah sul Sinai.
    Questa è la ragione, a mio avviso, per cui ciò che Gesù
    ha detto acquista un grande peso; egli ha parlato a me,
    ma non a noi; nella sua interpretazione del comandamento
    fondamentale della Torah non c’è nessuna dimensione
    dell’Eterno e del Santo Israele. Egli ha detto che io dovrei
    vendere tutti i miei averi, darli ai poveri, e seguirlo;
    Akiba, nella stessa situazione, non disse di meno a Tarfon.
    Ma egli non ha detto che cosa noi - non io, ma noi,
    119

    Israele - dobbiamo essere; egli non ha detto come noi,
    l’Eterno Israele, dobbiamo sforzarci per essere come
    Dio. In fin dei conti «Ama il prossimo tuo come te stesso
    », chiude quel passo che comincia dicendo «Voi sarete
    santi; perché io... sono santo». Dal momento che Gesù
    conosce bene la Torah, almeno come qualsiasi altro, egli
    ha fatto le sue scelte, ha scelto quello che conta e ha taciuto
    su quello che non conta. Ci si aspetta questo, dopo
    tutto, da un maestro così originale nei suoi insegnamenti
    sulla siepe intorno alla Torah. «Voi avete sentito che fu
    detto... ma io vi dico...». Un pensiero affiora nella mia
    mente. Se avesse detto: «Voi avete sentito che fu detto,
    ma io non vi dico...».
    Tralasciata la fondamentale affermazione di Levitico
    19,2-3, la conclusione del quale, ripresa in Levitico
    19,18, ne rappresenta il punto culminante, mi sembra che
    Gesù abbia lasciato il punto principale fuori dal suo messaggio.
    Perché dovrei amare il mio prossimo come me
    stesso? Perché, come Mosè ci ha insegnato, «voi sarete
    santi, perché io, il Signore vostro Dio, sono santo». E
    questo significa essere come Dio, sforzarsi di raggiungere
    la santità propria di Dio. Tutto ij resto del capitolo della
    Torah, che raggiunge il suo culmine col secondo dei
    due grandi comandamenti, rappresenta un commento al
    comandamento sulla santità che Gesù non ha menzionato.
    Assai onestamente mi sento di dover criticare il maestro.
    Che genere di rispetto gli dimostrerei, se respingessi
    mentalmente la sua teoria senza dargli l’opportunità di
    replicare?
    «Maestro - gli domando - che cosa mi dici riguardo
    alla frase “voi sarete santi”? Che cosa vuole da me la Torah,
    quando mi dice di essere santo?».
    Mi fa cenno di andare avanti.
    «I nostri maestri - che la loro memoria sia benedetta -
    120

    pensano, infatti, che il comandamento di essere santi riassuma
    tutti e dieci i Comandamenti e che essere santi significhi
    osservare questi comandamenti. Così insegnano
    i nostri saggi».
    E fidandomi dell’acutezza di un maestro che anticipa
    gli insegnamenti che i saggi posteriori trarranno dalla Torah
    che egli conosceva così bene, avrei cercato nel futuro
    la spiegazione.
    «Posso andare avanti?».
    Un cenno d’assenso.
    «Maestro - gli dico - in futuro i saggi leggeranno la
    Torah e mostreranno come Levitico 19, lo stesso passo
    che noi stiamo studiando insieme, che insegna a Israele a
    essere santo, prevale sui Dieci Comandamenti. Essi dimostreranno
    e te lo dimostrerò, che nel comandamento
    di Levitico 19, sono compresi i Dieci Comandamenti di
    Esodo 20. Questa è per me una buona ragione per osservare
    i Dieci Comandamenti e cioè, che così io sarò santo,
    perché Dio è santo. Voglio essere come Dio e i Dieci Comandamenti,
    riaffermati in Levitico 19, mi insegnano ad
    essere come Dio. Maestro, avrai la pazienza di ascoltare
    come, in futuro, un rabbino ci avrebbe spiegato tutto
    questo?».
    Egli annuisce e io vado avanti:

    «Rabbi Hyya insegnò: “L’affermazione ‘Parla a tutta la comunità
    dei figli d’Israele’ (Levitico 19,2) insegna che l’intero
    passo fu pronunciato in occasione della riunione. E perché
    fu pronunciato in occasione della riunione dell’intera
    assemblea? Perché la maggioranza dei princìpi della Torah
    dipende da quello che è affermato in questo capitolo della
    Torah”.
    Rabbi Levi dice: “È dovuto al fatto che i Dieci Comandamenti
    sono compresi fra i suoi insegnamenti.
    ‘Io sono il Signore tuo Dio’ (Esodo 20,2) e qui sta scritto:

    121
    ‘Io sono il Signore tuo Dio’ (Levitico 19,2).
    ‘Tu non avrai altro Dio al di fuori di me’ (Esodo 20,3) e qui
    sta scritto: ‘Non fatevi divinità di metallo fuso’ (Levitico
    19,4).
    ‘Non nominerai il nome di Dio invano’ (Esodo 20,7) e qui
    sta scritto: ‘Non giurerete il falso servendovi del mio nome’
    (.Levitico 19,12).
    ‘Ricordati del giorno di sabato’ (Esodo 20,8) e qui sta scritto:
    ‘Tu osserverai i miei sabati’ (Levitico 19,3).
    ‘Onora tuo padre e tua madre’ {Esodo 20,12) e qui sta scritto:
    ‘Ognuno rispetti suo padre e sua madre’ (Levitico 19,3).
    ‘Non uccidere’ (Esodo 20,13) e qui sta scritto: ‘Non andrai
    in giro a spargere calunnie fra il tuo popolo né coopererai
    alla morte del tuo prossimo’ (Levitico 19,16).
    ‘Non commettere adulterio’ (Esodo 20,14) e qui sta scritto:
    ‘Non profanare tua figlia prostituendola’ (Levitico 19,29).

    ‘Non rubare’ (Esodo 20,15) e qui sta scritto: ‘Non ruberete
    né userete inganno o menzogna gli uni contro gli altri’ (Levitico
    19,11).
    ‘Non dire falsa testimonianza’ (Esodo 20,16) e qui sta scritto:
    ‘Non andrai in giro a spargere calunnie fra il tuo popolo’
    (.Levitico 19,16).
    ‘Non desiderare la roba d’altri’ (Esodo 20,17) e qui sta
    scritto: ‘Amerai il tuo prossimo come te stesso’ (Levitico
    19,18)”» (Levitico Rabba 24,5).


    C’è un momento di silenzio. La conversazione tace. Il
    giovane uomo, il maestro ed io riflettiamo per un momento
    su ciò che è avvenuto fra di noi. «Voi sarete santi...
    Amerai il tuo prossimo come te stesso» non fanno altro
    che ricapitolare i Dieci Comandamenti !
    Come potrebbe allora dire qualcuno: «Ho fatto tutto,
    che cosa c’è da fare di più?».
    Riprendo, allora, a parlare: «Quando il giovane uomo
    chiese che cosa doveva fare per entrare nella vita eterna,
    tu gli dicesti di osservare i Dieci Comandamenti. Bene.
    122

    E avendo ascoltato quanto tu hai detto, io ho riflettuto
    sul perché la Torah mi insegna ad osservare questi comandamenti,
    e sono giunto alla conclusione che il motivo
    risiede nel fatto che io voglio essere santo, perché Dio
    è santo».
    Si leva una voce dalla folla: «Più santo di te?».
    Rispondo: «No, solo santo, perché Dio è santo».
    E continuo: «Ora quando Dio mi dice, parlando attraverso
    Mosè, come osservare i Dieci Comandamenti, egli
    lo fa perché io possa essere santo come Dio. Non è abbastanza?
    ».
    La folla si avvicina. «Chi ha detto che non era abbastanza?
    ».
    Gli ricordo che il giovane uomo aveva posto la stessa
    domanda: «Io ho osservato tutti questi comandamenti,
    che cosa mi manca ancora?». «E tu hai risposto - proseguo
    - abbastanza chiaramente che gli manca ancora
    qualcosa: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi tutto quello
    che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro nei cieli, poi
    vieni e seguimi”. Ti ho colto ancora in fallo, maestro.
    Quello che ti sento dire è che i Dieci Comandamenti non
    sono abbastanza, che non basta nemmeno il Grande Comandamento,
    la Regola Aurea. La perfezione consiste
    nella povertà e nell’obbedienza a Cristo».
    Che obiezione puntuale posso muovere io? Gesù mette
    in contrasto Cristo e la ricchezza, come Akiba metterà in
    contrasto, più tardi, la Torah e la ricchezza. Su questo
    punto non posso discutere con lui. Ma un problema più
    preoccupante resta vivo. Gesù vuole che io lo segua e
    che io sia come lui. Ho ascoltato un comandamento simile
    nella Torahl Naturalmente sì: «Voi sarete santi, perché
    io sono santo». Sono chiamato dalla Torah a tentare
    di essere come Dio: santo. (Mi diffonderò di più su questo
    argomento nella discussione che avrò nel prossimo
    123

    capitolo con Gesù sui farisei). Abbiamo percorso, tuttavia,
    un lungo cammino, raggiungendo la nostra meta: la
    possibilità di avere una discussione sul punto principale.
    Siamo, infatti, al nocciolo della questione. A questo
    punto troviamo argomenti per una discussione nella quale
    entrambe le parti parlino delle stesse cose e negli stessi
    termini, come ho già mostrato. Vendo tutto quello che
    ho e ho davanti a me due strade: studiare la Torah o seguire
    il Cristo. Quale delle due?
    Possiamo discutere adesso, certamente, sullo stesso argomento,
    cioè su quale sia davvero la cosa più importante
    nella vita. Per che cosa dovrei dare la mia vita? È questo
    che è in gioco: Gesù fa bene a rispondere «Seguimi»
    e la Torah fa bene a rispondere «Siate santi, perché io sono
    santo». Che differenza fa ai cristiani o agli ebrei se, in
    ogni caso, noi crediamo che “tutto quello che abbiamo”
    ha lo stesso valore di quello che valutiamo di più, cioè rispettivamente
    Cristo o la Torahl Non c’è nessuna differenza:
    la struttura è la stessa. La discussione può cominciare.
    Su che cosa? Sul punto principale: che cosa c’è da
    dire sulla vita? Che cosa rende la vita degna di essere
    vissuta? Cristo e la Torah concordano che Dio risponde a
    questa domanda. Cristo e la Torah sono d’accordo che,
    per essere perfetto, devo tentare di essere perfetto come
    Dio o devo rinunciare a ogni cosa per Cristo.
    Perciò quale? Che cosa insegna, allora, la Torah che
    dovrei fare io per imitare Dio, per essere come Dio? E
    che cosa mi insegna allora Gesù che dovrei fare per seguire
    Cristo? E come dobbiamo scegliere fra queste due
    cose equivalenti contrapposte: due risposte ad un’unica
    domanda, due letture di una sola Torahl
    Qui non posso discutere con Gesù. Una risposta onesta
    e gentile in favore del Gesù di Matteo ci porterebbe, in124
    latti, ben oltre i limiti di questa discussione. Ho detto che
    avremmo dovuto discutere solo con gli insegnamenti di
    (ìesù, senza mettere in dubbio nessun dettaglio della
    "buona novella” di Matteo sulle azioni di Gesù, sui suoi
    miracoli, sui messaggi rivolti ai suoi discepoli, su quanto
    patì e su come trionfò sulla morte.
    Per realizzare una discussione fra Cristo e la Torah,
    l’intera figura di Cristo (nell’accezione cristiana) richiede
    un posto centrale, e non solo il Cristo di Matteo, ma
    anche quello di Marco, di Luca, di Giovanni, di Paolo e
    soprattutto il Cristo della Chiesa e i fedeli cristiani da allora
    fino ad oggi. Questa testimonianza sul significato di
    «Vendi tutto quello che hai e seguimi» non può essere ridotta
    a poche frasi sull’amore per il proprio prossimo.
    Noi dovremmo, in verità, raccontare di nuovo tutto il
    Vangelo di Matteo allo scopo di rispondere alla domanda:
    come cercare di seguire Cristo? Che cosa significa
    fare questo? La risposta a questa domanda non risiede
    soltanto negli insegnamenti del solo Gesù, dei quali ci
    stiamo occupando, ma anche in tutto ciò che fece e nella
    sua sottomissione alla volontà di Dio in tutto ciò che
    subì; e non basta: la risposta sta, specialmente, nei giorni
    in cui discese negli inferi e nella sua risurrezione dalla
    tomba: tutto questo insieme, allo stesso tempo. Sarebbe
    presuntuoso da parte mia rispondere, sulla base dei pochi
    detti che io trovo suscettibili di una discussione, alla domanda:
    «Che cosa devo fare se mi accade di seguirlo?».
    Lo stesso vale per la Torah', per giustapporre e mettere
    in contrasto il racconto della Torah su quello che intende
    per sforzarsi di essere santo, di essere come Dio. Renderei
    a fatica giustizia al problema citando pochi versetti
    della Torah. Dovrei chiamare a raccolta tutti i maestri
    della Torah da allora fino ad oggi, tutti quelli che hanno
    studiato la Torah con erudizione e sapienza, allo scopo di
    125

    esporre, qui ed ora, che cosa vuol dire essere santi come
    Dio. Siamo arrivati al cuore del problema e il contrasto è
    davvero concreto.
    Limitandoci da un lato alla rappresentazione che Matteo
    fa di Gesù e dall’altro alla Torah, non ci sentiamo,
    ovviamente, all’altezza del compito; chi, se non Dio, ha
    in fin dei conti la visione d’insieme necessaria per comparare
    e mettere in contrasto Cristo e la Torah, l’Eterno
    Israele e la Chiesa? Dio non fa parte di questa discussione,
    a meno che non riguardi, da un lato, la Torah che Dio
    diede all’Eterno Israele, dall’altro, la Torah che Cristo
    trasmise, a suo tempo e a suo modo e attraverso la sua
    Chiesa, al cristianesimo.
    Lasciando l’ultima parola a Dio, forse anche qui ed
    ora, possiamo delineare i contorni della discussione: su
    che cosa non siamo d’accordo e su che cosa noi, l’Eterno
    Israele, manifestiamo il nostro dissenso?
    Se esaminiamo quello che i nostri saggi insegnano per
    essere santi come Dio, si possono intravedere gli inizi di
    una discussione onesta. Se dovessi indicare una sola differenza
    fra il messaggio della Torah, almeno come lo mediano
    i nostri saggi, e il messaggio di Gesù citato e descritto
    da Matteo, essa risiede in un fatto: il messaggio
    della Torah riguarda sempre l’Eterno Israele, mentre il
    messaggio di Gesù riguarda sempre quelli che lo seguono.
    La Torah parla sempre alla comunità e si interessa alla
    formazione di un ordine sociale degno del Dio che ha
    fatto esistere Israele. Gesù Cristo, nel racconto di Matteo,
    parla di tutto tranne che dell’ordine sociale attuale;
    adesso egli parla di se stesso e della sua cerchia; poi, in
    futuro, egli parlerà del regno dei cieli.
    Fra l’uomo e il regno che verrà resta l’oggi della vita
    quotidiana. Ma è questo oggi che la Torah comanda a
    Israele di santificare. E in gioco nella vita dell’ordine so126
    ciale che mira alla santificazione non c’è altro che la santi
    licazione di Dio nell’alto dei cieli.
    Mi rivolgo ancora una volta al maestro, abusando, in
    verità, con la mia insistenza, della sua pazienza: «Siamo
    i mportanti sia individualmente, sia tutti insieme, contemporaneamente.
    La santità non è solo per me e per te, ma
    è per tutti noi; tutti noi, tutti insieme e contemporaneamente,
    siamo coloro ai quali Dio parlò, quando, usando
    il plurale “voi”, disse: “Voi sarete santi; perché io il Signore,
    vostro Dio, sono santo”. Dio usa il plurale “voi”
    quasi sempre, e in questi tuoi detti fondamentali ed emblematici
    - passo ora a parlare al Gesù di Matteo - il
    “voi” è dunque un giovane uomo. E tutto Israele, allora,
    quel “voi” che è il soggetto di “Voi sarete santi, perché...”
    ».
    «Maestro, lasciami spiegare, come i nostri saggi faranno
    in futuro, che cosa c’è in discussione. Se Israele forma
    un ordine sociale che incarna la santità di vita, allora
    Israele santifica Dio». Prescindendo quindi dal tempo,
    cito questa affermazione:

    «“Voi sarete santi, perché io, il Signore tuo Dio, sono santo”
    vale a dire: “Se voi santificate voi stessi, ve lo ascriverò
    a merito come se mi aveste santificato, e se non santificate
    voi stessi lo interpreterò come se non mi aveste santificato”.
    Oppure il senso è forse questo: “Se voi mi santificate sarò
    perciò santificato e, se no, allora non sarò santificato”?
    La Scrittura recita: “Perché io sono santo...”, vale a dire: “io
    resto santo in ogni caso, che mi santifichiate o meno”.
    Abba Saul dice: “Il re ha un seguito e qual è il suo compito?
    È quello di imitare il re”» (Sifra 194: I,2-3)2.


    2 Ho fatto anche riferimento a documenti che sono considerati, nell’ebraismo,
    parte della Torah, ma che non fanno parte del Canone ebraico o “Antico
    Testamento”. Essi sono la Mishnah, di cui abbiamo già parlato in precedenza,
    i due Talmud (il Talmud della Terra di Israele, Palestinese o di Geru-
    127

    I discepoli avrebbero certamente replicato: «Questa è
    proprio la nostra fede: imitare Cristo. Abbiamo votato le
    nostre vite a questo compito. Così in che cosa noi dissentiamo
    e come tu sollevi obiezioni? Perché questo grande
    dissenso?».
    La mia risposta scaturisce dalla maniera in cui i nostri
    saggi espongono i dettagli dell’imitazione di Dio, di essere
    santi come Dio. Ai nostri tempi la constatazione che
    “c’è qualcuno più santo di te” - fatto che a nessuno piacerebbe
    riconoscere, ma che solleticherebbe molti - getta
    una cattiva luce sulla santità. Dobbiamo cogliere bene
    che cosa i nostri saggi fanno del comandamento di essere
    simili a Dio. Questa è la maniera in cui i nostri saggi - la
    cui memoria è benedetta - leggono alcuni di questi fondamentali
    versetti:

    «“Tu non ti vendicherai [né porterai rancore]”.
    Fin dove si spinge la forza della vendetta?
    Poniamo il caso che un uomo dica all’altro: “Prestami la tua
    falce” e l’altro rifiuti. Il giorno dopo quell’altro gli chiede:
    “Prestami la tua vanga” e l’altro replica: “Non te la presterò,
    visto che non mi hai prestato la falce”. In questo contesto
    si dice: “Tu non ti vendicherai o porterai rancore”.
    Fin dove si spinge il rancore?
    Poniamo il caso che un uomo dica all’altro: “Prestami la
    vanga”, ma l’altro rifiuti. Il giorno dopo l’altro gli dice:


    salemme, composto verso il 400 d.C.; e il Talmud di Babilonia, composto
    verso il 600 a.C.) che commentano la Mishnah, e vari commenti alla Scrittura
    detti Midrash, che commentano i testi scritti della Torah. Nell’interesse
    del dibattito, non è necessario cavillare: per l’ebraismo essi fanno tutti parte
    di una sola Torah, che Dio diede a Mosè sul monte Sinai. Nessuno di questi
    testi era già stato completato all’epoca di Gesù, ma lo fu soltanto molti secoli
    dopo. Ma in una discussione interreligiosa io attingo alla Torah come la
    definisce l’ebraismo, così come descrivo il Gesù di Matteo, che il cristianesimo
    ha scelto fra molti altri Vangeli. Le religioni non discutono di fatti storici,
    ma della verità di Dio ed è questo che io intendo fare.


    128


    “Prestami la falce”, ma l’altro replica: “Non sono come te
    che non mi prestasti la vanga; [eccoti la falce]”.
    In questo contesto è detto “non portare rancore.”
    “Ma tu amerai il tuo prossimo come te stesso: [Io sono il
    Signore]. Rabbi Akiba dice: “Questo è il principio che racchiude
    tutta la Torah”» (Sifra 200: III, 4-5,7).


    Essere santi come Dio significa non vendicarsi in nessun
    modo, nemmeno a parole, facendo cioè notare all’altro
    che non mi sono comportato in modo cattivo come
    lui. Sotto molti punti di vista ci sentiamo a nostro agio.
    Questo consiglio ricorda, dopo tutto, il messaggio che, se
    la Torah dice di non uccidere, non dobbiamo nemmeno
    rischiare di irritarci. Amare Dio significa fare più del dovuto.
    Akiba considera l’affermazione conclusiva «Ama il
    prossimo tuo come te stesso» come il grande comandamento,
    come il principio riassuntivo di tutta la Torah.
    E questo ci porta alla domanda successiva, cioè quello
    che significa essere «simili a Dio». Questa è una risposta:

    «Abba Saul dice: “Cerca di essere come Lui. Come Egli è
    clemente e misericordioso, tu pure sii clemente e misericordioso
    [ infatti è detto: Il Signore, Dio, clemente e misericordioso’
    (Esodo 34,6)]”» (Mekhilta di R. Ishmael 18: II, 3).


    Essere simili a Dio significa imitarne la clemenza e la
    compassione: queste cose fanno di Dio Dio e ci possono
    fare simili a Dio. Essere simili a Dio, perciò, è essere
    molto umani, essere umani, tuttavia, in modo assai particolare:
    è, in fin dei conti, la grazia - ma anche lo stesso
    esempio - di Dio che ci dà la forza di essere clementi e
    compassionevoli. Non pochi discepoli di Gesù si rivolgeranno
    a lui in questo modo, proprio nello stesso modo
    nel quale noi ci rivolgiamo a Dio.
    129

    Ed ecco un’altra risposta sulla stessa falsariga; nel brano
    seguente, un saggio domanda come come noi possiamo
    seguire Dio o essere simili a Dio; cioè, che cosa significa
    essere santi, essere simili a Dio? E la risposta è:
    imitare Dio, fare le cose che Dio fa, proprio come la Torah
    descrive le azioni di Dio:

    «Rabbi Hama figlio di Rabbi Hanina disse: “Che cosa significa
    il seguente versetto della Scrittura: ‘Seguirete il Signore
    vostro Dio’ (Deuteronomio 13,5). Ora, è possibile seguire
    la Presenza di Dio? Non è stato forse detto: ‘Il Signore
    tuo Dio è un fuoco divoratore’ (Deuteronomio 4,24)?
    Ma il significato è che bisogna seguire le caratteristiche del
    Santo, benedetto egli sia.
    Proprio come Lui ha vestito gli ignudi, come sta scritto ‘Il
    Signore Dio fece all’uomo e alla donna tuniche di pelli e li
    vestì’ (Genesi 3,21), così tu vestirai gli ignudi.
    Proprio come il Santo, benedetto egli sia, visitò gli infermi,
    come sta scritto: ‘Il Signore apparve a lui alle querce di
    Mamre’ (Genesi 18,1), così tu visiterai gli infermi.

    Proprio come il Santo, benedetto egli sia, confortò quelli
    che sono in lutto, come sta scritto: ‘Dopo la morte di Abramo,
    Dio benedisse Isacco suo figlio’ (Genesi 25,11), così tu
    conforterai quelli che sono in lutto.
    Proprio come il Santo, benedetto egli sia, seppellì i morti,
    come sta scritto: ‘E lo seppellì nella valle’ (Deuteronomio
    34,6), così tu seppellirai i morti”» (Talmud Babilonese,
    Trattato Sotah 14a).


    Per essere santo come Dio io debbo vestire gli ignudi,
    visitare i malati, confortare quelli che sono in lutto, seppellire
    i morti, cioè «amare il mio prossimo come me
    stesso». Queste azioni sono veramente degne di un uomo
    che ama il suo prossimo. Non per niente la Torah ci dice
    che siamo fatti ad immagine e a somiglianza di Dio: «E
    130

    Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo
    creò; maschio e femmina li creò» (Genesi 1,27). Non
    stupisce, allora, che i saggi della Torah avrebbero trovato
    la santità di Dio nel vestire gli ignudi, seppellire i morti,
    forse anche nell’insegnare la Torah ai prigionieri.
    A questo punto, naturalmente, Gesù avrebbe voluto replicare:
    «Che cosa pensi, dunque, che vi abbia detto per
    tutto questo tempo sulla terra?»
    Rispondo, con un cenno del capo: «Sì, lo so. Tuttavia...
    ».
    Allora, con tanta cortesia e gentilezza, egli mi saluta
    con un cenno del capo e se ne va per la sua strada. Senza
    “se”, senza “ma”... proprio da amici.
    Egli non ha detto, in verità, di meno. Anzi, egli ha detto
    di più. Mentre perciò ci separiamo da amici, egli se ne
    va per la sua strada, il giovane uomo che ci ha fatto incontrare
    se ne torna tristemente a casa e io mi dirigo verso
    la più vicina sinagoga.
    Sta per fare buio e debbo recitare le mie preghiere e
    studiare pure un po’ di Torah. Unendomi all’Israele riunito
    in assemblea in quella città, mi accingo a recitare le
    preghiere per il crepuscolo che cominciano così: «Beati
    quelli che abitano nella vostra casa, essi ti loderanno ancora
    di più. Beate le persone sulle quali cadono tali benedizioni.
    Beato il popolo, del quale Dio è il Signore» (Salmo
    144,15).
    Dopo aver concluso le preghiere per il crepuscolo, ci
    raduniamo intorno al maestro nella stanza che si sta facendo
    buia. Quella sera, nella seduta dedicata allo studio
    della Torah, egli mi dice: «Dimmi, a che cosa stai pensando?
    Chiedimi qualcosa e vedrò se posso risponderti».
    Chiedo allora al maestro tutto quanto; la Torah contiene
    tante cose. Il maestro, Gesù, ha spiegato, in fin dei
    conti, quanto sono importanti i comandamenti. Egli li
    131

    può riassumere in poche semplici parole e molto di
    quanto ha detto ha un senso analogo all’insegnamento
    della Torah. Tutti i comandamenti sono uguali oppure
    ce n’è uno più importante degli altri? E che cosa vuol
    dire, arrivando a quel passo, «siate santi, perché Dio è
    santo?».
    Espongo così quanto ho pensato per tutto il giorno:
    «Maestro, quante buone azioni debbo fare per ottenere la
    vita eterna?».
    Il sole è tramontato, il buio ha inghiottito il villaggio.
    Alla luce della lampada, il maestro fa notare che la Torah
    stessa dà risposta alla domanda fatta dal maestro Gesù.
    Che cosa c’è da aggiungere? Da Mosè in poi, in verità, i
    grandi profeti - Davide, Isaia, Michea, Amos, Abacuc -
    ci dissero ciò che ha valore. E questo, secondo il riassunto
    che un maestro posteriore fece dei loro insegnamenti,
    è ciò che essi dissero:

    «Rabbi Simelai spiegò: “Seicentotredici insegnamenti furono
    dati a Mosè, trecentosessantacinque negativi corrispondenti
    all’anno solare e i giorni che formano l’anno solare e
    duecentoquarantotto comandamenti positivi che corrispondono
    alle parti che formano il corpo umano.
    Venne Davide e li ridusse a undici: ‘Salmo. Di Davide. Signore,
    chi abiterà nella tua tenda? Chi dimorerà sul tuo santo
    monte? Colui che cammina senza colpa, agisce con giustizia
    e parla lealmente, chi non dice calunnia con la sua lingua,
    non fa danno al suo prossimo e non lancia insulto al
    suo vicino. Ai suoi occhi è spregevole il malvagio, ma onora
    chi teme il Signore. Anche se giura a suo danno, non
    cambia; chi presta denaro senza fare usura e non accetta doni
    contro l’innnocente’ (Salmo 15,1-11).
    Venne Isaia e li ridusse a sei: ‘Chi cammina nella giustizia e
    parla con lealtà, chi rigetta un guadagno frutto di angherie,
    scuote le mani per non accettare regali, si tura gli orecchi
    132

    per non udire fatti di sangue, chiude gli occhi per non vedere
    il male, costui abiterà in alto’ {Isaia 33,15-16).
    Venne Michea e li ridusse a tre: ‘Uomo, ti è stato insegnato
    ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare
    la giustizia, amare la pietà, camminare umilmente con il tuo
    Dio’ (Michea 6,8).
    Venne ancora Isaia e li ridusse a due: ‘Così dice il Signore:
    Osservate il diritto e praticate la giustizia’ (Isaia 56,1).
    Venne Amos e li ridusse ad uno solo: ‘Cercate me e vivrete’
    {Amos 5,4).

    Venne poi Abacuc e li riassunse in uno solo, come sta scritto:
    ‘Ma il giusto vivrà per la sua fede’ (Abacuc 2,4)”» (Talmud
    Babilonese, Makkot 24a-b).


    «Così - disse il maestro - è questo che il saggio Gesù
    aveva da dire?».
    Risposi: «Non precisamente, ma quasi».
    Allora mi domandò: «Che cosa ha tralasciato?».
    E io: «Nulla».
    Ribattè il maestro: «Che cosa ha aggiunto allora?».
    E io: «Se stesso».
    Lui: «Oh...!».


    Soggiunsi allora: «“Ma il giusto vivrà per la propria fede”.
    Che cosa vuol dire? Uomo, ti è stato insegnato ciò che
    è buono e ciò che esige il Signore da te: praticare la giustizia,
    amare la pietà, camminare umilmente nel Signore».
    Replicò il maestro: «Gesù sarebbe d’accordo?».
    Io: «Credo di sì».
    Mi chiese allora: «Perché sei così turbato stasera?».
    Io: «Perché io credo davvero che ci sia una differenza
    fra “voi sarete santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono
    santo” e “se vuoi essere perfetto, va’, vendi tutto quello
    che hai e segui me”».
    Obiettò lui: «Suppongo allora che dipenda davvero da
    chi è questo “me”».
    133

    E io: «Sì, è vero».
    Concluse il maestro: «È tempo della preghiera della
    sera: guidaci».
    Io comincio a recitare le parole iniziali della preghiera
    che parlano dell’amore di Dio per noi: «Ed egli che è misericordioso,
    che perdona il peccato e non distrugge, che allontana
    la sua ira e non colpisce con tutto il suo furore. O
    Signore, salvaci, o Re, rispondici quando ti invochiamo».
    Continuo con la richiesta di pregare: «Benedetto sia il
    Signore che deve essere benedetto...».
    Con tutto il mio cuore e con tutta la mia anima recito
    10 Shema’\ «Ascolta Israele, il Signore Dio nostro il Signore
    è uno. Amerai il tuo Signore con tutto il cuore, l’anima
    tua e con tutte le forze».
    Perciò allora, come sempre, noi offriamo la nostra preghiera
    serale al Dio vivente. E in alcuni villaggi lungo la
    valle, così fecero Gesù e i suoi discepoli e tutto l’Eterno
    Israele, il popolo santo, che vive nella terra santa, dando
    11 benvenuto al calar della notte. Essi fecero questo allora
    e noi, l’Eterno Israele, lo facciamo anche oggi, piegando
    le nostre ginocchia quando parliamo al Benedetto, al Dio
    di Abramo e Sara, di Isacco e di Rebecca, di Giacobbe,
    Lia e Rachele, tutti noi: Abramo, Isacco e Giacobbe, Sara,
    Rebecca, Lia, Rachele che formavano allora e formano
    ora l’Eterno Israele.
    E buio adesso. Il sole è tramontato, spuntano le stelle.
    Le nostre preghiere terminano. E noi le concludiamo
    adesso, come le concludemmo allora, con le parole che
    usò anche Gesù:

    «Sia santificato il nome di Dio e reso grande nel mondo che
    Dio ha creato secondo la volontà di Dio. E possa arrivare il
    regno di Dio, durante la nostra vita e durante la vita di tutto
    Israele e tutti dicano: amen.

    134

    Padre nostro che sei nei cieli, possa essere santificato il tuo
    nome. Sia fatta la tua volontà, venga il tuo regno così in
    cielo come in terra».


    Così pregammo quella notte e così preghiamo nei secoli;
    così pregò lui quella notte, così avrebbero pregato i
    suoi discepoli nei secoli. Certo, discutiamo e lottiamo;
    ma preghiamo lo stesso Dio. E questo è il motivo per cui,
    in fin dei conti, discuteremo accanitamente, ma serviremo
    Dio amandoci l’un l’altro come Dio ci ama.
    Ma come dimostra Dio il suo amore per l’uomo?
    La mattina dopo era un giovedì, quando la santa Torah
    viene tolta dall’arca e mostrata in processione all’Eterno
    Israele e letta ad alta voce. Facendo parte del sacerdozio,
    sono allora chiamato a leggere la Torah per primo.
    E io pronuncio la benedizione che pronunciamo prima
    di leggere le parole della Torah:

    «Benedetto sei Tu, Signore, nostro Dio, dominatore del
    mondo, che ci hai scelti fra tutti i popoli e ci hai dato la Torah.
    Benedetto sei tu... che ci hai dato la Torah».


    Egli dà la Torah: qui, adesso, ogni giorno.
    E poi:

    «Benedetto sei tu, Signore, nostro Dio, dominatore del
    mondo, che ci hai dato la vera Torah e ci hai dato la vita per
    sempre. Benedetto sei tu... che ci hai dato la Torah».

    Questa è la maniera in cui Dio mostra il suo amore per
    noi. Lasciai il culto sinagogale e guardai verso l’orizzonte
    lontano. E fui contento di essere chi ero e che cosa ero
    con tutto Israele allora e adesso e per sempre.
    135
     
    .
  10. cogito
     
    .

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    Rispettare i Comandamenti è anche per Gesù il primo, basilare dovere "sociale" di ogni Israelita,..diciamo il normale "corso di studi", aperto a tutti, per conseguire un titolo, diploma o laurea..vi è poi una specializzazione "post Laurea", un Dottorato, destinato ai più dotati e più arditi.."chi può lo faccia"
     
    .
  11. Varnon
     
    .

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    CITAZIONE (Aialon @ 5/1/2016, 16:22) 
    _____Un Rabbino Parla con Gesù_____

    il messaggio
    della Torah illustra sempre il motivo di ogni precetto

    Lo spero. Peró mi pare di aver capito da altre discussioni che è anche il contrario.
    Infatti alla domanda: " Perchè non bisogna tagliarsi la barba?"
    Mi dissero che un buon ebreo non si domanda il motivo di una mizvah ma esegue solamente, perchè è un comando di D-o.

    CITAZIONE (Aialon @ 5/1/2016, 16:22) 
    _____Un Rabbino Parla con Gesù_____

    Non stupisce, allora, né il fatto che io nutra
    sentimenti di un pieno grande rispetto per il cristianesimo,
    né che io abbia voluto spiegare in maniera ragionevole
    proprio il punto in cui, a mio avviso, il cristianesimo,
    a partire da Gesù (come è ritratto in uno dei Vangeli),
    prese una direzione sbagliata abbandonando la Torah.

    In quale Vangelo, si deduce che Gesù si allontani dalla Torah?!?!?!?

    Grazie
    Bruno Talamos
     
    .
  12.  
    .
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    אילון

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    «VOI SARETE SANTI»
    contro
    «PIÙ SANTO DI TE»
    7

    «Allora Gesù si rivolse alle folle e ai suoi discepoli, dicendo:
    “Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i fa risei.
    Quanto vi dicono, fatelo ed osservatelo, ma non fate secondo
    le loro opere, perché dicono e non fanno. Legano infatti
    pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente,
    ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito. Tutte le
    loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini: allargano
    i loro filatteri e allungano le frange; amano i posti
    d ’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti
    nelle piazze, come anche sentirsi chiamare ‘rabbi’ dalla
    gente. Ma voi non fatevi chiamare ' rabbi’ perché uno solo è
    il vostro maestro e voi siete tutti fratelli” »
    (Matteo 23,1-8).


    Essere santi, evidentemente, è una cosa, ma essere
    “più santi di te” è qualcosa di profondamente diverso. E
    per quanto questa battuta possa essere gentile e faceta, il
    maestro, Gesù, ha da dire qualcosa di sferzante riguardo
    a chi si crede migliore degli altri. E questo mi secca un
    po’. Il motivo non sta nel fatto che gran parte delle critiche
    avanzate da Gesù contro gli uomini pii della sua epoca
    potrebbero essere mosse anche agli uomini pii che conosco
    oggi nelle sinagoghe. Una religione che insegna,
    136

    come fa l’ebraismo, che Dio esige da noi di fare alcune
    cose e di non farne altre, crea di conseguenza persone
    che fanno un gran parlare su quello che si fa e su quello
    che non si fa, senza porre attenzione al perché Dio ci dice
    di farlo o di non farlo. Una religione che si esprime in
    modo così terreno può trovare un gruppo numeroso di
    persone che fa così per mettersi in mostra. Questo non
    priva la religione di valore; quello che conta è evidenziare
    i problemi connessi a questo modo di servire Dio. Dio
    conosce, tuttavia, che cosa succede.
    Quello che mi infastidisce nello sferzante giudizio di
    Gesù sugli scribi e i farisei è che io sono una di quelle
    persone che fanno le cose che gli scribi1 e i farisei2 osservano.
    Vale a dire, io credo davvero che Dio voglia che
    io adempia la Torah; credo che Dio voglia che io mi
    sforzi di essere santo. Gesù sottopose a una critica così
    feroce la gente come me, tanto che la parola “fariseo” ha
    perso, da quel momento in poi, qualsiasi onore ed è usata
    per definire “un ipocrita”. «Tutte le loro opere le fanno
    per essere ammirati dagli uomini». Questo giudizio sull’ebraismo
    (per non parlare delle innumerevoli forme di
    cristianesimo che agiscono per servire Dio e credono che
    Dio si compiaccia di queste azioni) non riguarda soltanto

    1 Gli scribi avevano un proprio lavoro ed erano responsabili dell'insegnamento
    della Torah, della redazione di documenti che rendevano degli atti ufficiali
    conformi alla Torah. Una donna aveva diritto, per esempio, ad un contratto
    matrimoniale che specificasse gli obblighi che il marito aveva verso di
    lei, anche in caso di divorzio o di morte. Se una donna divorziava, il marito
    era obbligato a concederle un atto di ripudio, che scioglieva il matrimonio.
    Poiché il matrimonio era considerato santo, la redazione e la consegna di un
    atto di divorzio qui, in terra, significava che la donna non apparteneva a
    quell’uomo ed era libera di sposare un altro. Lo scriba risultava dunque essere
    un collaboratore di Dio sulla terra, sia insegnando la Torah, sia redigendo
    documenti ufficiali.
    2 I farisei erano gente comune che osservava in maniera particolarmente
    rigida talune prescrizioni della Torah. Più avanti spiegherò alcune di queste
    credenze e pratiche, nel quadro delle divergenze che Gesù ebbe con i farisei.

    137

    gli ipocriti o la gente che le fa per mettersi in mostra, ma
    riguarda chiunque adempia ai precetti religiosi, alle mizvot3
    o i comandamenti che la Torah insegna.
    Noi che cerchiamo di obbedire alla Torah eseguendo
    le mìzvot crediamo che in questo modo adempiamo al
    patto che ci unisce a Dio: esso è ciò che, secondo la Torah,
    Dio ci comanda di fare in quanto parte della relazione
    fra noi e Dio che è stata stabilita da un Patto. Si tratta
    di una vita sottoposta alle regole della Torah perché queste
    regole rappresentano le regole del Patto.
    Quando osservo i comandamenti della Torah, io servo
    Dio. Quando io eseguo un comandamento, io recito la
    benedizione: «Benedetto sei tu, Signore, nostro Dio, dominatore
    del mondo, che ci hai santificato per mezzo dei
    comandamenti e che ci hai comandato...», menzionando
    poi l’azione che ho compiuto. Questo è lo scopo della vita
    sotto la Torah: santificare, attraverso l’agire, la vita
    quotidiana in ogni suo atto, per amore di Dio. Ritorniamo,
    però, a questi sferzanti giudizi, ai quali voglio replicare,
    nella discussione che voglio intavolare con il maestro.
    Non voglio insinuare affatto che Gesù non abbia avuto
    motivo di irritarsi. I suoi avversari e i suoi nemici dichiarati
    risultavano essere sempre i farisei, talvolta insieme ai
    sadducei4, talvolta insieme agli scribi. E Gesù aveva dei
    nemici e aveva buone ragioni per essere provocato da loro.
    Non abbiamo motivo di minimizzare la forte ostilità
    fra questi gruppi di fedeli ebrei. Per esempio, quando
    3 Mizvot: “comandamenti”. Il filosofo medievale Maimonide distinguerà
    613 precetti, tra positivi e negativi (N.d.C.).
    4 I sadducei sono rappresentati come un gruppo dalle opinioni assai particolari
    nella religione e nella politica. Essi si distinguono dai farisei perché, a
    differenza di questi, non credono né nella risurrezione dei morti, né nella vita futura.


    138

    vennero a farsi battezzare da Giovanni il Battista - cioè a
    farsi lavare con acqua, secondo Matteo, per essere purificati
    dal peccato -, Giovanni il Battista li respinse: «Razza
    di vipere! Chi vi ha suggerito di sottrarvi all’ira imminente?
    » (Matteo 3,7). La stessa gente interrogava costantemente,
    e invero non molto amichevolmente, lo stesso
    Gesù.
    I farisei chiedevano ai suoi discepoli: «Perché il vostro
    maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?»
    (.Matteo 9,11). I discepoli di Giovanni chiedevano: «Perché
    mentre noi e i farisei digiuniamo, i tuoi discepoli non
    digiunano?» {Matteo 9,14). Quando egli faceva miracoli,
    i farisei dicevano: «Egli scaccia i demoni per opera del
    principe dei demoni» (Matteo 9,34; cfr. anche Matteo
    12,24). Allora di nuovo, cercarono di tendergli una trappola:
    «I tuoi discepoli stanno facendo quello che non è
    lecito fare in giorno di sabato» (Matteo 12,2), quando
    guariva di sabato. «I farisei però, usciti, tennero consiglio
    contro di lui per toglierlo di mezzo» (.Matteo 12,14).
    E ancora, i farisei chiesero un segno: «Maestro, vorremmo
    vedere un segno da te» (Matteo 12,38). Perciò Gesù
    aveva certamente delle buone ragioni per rimproverare
    proprio i farisei fra tutti i suoi avversari e nemici. Egli
    incassò rimproveri e ne mosse.
    Ascolto le domande provocatorie e le risposte, ma non
    so dare un senso alla maggior parte di esse. Gesù disse,
    certamente, alcune cose in accordo con la Torah. Ne disse
    altre che rendevano la Torah più esigente. Ne disse,
    infine, altre ancora, nate dalla sua propria riflessione. Alcune
    provocazioni dei farisei - «Perché i tuoi discepoli
    non rispettano il sabato?»; «Che ne dici di alcuni segni o
    miracoli?» - derivavano dalle idee della gente in generale.
    Altre idee erano, tuttavia, peculiari al loro modo di
    pensare, cosicché Gesù osteggiò con chiarezza, nella ma-
    139

    niera più dura possibile, quelle azioni e quelle idee che
    giudicava caratteristiche dei farisei.
    Una volta mi trovai presente mentre questo duello stava
    svolgendosi. Qualcuno disse qualcosa, qualcun altro
    lo appoggiò e prima di capirlo, gli animi si esacerbarono.
    I farisei, da una parte, accalorati dal sole a picco; Gesù
    e i suoi discepoli irritati, dall’altra, lanciavano occhiate
    di sfida.
    Tutto era nato da una domanda assai semplice che faceva
    parte del tormento continuo che Gesù subiva ogni
    giorno e che mi provocava imbarazzo e dolore, poiché
    una figura così interessante non riceveva l’attenzione che
    avrebbe meritato:

    «In quel tempo vennero a Gesù da Gerusalemme alcuni farisei
    e alcuni scribi e gli dissero: “Perché i tuoi discepoli
    trasgrediscono le tradizioni degli antichi? Poiché essi non si
    lavano le mani quando prendono cibo”. Ed egli rispose loro:
    “Perché voi trasgredite il comandamento di Dio in nome
    della vostra tradizione? Dio ha detto: ‘Onora il padre e la
    madre’ e inoltre ‘Chi maledice il padre e la madre certamente
    morirà’. Invece voi asserite: ‘Chiunque dice al padre
    e alla madre: Ciò con cui dovrei aiutarti è offerto a Dio, non
    è più tenuto a onorare il padre e la madre’. Così avete annullato
    la parola di Dio in nome della vostra tradizione. Ipocriti!
    Ben ha profetato Isaia di voi dicendo: ‘Questo popolo
    mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano
    mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti
    di uomini’ (Isaia 29,13)”» (Matteo 15,1-9).

    Come ho detto, quello che mi aspettavo da Gesù era
    un buon dibattito. Il problema del «lavarsi le mani quando
    mangiano», presentato come «una tradizione degli anziani
    », era importante per i farisei, ma non aveva alcuna
    importanza per Gesù. Il lavacro delle mani non era moti
    140

    vato da ragioni igieniche, visto che all’epoca nessuno
    aveva mai sentito parlare di microbi.
    Questo ci riporta ai farisei e ci spinge a voler sapere
    che cosa lo rendesse, ai loro occhi, così importante. Il rito
    di cui parliamo aveva a che fare con la purificazione. Per
    capire che cosa significhi, dobbiamo allontanare dalla nostra
    mente l’idea che la purità o la pulizia avessero un significato
    igienico. Che cosa c’è in discussione qui? Una
    risposta può essere suggerita da un’importante affermazione
    contenuta nella Mishnah, che più tardi fa discendere
    dal rispetto di questa usanza un certo numero di virtù:

    «Rabbi Pinhas ben Yair dice: “L’attenzione porta alla pulizia,
    la pulizia porta alla purezza, la purezza porta all’astinenza,
    l’astinenza alla santità, la santità alla modestia, la
    modestia alla paura di peccare, la paura di peccare alla pietà,
    la pietà allo Spirito santo, lo Spirito santo alla risurrezione
    dei morti e la risurrezione dei morti, verrà attraverso
    Elia, la cui memoria sia in benedizione. Amen”» (Mishnah,
    trattato Sotah 9,14).


    Vediamo in questo brano come una varietà di virtù formino
    una scala che porta in cielo. Partiamo dall’attenzione
    o dalla diligenza, che significa porre davvero grande
    attenzione a ciò che si fa. Questo atteggiamento, se eccessivo,
    può condurre al comportamento malsano che ho
    menzionato in precedenza: una cosa buona portata all’eccesso.
    L’attenzione conduce poi alla pulizia personale e
    da questa si arriva alla purità, che è in discussione. Dalla
    purità, per ragioni che spiegherò fra un minuto, arriviamo
    alla santità e questo ci porta dalle virtù della santità alle
    più importanti virtù etiche e morali: la modestia, il timore
    del peccato, la pietà e, sempre più in alto, la risurrezione
    dei morti. I problemi non sono pertanto banali.
    141

    Passando dalla teoria alla pratica, per quale motivo io
    voglio essere santo e perché voglio essere “pulito” o puro?
    In quell’epoca e in quel luogo, essere santo significava
    essere puro per un motivo speciale, e una delle ragioni
    che motivavano la purità era quella di recarsi al tempio e
    partecipare ai suoi riti. I sacerdoti erano descritti in particolare
    come santi. Il cibo che essi mangiavano, ricevuto
    dall’altare o dalle decime dei raccolti destinate a Dio, era
    santo; ed essi dovevano osservare alcune regole legate alla
    sua consumazione.
    Queste regole sono descritte da Mosè nel libro del Levitico,
    con la definizione di “santita”; e mentre, come noi
    scopriamo, «essere santi, perché Dio è santo» significa
    osservare i comandamenti, essere santi nello stesso contesto
    del Levitico significa anche osservare alcune regole
    di purità. E tutti concordano nel riconoscere che una di
    queste regole consisteva nel lavarsi le mani prima di
    mangiare, rimuovendo così qualsiasi piccola impurità
    che le aveva colpite. Quando i farisei chiesero a Gesù
    perché i suoi discepoli non osservassero la “tradizione
    degli anziani”, non lavandosi le mani prima dei pasti,
    quello che volevano sapere era perché essi non manifestassero
    il loro stesso interesse per la santità. Questa domanda
    rappresentava sia un complimento, sia una sfida.
    Essi volevano che Gesù fosse uno di loro. Questo era il
    complimento. La sfida era invece la seguente: «Perché
    non siete come noi, dalla nostra parte?».
    La risposta di Gesù produce un contrasto fra questa
    “tradizione degli anziani” e i comandamenti di Dio. Egli
    affermò che i farisei anteponevano queste tradizioni alle
    chiare affermazioni di Dio. Essi facevano questo, osservando
    un’altra legge della Torah, che concerne l’emissione
    di voti. Mosè aveva detto a Israele: «Quando uno
    avrà fatto un voto... non violi la sua parola, ma dia esecu
    142

    zione a quanto ha promesso con la sua bocca» (Numeri
    30,3)- Una delle cose che la gente potrebbe fare è dichiarare
    qualcosa “santo”: cioè porlo nella categoria delle cose
    da offrire all’altare.
    Questo significava che nessuno avrebbe potuto usare o
    usufruire di quella cosa che era stata dichiarata santa.
    Farlo sarebbe stato un sacrilegio. Gesù formula una constatazione
    molto semplice: permettendo il verificarsi di
    questo fatto, diventava possibile trattare i genitori in modo
    irriguardoso.
    Essi avrebbero potuto dichiarare che qualcosa era
    un’offerta e privare così i genitori del diritto di usufruirne.
    Questo è il senso della frase: «Quello che voi avreste
    guadagnato è offerto a Dio».
    Ascoltando questo scambio di opinioni, avrei potuto
    manifestare soltanto la mia perplessità perché nessuna
    delle due parti aveva risposto, a parer mio, ai problemi
    sollevati dall’altra. Tutto questo mi faceva pensare alla
    sola discussione avuta con mia moglie, quando trovai da
    ridire sulla qualità della sua cucina. Lei replicò a questa
    constatazione affermando che era vero, ma che io ero un
    pessimo guidatore. Non criticai più la sua cucina e lei non
    parlò più del mio modo di guidare la macchina; tuttavia
    la cucina migliorò e da allora guidai con più prudenza.
    Ma quel giorno questo non avvenne. I farisei volevano
    sapere perché Gesù non consumasse il cibo facendo attenzione
    ad uno stato di santificazione. Egli rispose che
    c’era qualcosa di più importante e scelse come punto di
    partenza della sua dimostrazione un caso afferente alla
    sfera della santificazione. Se qualcuno dichiarava qualcosa
    “santo”, pronunciando queste parole: «Ciò con cui
    ti dovrei aiutare è offerto a Dio», quella persona anteponeva
    i problemi di santità ai Dieci Comandamenti. Era
    proprio una risposta assai fondata.
    143

    Tuttavia... Tuttavia la domanda e la risposta erano, a
    mio avviso, poco perspicue. Tutto quello che i farisei volevano
    sapere era perché i discepoli di Gesù non erano
    farisei; essi sarebbero stati davvero benvenuti. I farisei
    stimavano molto il vivere secondo le regole della santità;
    essi pensavano che questo fosse ciò che Dio voleva,
    quando disse: «Voi sarete santi, perché io, il Signore vostro
    Dio, sono santo». E in futuro altra gente avrebbe
    esplicitato, con più parole, proprio quello che voleva dire
    vivere secondo le regole dei farisei.
    Gesù replicò che c’erano altri comandamenti della Torah
    più importanti della tradizione dei padri. Ma nella
    maniera in cui “voi gente” osservate la tradizione, voi
    giocate con la legge.
    Perciò la domanda andava in una direzione e la risposta,
    invece, in un’altra e io ero qui, assai a disagio, sotto
    il sole di mezzogiorno, nella foga di una discussione senza
    sbocco. Non stupiscono le parole sferzanti che Gesù
    aveva rivolto a quella gente. Quello che Gesù affermava
    continuamente a proposito di quella gente era che essi
    erano “ipocriti”, non facevano cioè quello che dicevano.
    E se voi fate quello che loro dicono, non ne verrà fuori
    niente di buono.
    Così, per esempio, in un’altra occasione, i farisei sfidarono
    Gesù in materia di divorzio: il divorzio è sempre
    legittimo? (cfr. Matteo 19,3).
    In realtà essi conoscevano perfettamente la risposta, dal
    momento che Deuteronomio 24,1 prevede per il divorzio
    che: «Quando un uomo ha preso una donna e ha vissuto
    con lei da marito, se poi avviene che essa non trovi grazia
    ai suoi occhi, perché ha trovato in lei qualcosa di vergognoso,
    scriva per lei un libello di ripudio e glielo consegni
    in mano e la mandi via dalla casa. Se essa, uscita dalla
    casa di lui, va e diventa moglie di un altro marito e
    144

    questi la prende in odio, scrive per lei un libello di ripudio,
    glielo consegna in mano e la manda via dalla casa o
    se quest’altro marito che l’aveva presa per moglie, muore,
    il primo marito, che l’aveva rinviata, non potrà riprenderla
    per moglie...» {Deuteronomio 24,1). Perciò l’istruzione
    di Dio a Mosè dava per scontato che vi fosse il divorzio.
    Gesù risponde, invece, in maniera differente alla domanda
    sulla legittimità del divorzio. Egli sostiene che
    l’affermazione che «i due saranno una sola carne» (Genesi
    2,24) vuol dire che «quello che Dio ha congiunto,
    l’uomo non lo separi» (Matteo 19,6).
    I farisei si meravigliavano, pertanto, come questo rispondesse
    alla domanda, dal momento che, in fin dei
    conti, Mosè prevedeva il divorzio. Ed è proprio questo
    che i farisei sottolineavano.
    Gesù replicò, tuttavia, con un’altra osservazione, secondo
    la quale la Torah prevede come la gente si comporta
    realmente. Dal punto di vista ideale non ci dovrebbe
    essere divorzio: «Per la durezza del vostro cuore Mosè
    vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli... ma io vi
    dico: chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso
    di concubinato, e ne sposa un’altra, commette adulterio»
    (.Matteo 19,8-9). In questo caso, ancora una volta, mi
    scopro ad ammirare quest’uomo, deprecando sempre più
    il cattivo sangue che corre fra lui e i farisei che io seguo.
    Riflettendo sul motivo dello scontro, mi sembrò che
    quel giorno tanto Gesù quanto i farisei volessero convincere
    la gente che la Torah non era così semplice, che richiedeva
    una devozione più profonda di quella che la
    gente comune riteneva sufficiente. Questo era il punto
    che distingue la profonda riaffermazione di alcuni fra i
    Dieci Comandamenti da parte di Gesù. Ed era anche il
    punto che distingue, secondo il proprio modo e la propria
    formulazione, “la tradizione degli anziani” con le lo-
    145

    ro regole da parte dei farisei. Non stupisce che Gesù dicesse
    alla gente che il suo carico era leggero, mentre il
    loro era pesante; quello che chiedeva dagli altri, egli lo
    faceva; quello che i farisei esigevano dagli altri, essi non
    lo facevano. In questo risiede la rivalità:

    «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e
    la terra per farvi anche un solo proselito, e quando lo è diventato,
    ne fate un figlio della Geenna il doppio di voi»
    (Matteo 23,15).


    Il cattivo sangue non stupisce. Da questa parte c’è un
    uomo, in perenne movimento, che percorre le strade del
    paese, cercando di conquistare discepoli e di insegnare il
    suo messaggio, e dall’altra stanno i maestri che gli contendono
    la stessa gente. Ciò che Gesù ha da dire alla
    gente è che i farisei non avevano niente da offrire al popolo.
    E possiamo immaginarci facilmente quale fosse il
    messaggio che essi avevano per lui.
    Chi vinse, dunque, quel giorno? Dalle osservazioni di
    Gesù, mi sembra che lui pensasse di non avere affatto un
    avversario col quale contendere:

    «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri
    imbiancati: essi all’esterno sono belli a vedersi, ma
    dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume. Così
    anche voi apparite giusti all’esterno davanti agli uomini, ma
    dentro siete pieni d’ipocrisia e d’iniquità» (Matteo 23,27-28).


    Quando lo ascolto fare queste osservazioni, non mi
    stupisco che questo maestro abbia trovato dall’altra parte
    una rivalità così forte, se poteva riconoscere all’altra parte
    che essi “sembravano belli”. «Voi sembrate giusti agli
    occhi degli uomini», ma siete degli ipocriti.
    Se ci domandiamo che cosa c’è in gioco in questa ter
    146

    ribile discussione, dobbiamo ricordarci due semplici fatti.
    Il primo riguarda i farisei, il secondo Gesù. I farisei
    vogliono che Israele sia santo. Come vedremo nel prossimo
    capitolo, questa idea aveva, allora come oggi, un significato
    assai particolare.
    Ma è evidente che, dal punto di vista dei farisei, osservare
    i Dieci Comandamenti e la Regola Aurea significa
    obbedire al principale comandamento di Dio a Israele:
    «Siate santi perché io, il Signore vostro Dio, sono santo
    ». Secondo Gesù questa santità era una simulazione.
    Per amore della vostra tradizione voi avete svuotato di
    significato la parola di Dio.
    Che cosa offre allora Gesù al posto di una vita di santità
    simile a Dio? Dare una risposta completa a questa domanda
    ci porterebbe troppo lontano: i cristiani l’hanno
    discussa per due millenni. Ma se io dovessi indicare una
    cosa che Gesù avrebbe sicuramente sottolineato, essa sarebbe
    stata il regno dei cieli che, a suo parere, si sarebbe
    realizzato presto. Gesù cercò continuamente di spiegare
    che cosa c’era in gioco: «Convertitevi perché il regno dei
    cieli è vicino» (.Matteo 4,17). Così in discussione c’era
    come vincere il peccato per entrare nel regno di Dio. Gesù
    predicava il vangelo del regno e curava ogni malattia e
    infermità (Matteo 9,35). Egli spiegava continuamente
    che cosa pensasse per mezzo delle parabole, e queste riguardavano
    continuamente il regno dei cieli, a che cosa
    somigliasse, come dovesse essere inteso.
    Un giorno, per esempio, ascoltai il maestro narrare tre
    parabole, ciascuna delle quali portava alla stessa conclusione:

    «“Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo;
    un uomo lo trova e lo nasconde di nuovo, poi va, pieno
    di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo.
    147

    Il regno dei cieli è simile a un mercante che va in cerca di
    perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende
    tutti i suoi averi, e la compra.
    Il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che
    raccoglie ogni genere di pesci. Quando è piena, i pescatori
    la tirano a riva e poi, sedutisi, raccolgono i pesci buoni nei
    canestri e buttano via i cattivi. Così sarà alla fine del mondo.
    Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li
    getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore
    di denti.
    Avete capito tutte queste cose?”. Gli risposero: “Sì”. Ed egli
    disse loro: “Per questo ogni scriba divenuto discepolo del
    regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal
    suo tesoro cose nuove e cose antiche”» (Matteo 13,44-52).

    Fra i molti e importanti insegnamenti del maestro,
    quelli che riguardano il regno dei cieli hanno la preminenza.
    Essi si collegano a molti altri come, per esempio,
    all’insegnamento che mi colpì per la sua intransigenza:
    vendere tutto quello che ho per seguire il maestro. In se
    stesso il detto si poneva in stupefacente contrasto con gli
    insegnamenti della Torah. Ma questo detto, se collegato
    agli insegnamenti del regno dei cieli che sta per venire,
    forma, come molti altri, parte di un messaggio coerente.
    I farisei non stanno ad ascoltare, tuttavia, questo messaggio
    perché ne propongono uno differente che collima
    assai poco col messaggio di Gesù. Il suo è un messaggio
    di perdono dei peccati in questo luogo e in questo momento,
    in preparazione deirarrivo, nel futuro immediato,
    del regno dei cieli. Il messaggio dei farisei è un messaggio
    di purificazione per una vita di santità qui ed ora.
    Di fronte alla scelta fra Gesù e i farisei, avrei reso
    omaggio al primo, ma avrei seguito gli altri. Avrei reso
    onore a Gesù, ma avrei seguito i farisei e lo farei anche
    adesso: questo spiega perché ho scritto questo libro. La
    148
    Torah definisce, infatti, Israele come un regno di sacerdoti
    e un popolo santo. Questa è la strada seguita dai farisei.
    Il loro Israele ha messo in primo piano la comunità, condividendo
    la vita santa, richiesta a tutti gli Israeliti, secondo
    l’affermazione della Torah. La Torah di Mosè definì il
    modo di vita sia nella sfera del culto sia in quella morale,
    e i profeti misero l’accento specialmente su quest’ultima.
    Quello che rendeva Israele santo - il suo modo di vita, il
    suo carattere morale - dipendeva in primo luogo dalla vita
    del popolo. E questo avveniva in quel luogo e in quel
    momento. Gesù non allude mai a quello che i farisei avevano
    da dire sugli “ultimi giorni”; su questo punto egli
    non ebbe alcuna discussione con loro.
    Ma riesaminando il problema, domandiamoci se le due
    parti ebbero mai una discussione. I farisei formavano un
    gruppo modellato dal modo di vita santo di Israele, teso
    verso la santificazione. Gesù e i suoi discepoli formavano
    un gruppo preoccupato dal peccato e dal perdono in
    vista del prossimo avvento del regno di Dio. I due gruppi
    non parlano, né discutono.
    Tornando a casa quel pomeriggio, cominciai a sospettare
    che Gesù e i farisei - me compreso - erano proprio
    due tipi di persone differenti che parlavano di cose differenti,
    a persone differenti. Tuttavia, come è evidente,
    nessun gruppo poteva evitare di riconoscere l ’altro.
    Quello che ebbe luogo, come vedremo nel prossimo capitolo,
    non fu una discussione civile, benché vi fosse stato
    un serrato dibattito, ma fu in realtà uno scontro fra
    gente che non aveva niente in comune, che faceva dei
    discorsi che non si incontravano mai. Non molto per una
    discussione.
    Riflettendoci sopra tuttavia, compresi che c’era una ragione:
    la santificazione investe un gruppo di azioni umane,
    la salvezza ne tocca invece un altro. E l’assenza di una
    149

    discussione fra i due gruppi si spiega col fatto che nessuno
    dei due parlava di quello che interessava all’altro.
    La santificazione richiede categoricamente di separare
    quello che è santo da quello che non lo è. Santificare significa
    mettere da parte. Nessuna santificazione può
    comprendere qualcuno o escludere qualcuno in particolare
    perché sia santo. Non è necessario “essere più santo
    di te”, ma il santo esige l’opposto, cioè il profano.
    Il regno dei cieli, che sta per venire, non ha nulla a che
    vedere con questo. Ciò che è in gioco è entrare nel regno
    di Dio. Così, una volta ancora, come possono i due gruppi
    - i discepoli di Gesù e i farisei - comprendersi l’un
    l’altro, quando l’uno solleva il problema della santificazione
    e l’altro quello della salvezza? E mi ripeto ancora
    che non c’è davvero discussione, ma che si tratta proprio
    di persone differenti che parlano di cose differenti, a persone
    differenti.
    Ero pronto, allora, a cancellare l’uno o l’altro? Proprio
    perché non potrei seguire Gesù, questo stava a significare
    che non ero io a lasciarlo andare, ma che era stato lui
    ad allontarsi dalla Torah di Israele?
    Se ne può discutere. Da un lato la Torah prevedeva un
    posto per tre tipi di veri maestri: sacerdoti, saggi e profeti.
    I sacerdoti si richiamavano ai libri che facevano parte
    della Torah di Mosè: l’Esodo, il Levitico, i Numeri e il
    Deuteronomio. Questi libri parlavano del regno di Dio. I
    saggi si richiamavano ai libri dei Proverbi e di Qohelet
    (Ecclesiaste), un genere di sapienza che veniva insegnato
    da persone sagge. I profeti di oggi potrebbero fare riferimento
    ai profeti antichi, come fece costantemente Gesù:
    Isaia, Geremia, Ezechiele e i dodici profeti minori.
    Quale visione del mondo aveva ciascuna di queste tre
    correnti, che trovava una ricca eredità nella Torah di Mosè?
    I sacerdoti vedevano la società organizzata sulla base
    150

    di strutture elaborate dal tempio. La casta sacerdotale
    stava al primo posto della scala sociale, all’interno della
    quale tutte le cose erano organizzate con il proprio nome
    e il proprio posto in modo preciso. L’insita santità del
    popolo d’Israele, attraverso la genealogia del sacerdozio,
    trovava la sua incarnazione più perfetta nella figura del
    sommo sacerdote. Il cibo messo da parte, su comando di
    Dio, per le razioni destinate ai sacerdoti possedeva la
    stessa santità della tavola alla quale i sacerdoti mangiavano.
    Agli occhi del sacerdozio, per la sacra società di
    Israele, la storia raccontava quello che era accaduto nel
    tempio e talvolta, purtroppo, al tempio stesso.
    Per il saggio la vita sociale aveva bisogno di sagge regole.
    Le relazioni fra gli individui avevano bisogno della
    guida delle leggi contenute nella Torah e interpretate nella
    maniera migliore dagli scribi; il compito di Israele era
    quello di formare un modo di vita che fosse in pieno accordo
    con le regole rivelate dalla Torah. Il saggio, padrone
    di queste regole, ne era a capo.
    La profezia affermava, invece, che il destino della nazione
    dipendesse dalla fede e dalle condizioni morali
    della società, come tutta la storia di Israele testimoniava.
    Sia i saggi sia i sacerdoti osservavano Israele dal punto
    di vista dell’eternità, ma la nazione doveva vivere la sua
    storia in questo mondo, fra altri popoli che desideravano
    la stessa terra e all’interno delle scelte politiche compiute
    dall’impero romano. Il regno del Messia avrebbe risolto
    il problema della sottomissione di Israele ad altre nazioni
    e ad altri imperi, stabilendo una volta per tutte il
    corretto contesto sia per i sacerdoti sia per i saggi.
    Il sacerdote considerava il tempio come il centro del
    mondo; al di fuori di esso egli vedeva allargarsi all’intorno
    in cerchi concentrici sempre più grandi il meno santo,
    il profano e l’impuro. Tutto il mondo all’esterno della
    151
    terra di Israele era impuro al pari dei cadaveri. Tutti gli
    altri popoli erano impuri alla stregua dei cadaveri. Di
    conseguenza, nel mondo, la vita abitava in Israele; e in
    particolare, all’interno di Israele, nel tempio. Fuori, a
    grande distanza, c’erano soltanto terre vuote e popoli
    morti, che comprendevano l’indifferenziato deserto della
    morte, cioè un mondo impuro. Da questa prospettiva, era
    inutile qualsiasi insegnamento sul posto di Israele fra le
    nazioni, non poteva scaturire nessun interesse per la storia
    di Israele e per il suo significato.
    La sapienza dei saggi era quella della strada, del mercato
    e delle famiglie di Israele. Le affermazioni del saggio
    erano sapienza per i gentili e per Israele. La sapienza
    risultava davvero internazionale, superando i confini culturali
    e quelli linguistici, passando dall’Asia orientale a
    quella occidentale o meridionale. Essa si concentrava
    sull’esperienza umana, comune a tutti, senza differenze
    di nazioni e insensibile ai grandi eventi della storia. La
    sapienza parlava di padri e figli, di maestri e discepoli, di
    famiglie e di villaggi e non di nazioni, di eserciti e del
    destino.
    Proprio in ragione della loro stessa eterogeneità, questi
    tre fondamentali aspetti della vita d’Israele potevano facilmente
    coesistere. Ciascuno si concentrava su un particolare
    aspetto della vita nazionale e nessuno di loro contraddiceva
    l’altro. Si poteva prestare culto nel tempio,
    studiare la Torah e combattere nell’esercito del Messia e
    taluni fecero tutte e tre queste cose. Noi dobbiamo considerare,
    tuttavia, questi tre modi di vivere e le loro rispettive
    forme di pietà separatamente. Ciascuno di essi poteva
    realizzarsi pienamente senza far riferimento agli altri.
    Ma la vita non va così. Non possiamo dividere il nostro
    villaggio in un quartiere dei sacerdoti, in un quartiere dei
    profeti, in un quartiere dei saggi. Siamo un solo villag152
    gio. Gesù e i suoi discepoli posero un forte accento sull’insegnamento
    dei profeti, perché egli insegnò ai discepoli,
    fra i quali vuole comprendere tutto Israele, come
    prepararsi per il regno di Dio che si sta avvicinando. Egli
    parla, pertanto, del perdono dei peccati e dell’espiazione
    per la fine dei tempi che incombe su di noi. I farisei mettono
    l’accento proprio sulla predicazione dei sacerdoti
    nel libro del Levitico e vogliono che Israele viva adesso,
    qui e in ogni luogo, in accordo con quelle regole che la
    Torah di Mosè stabilisce per la santificazione dei sacerdoti.
    Siamo davvero in contrasto, perché siamo d’accordo:
    gli uni chiamano alla salvezza per la fine dei tempi,
    gli altri alla santificazione qui ed ora. Come possiamo vivere
    insieme?
    Questo dipende, da un lato, da fatti di poco conto. E
    qui c’è proprio un punto di frizione fra Gesù e noi farisei.
    Come ho detto all’inizio, credo nell’ebraismo che si
    identifica con i farisei. Il regno di Dio è qui ed ora? Oppure
    solo nel futuro immediato ? E dove e come e in
    quali circostanze debbo servire Dio e vivere un vita santa?
    O presentando il problema in termini ancora più semplici:
    a Dio interessa che cosa mangio a colazione?
    153
     
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    SULLA STRADA PER CAFARNAO

    « “Molti verranno da oriente e da occidente e siederanno a
    tavola con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli,
    mentre i fig li del regno saranno gettati fuori nelle tenebre:
    là ci sarà pianto e stridor di denti Gesù disse al centurione:
    “Va’, ti sia fa tto ciò che cred i”. E il servo fu guarito
    proprio in quel momento».
    Matteo 8,11-13.


    Quando Gesù scese dalla montagna seguito da tanta
    gente (Matteo 8,1), si diresse verso Cafarnao. Lo raggiunsi,
    sfiorando una folla di persone felici, ma stranamente
    silenziose. Regnava un silenzio tranquillo, ognuno
    stava pensando all’importante messaggio del maestro: il
    regno dei cieli è dei poveri in spirito, i miti erediteranno
    la terra, i puri di cuori vedranno Dio. Io mi sentivo esaltato
    da insegnamenti simili, da questa torah, da tutto il
    resto, come avendo incontrato il sublime. Ma sapevo che
    non avrei seguito il maestro molto più a lungo. Quanto
    avevo ascoltato sulla montagna era necessario ma non
    sufficiente per amare Dio con tutto il mio cuore, con tutta
    la mia anima e con tutta la mia forza e per vivere nel
    regno di Dio qui e ora.
    Il silenzio recava il proprio eloquente
    messaggio: ciò cne egli non aveva ueuu sui sui
    Sinai. Ma non sapevo che proprio in quello stesso gior
    no, quando avremmo raggiunto Cafarnao, egli avrebbe
    riempito il silenzio con un gesto eloquente e ogni cos<
    sarebbe stata chiara.

    Questo sarebbe avvenuto presto. Qui e ora, tuttavia
    Gesù mi osservava già prima che lo vedessi e con un ge
    sto mi indicò di unirmi a lui lungo la strada, cosa che feci
    Aspettai che parlasse, ma egli rimase in silenzio ed ic
    feci lo stesso. Ma in silenzio, camminando al suo fianco
    riflettevo: Come Mosè sul Monte Sinai, così Gesù è sce
    so dal cielo per insegnare la torah. Fra coloro a cui egl
    parla - i poveri in spirito, gli afflitti, i miti, coloro chi
    hanno fame e sete di giustizia, i misericordiosi, i puri d
    cuore, i pacifici - io cerco invano proprio quei “voi” ;
    cui Mosè si rivolge, quei “voi” che Dio condusse fuor
    dalla terra d’Egitto, dalla casa di schiavitù: Israele.
    Dopo un momento, in un silenzio penetrante, Gesù m
    guardò e mi disse: «Ti stai interrogando sul “voi” a cui i<
    parlo, su Israele».
    «Proprio così».
    «È vero, sulla montagna non ho detto niente di Israele
    quando ho benedetto i poveri di spirito, gli afflitti e tutl
    gli altri».
    «No, non hai detto nulla».
    «Aspetta».
    Si fece un silenzio più grande.
    Continuammo a camminare. Io aspettavo.

    Entrato in Cafarnao, gli venne incontro un centurione che 1
    scongiurava: «Signore, il mio servo giace in casa paralizzi
    to e soffre terribilmente». Gesù gli rispose: «Io verrò e 1
    curerò». Ma il centurione riprese: «Signore, io non son de
    gno che tu entri sotto il mio tetto, dì soltanto una parola e
    mio servo sarà guarito. Perché anch’io, che sono un subalterno,
    ho soldati sotto di me e dico a uno: Fa’ questo, ed egli
    10 fa». All’udire ciò, Gesù ne fu ammirato e disse a quelli
    che lo seguivano: «In verità vi dico, presso nessuno in
    Israele ho trovato una fede così grande. Ora vi dico che
    molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a
    mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli,
    mentre i figli del regno saranno cacciati fuori nelle tenebre,
    ove sarà pianto e stridore di denti». E Gesù disse al centurione:
    «Va’, e sia fatto secondo la tua fede». In quell’istante
    il servo guarì (Matteo 8,5-13).

    Mi meravigliai del potente miracolo. Credere era facile.
    Avevo sentito parlare di santi uomini capaci di cose
    simili, di come le loro preghiere guarissero persone lontane.
    Honi1, il tracciatore di cerchi, non avrebbe fatto di
    meno. Non trovavo nessuna difficoltà ad accettare quello
    che i miei occhi avevano visto e le mie orecchie ascoltato.
    Ma ancor di più mi meravigliai del silenzio del maestro.
    Così, quando Gesù si volse per recarsi alla casa di
    Pietro (Matteo 8,14), gli chiesi di rubargli un po’ del suo
    tempo ed egli acconsentì.
    «Anch’io credo, maestro, che in futuro, molti verranno
    da oriente e da occidente e siederanno a tavola con i patriarchi
    e le matriarche nel regno dei cieli. I profeti dicono
    la stessa cosa. Ma ciò si verificherà perché essi accetteranno
    il monoteismo e la Torah in cui si insegna loro il
    dominio di Dio. Ma la Torah non mi dice nulla sul fatto
    che i figli del regno saranno gettati fuori nelle tenebre.

    1 Taumaturgo vissuto nel I sec. a.C. Secondo il trattato Ta’anit della Misnah,
    il suo nome deriva dal gesto che avrebbe compiuto durante un periodo
    di siccità, quando avrebbe tracciato un cerchio e vi sarebbe rimasto dentro
    finché Dio non inviò la pioggia. La stessa storia è narrata da Giuseppe Flavio,
    il quale aggiunge che Honi fu assassinato durante la lotta tra Aristobulo
    11 e Ircano II (N.d.C.).

    156

    E proprio ieri, sulla montagna, il tuo discorso eloquente
    ha trovato la sua controparte nel silenzio: quello
    che tu non hai detto riguarda me. Dove, nella tua torah
    sul monte, c’è un messaggio per quelli che già credono,
    per quelli che sono già cittadini del regno di Dio? Molto
    di quanto ascolto dalla montagna è necessario, ma il
    messaggio è insufficiente. Tu tralasci troppe cose. E
    questo mi preoccupa».
    Gesù pazientemente accettò le mie osservazioni, prendendo
    con impegno la discussione. Poi soggiunse: «Che
    cosa ho tralasciato?»
    Replicai: «Tre cose. In primo luogo, non mi racconti
    la storia della Torah che parla dell’inizio e della fine, da
    dove veniamo e chi siamo. In secondo luogo, non mi
    parli di noi, di Israele. In terzo luogo, non spieghi la
    mancanza di fede dei gentili».
    Gesù disse: «Il centurione ha creduto».
    «In te», replicai. «Ma questo fatto lo rende uguale a
    noi, Israele, e la sua fede ha adempiuto le richieste della
    Torahl».
    Rispose Gesù: «Allora raccontami la tua storia».
    La storia che dovevo raccontare non è la mia storia,
    ma è la storia narrata da Mosè nella Torah e anche dagli
    altri profeti. È la storia della creazione del mondo e della
    caduta dell’uomo e di che cosa ha fatto Dio per riparare
    il mondo. E questa la storia che le Scritture ebraiche narrano.
    Invano nella torah sulla montagna ricercai gli echi
    di quella storia. Questi silenzi - ciò che Gesù non disse
    sulla montagna - veicolano un messaggio eloquente,
    messo in primo piano nell’incontro con il centurione. La
    fede del gentile non soltanto gli vale un posto a tavola,
    ma condanna anche alla tenebra più buia alcuni la cui fede
    li aveva fatti sedere a tavola.
    Ma essere Israele è conoscere e amare l’unico e il solo
    157

    Dio che ha creato il mondo. Questo è il motivo che condusse
    Dio a creare Israele per fare in maniera giusta ciò
    che Adamo aveva fatto in modo sbagliato, volendo accettare
    la volontà di Dio. La Torah e i profeti ci raccontano
    la storia della ricerca di un nuovo Eden da parte di Dio,
    che viene ora realizzata da coloro che accettano il patrimonio
    e l’eredità e diventano i figli di Abramo e di Sara
    e formano così Israele al Sinai.
    Mosè inizia la sua storia nell’Eden, ma Gesù sulla
    montagna non racconta nessuna storia. L’esposizione iniziale
    di come stanno le cose presentata dalla Genesi ci
    dice come Dio ha fatto il mondo, riconobbe il proprio
    fallimento nel farlo così e lo corresse. Per mezzo di
    Abramo e di Sara nacque una nuova umanità, fondamentalmente
    per incontrare Dio al Sinai e per ricordare l’incontro
    nella Torah. Ma allora sorge la domanda: che cosa
    pensare del resto dell’umanità, dei figli di Noè ma non di
    quella parte della famiglia che comincia con Abramo e
    con Sara? La semplice logica della storia fornisce la risposta:
    il resto dell’umanità, fuori dalla santa famiglia e
    dalla voce imperante del Sinai, non conosce Dio, ma venera
    gli idoli. Costoro sono quelli che noi chiamiamo “i
    gentili”. E i gentili, non Israele, governano il mondo.
    Questa è la storia della Scrittura e questa è anche la storia
    che i saggi raccontano. Ma sul monte Gesù non racconta
    nessuna storia e a Cafarnao egli dà il benvenuto al
    centurione alla tavola del regno perché ha avuto fede in
    lui solo.
    «Ecco qui, maestro, questa è la mia storia dell’identità
    di Israele rispetto a ogni altro popolo e del contenuto
    della sua fede. Dice come Dio incontra le nazioni, e
    Israele fra di esse, e che cosa accadde quel giorno che
    rappresenta la controparte di questa giornata qui a Cafarnao
    ».
    158


    Sifré al Deuteronomio ccxlviii:iv,1ss.2:
    l.A. Un altro insegnamento che concerne la frase: «Egli
    disse: “Il Signore viene dal Sinai”».
    B. Quando colui che è in ogni luogo apparve per dare la
    legge a Israele, non si rivelò al solo Israele, ma ad ogni nazione.
    C. Prima di tutto egli venne dai figli di Esaù3. Egli disse loro:
    «Accettate la Torah'ì».
    D. Essi risposero: «Che cosa c’è scritto?».
    E. Egli replicò: «Non uccidere» {Esodo 20,13).
    F. Essi risposero: «L’intima essenza di “questi uomini”
    (cioè nostra) e dei loro padri è uccidere, poiché sta scritto:
    “Ma le mani sono le mani di Esaù” (Gen. 27,22). “Vivrai
    della tua spada”» (Genesi 27,40).
    G. Così egli andò dagli Ammoniti e dai Moabiti e chiese loro:
    «Accetterete la Torah'ì».
    H. Essi risposero: «Che cosa c’è scritto?».
    I. Egli disse loro: «Non commettere adulterio» (Esodo
    20,13).
    J. Essi gli risposero: «La stessa essenza della fornicazione
    appartiene a loro (cioè a noi), poiché sta scritto: “Così tutte
    e due le figlie di Lot ebbero figli dal proprio padre”» (Genesi
    19,36).
    K. Così egli venne ai figli di Ismaele e disse loro: «Accettete
    la Torah'ì».
    L. Essi risposero: «Che cosa c’è scritto?».
    M. Egli gli disse: «Non rubare» (Es. 20,13).
    N. Essi gli risposero: «La stessa essenza di loro (cioè nostra)
    padre è il furto, come sta scritto: “Ed egli sarà un asino
    d’uomo” (Gen. 16,22)».

    2 Si tratta di un commento puntuale al libro del Deuteronomio, redatto in
    Palestina fra il 250 e il 350 d.C.; vi si sottolinea la speciale relazione fra Dio
    e Israele poiché, a differenza dei gentili, Israele accettò la Torah e la sovranità
    di Dio e ne ricevette la terra e la stessa Torah. Nell’opera predomina l’idea
    che la sola ragione, privata della guida della Scrittura, non porta a nessun risultato
    affidabile (N.d.C.).
    3 Cioè gli Edomiti (N.d.C.).

    159

    O. E così continuò. Egli andò ad ogni nazione chiedendo
    loro: «Accettate la Torah?».
    P. Perché così sta scritto: «Tutti i regni della terra ti renderanno
    grazie, o Signore, perché hanno ascoltato le parole
    della tua bocca» (Salmo 138,4).
    Q. Si dovrebbe supporre che essi ascoltarono e accettarono
    la Torahl
    R. La Scrittura dice: «Ed io mi vendicherò con ira e con furia
    delle nazioni, perché esse non ascoltarono» (Michea
    5,14).
    S. E non è bastato loro non ascoltare, ma neppure i sette comandamenti
    che i figli di Noè accettarono su di loro non furono
    in grado di mantenerli senza infrangerli.
    T. Quando il Santo, benedetto Egli sia, vide come stavano le
    cose, diede la Torah ad Israele.

    «Adesso maestro, dissi a Gesù, potrei raccontarti una
    parabola che non riguarda un re ma una persona comune?
    ».

    2.A. La faccenda può essere paragonata al caso di una persona
    che mandò il suo asino e il suo cane all’aia e caricò un
    letekh4 di grano sull’asino e tre seah5 di grano sul cane. L’asino
    camminava, mentre il cane ansimava per la fatica.
    B. Egli tolse un seah di grano dal cane e lo mise sull’asino
    e fece lo stesso con il secondo e col terzo.
    C. Così fu Israele: essi accettarono la Torah, completa di
    tutte le amplificazioni secondarie, persino di tutti i dettagli
    più piccoli; anche i sette comandamenti che i figli di Noè
    non erano stati in grado di osservare senza infrangerli gli
    Israeliti giunsero ad accettare.
    D. Questo è il motivo per cui è detto: «Il Signore venne dal
    Sinai; egli splendeva su di loro dal Seir».

    4 Antica unità di misura ebraica per solidi equivalente a circa 115 litri.
    5 Antica unità di misura ebraica per solidi equivalente a circa 75 litri.

    160

    «Così, maestro, io presto ascolto a ciò che tu non dici,
    onorando e condividendo molto di quello che hai proposto.
    E lo trovo molto necessario, ma - adesso forse tu
    puoi capire perché - anche del tutto insufficiente alla luce
    del criterio della Torah proposta al Sinai».
    Si fece silenzio. Ma un poco più tardi, quando ancora
    camminavamo insieme, avrei ascoltato la sua risposta alla
    mia domanda a proposito di Israele. Infatti, essendo un
    vero maestro, egli aveva ascoltato attentamente la mia domanda
    e aveva riflettuto su di essa. Egli comprendeva il
    mio pensiero, come io cercavo di comprendere il suo.
    Ma, come un vero maestro, egli dava anche per scontato
    che io sapessi come ascoltare e replicare. Così la sua risposta
    non fu indirizzata a me come diretta replica alla
    mia questione, ma venne piuttosto mentre istruiva un altro
    discepolo - si trattava di Pietro? - che poneva una domanda
    completamente differente, cioè chiedeva il permesso
    di andare e seppellire suo padre, il suo patrimonio.
    Stavamo lasciando Cafarnao. Prima di andare via con
    il maestro, il discepolo disse: «Signore, permettimi prima
    di andare a seppellire mio padre».
    Ma Gesù gli disse: «Seguimi e lascia che i morti seppelliscano
    i morti» (Matteo 8,21-22).
    Lo stesso vale per il patrimonio e l’eredità di Israele:
    morte, perché i morti si seppelliscano da soli.
    «Ma», così pensai ascoltando queste parole, «per noi,
    Israele, i nostri padri e le nostre madri non sono mai
    morti: Abramo, Isacco, Giacobbe, Sara, Rebecca, Rachele
    e Lia vivono nelle nostre preghiere e vivono nella Torah
    e così vivono in noi. Il maestro vorrebbe negarlo?
    Ma allora i suoi discepoli - tutto Israele - non capirebbero.
    Ma soprattutto, sedendo alla tavola del regno dei cieli
    con Abramo, Isacco e Giacobbe, che cosa avrebbe capito
    il centurione dei suoi compagni di pranzo?».
    161

    Queste domande però non le posi. Da Cafarnao Gesù
    se ne andò per la sua strada. E io sapevo dove me ne sarei
    andato: al villaggio, a casa, al regno di Dio qui e
    adesso.
    162

    9
    «TU PRELEVERAI LA DECIMA...»
    CONTRO
    «VOI PAGATE LA DECIMA...
    E TRASGREDITE LE PRESCRIZIONI
    PIÙ GRAVI»


    «Guai a voi, scribi e farisei, che pagate la decima della
    menta, dell’aneto e del cumino, e trasgredite le prescrizioni
    più gravi della Legge, la giustizia, la misericordia, la
    fedeltà. Queste cose bisognava praticare, senza omettere
    quelle. Guide cieche che filtrate il moscerino e ingoiate il
    cammello» (Matteo 23,23-24).


    «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pulite l ’esterno del
    bicchiere e del piatto mentre all’interno son pieni di rapina
    e di intemperanza. Fariseo cieco, pulisci prima l ’interno del
    bicchiere, perché anche l ’esterno diventi netto»
    (Matteo 23,25-26).


    Mosè dice: «Dovrai prelevare la decima da tutto il
    frutto della tua semente» (Deuteronomio 14,22); Gesù è
    d’accordo, ma ricorda di non trascurare cose più importanti,
    come, per esempio, «amare il tuo prossimo come te
    stesso» e «voi sarete santi». Tuttavia, parte della santità
    consiste nel pagare la decima, insieme agli altri insegnamenti
    della Torah. Nessuno oserebbe affermare che tutto
    si equivale; e ognuno sarebbe d’accordo con Gesù: esegui
    i comandamenti principali - i Dieci Comandamenti,
    per esempio - senza trascurare quelli meno importanti.
    163

    Ma Gesù dà per scontato che il diritto contrasti con il
    rito. Egli mette ripetutamente in contrasto la corruzione
    interiore e la pietà esteriore o l’impurità interiore e i segni
    esteriori della purità. Egli riconosce, in verità, che il
    pagamento della decima fa parte della Torah. Se, tuttavia,
    pagate la decima, ma trascurate «le cose più importanti
    della Torah», allora siete delle «guide cieche». Il rimarchevole
    detto di R. Pinhas ben Yair - secondo il quale
    «la santità porta alla modestia, la modestia alla paura
    del peccato, la paura del peccato alla pietà, la pietà allo
    Spirito santo» - mette in discussione la certezza che noi
    dobbiamo essere o una cosa o l’altra: o pii o morali.
    Un giorno, perciò, posi la mia domanda: «Che cosa
    succede se paghi la decima, ma agisci secondo giustizia,
    ami la misericordia e riconosci con fede la signoria di
    Dio? E davvero questo che tu vuoi da me? Se è così,
    maestro, posso dare un senso al tuo messaggio sul regno
    dei cieli, nel quadro dell’insegnamento della Torah su
    quanto debbo fare e credere».
    Ma se non fosse così - Dio non voglia! - come potrei
    osservare il patto durevole dell’Eterno Israele? Ogni insegnamento
    viene giudicato oggi dalle parole dell’antico
    giuramento: «Noi lo faremo e obbediremo». Se osservo
    lealmente questo giuramento, allora, ma soltanto allora,
    posso venire a patti con qualsiasi messaggio del maestro
    per Israele.
    In ogni caso, questa è la domanda che io volevo porgli,
    una discussione, proprio un ultimatum.
    Ma non ci fu bisogno di chiedere nulla, perché, quando
    lo ascoltai parlare seduto ai margini della folla, trovai
    la risposta alla mia domanda. La risposta era contenuta,
    infatti, nell’affermazione seguente: «Voi pulite l’esterno
    del bicchiere e del piatto, ma all’interno son pieni di rapina
    e d’intemperanza». Essa stava a significare che se
    164

    voi non siete puri dentro, allora l’esterno sembra pulito,
    ma non lo è. Questa frase ci fa venire in mente precisamente
    lo stesso contrasto esistente fra la corruzione interiore
    e la pietà esteriore che Gesù segnalava nella stessa
    sezione: «Voi rassomigliate a dei sepolcri imbiancati: essi
    all’esterno son belli a vedersi, ma dentro son pieni di
    ossa di morti e di ogni putridume». Egli vede dunque un
    conflitto fra il diritto e il rito, poiché la gente che è interessata
    al rito non lo è altrettanto alla moralità.
    Mentre molti condividono questo pregiudizio, molti
    altri trovano palese la denuncia dei profeti contro quelli
    che compiono i riti, ma sono ingiusti, per esempio lo
    scontro fra il profeta Natan e Davide («Tu hai ucciso,
    forse erediterai?») o l’accusa di Amos, secondo la quale
    chi vende il bisognoso in cambio di un paio di scarpe
    non può far valere nessuna ragione presso Dio. Riaffermando
    che i profeti insistono sul diritto, noi sottolineiamo
    anche che il rito deve portare al diritto e che lo scopo
    dell’eseguire i comandamenti è quello, come dice il Talmud,
    «di purificare il cuore dell’uomo». C’è un posto,
    perciò, nel disegno divino per il rito e per il diritto, sebbene
    quello che Dio esige di più da noi sia la giustizia.
    Nel mio villaggio, tuttavia, conosco molta gente che
    obbedisce sia al comandamento che concerne il sabato
    sia a quello che ci prescrive di amare il nostro prossimo
    come noi stessi, senza avvertire nessun contrasto. Tutti
    loro rappresentano la volontà del Dio vivente, affermata
    in un unico luogo, la Torah e per mezzo di un solo profeta,
    Mosè. Nell’ebraismo contemporaneo io conosco moltissime
    persone che, adempiendo i comandamenti morali
    e quelli rituali, testimoniano con l’esempio concreto della
    loro vita quello che la Torah vuole che noi siamo.
    Ascoltando queste parole sferzanti, mi domando se
    davvero a Gesù interessino le regole alimentari. E a que-
    165

    sta domanda rispose questo detto, a me sconosciuto, che
    mi fu narrato da uno dei discepoli:

    «Poi, riunita la folla, disse: “Ascoltate e intendete! Non
    quello che entra nella bocca rende impuro l’uomo, ma quello
    che esce dalla bocca rende impuro l’uomo... Non capite
    che tutto ciò che entra nella bocca, passa nel ventre e va a
    finire nella fogna? Invece ciò che esce dalla bocca proviene
    dal cuore. Questo rende immondo l’uomo. Dal cuore, infatti,
    provengono i propositi malvagi, gli omicidi, gli adulteri,
    le prostituzioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie.
    Queste sono le cose che rendono immondo l’uomo, ma il
    mangiare senza lavarsi le mani non rende immondo l’uomo”
    » (Maffeo 15,10.17-20).

    Forse, in precedenza, mi sbagliavo. Avevo concesso
    troppe cose e troppo in fretta. Agli occhi di Gesù non
    c’era conflitto fra il rito e il diritto, perché egli non attribuisce
    nessun valore ai riti.
    I riti non significano nulla. Tutto ciò che conta è l’obbedienza
    ai precetti etici e morali della Torah.
    Se quello che mangio non mi rende impuro (spiegherò
    fra poco che cosa significa questa parola), allora le regole
    della Torah che determinano quali sono i cibi permessi
    e quali quelli vietati non hanno alcun valore. Gesù manifesta
    chiaramente la sua posizione, che non è affatto analoga
    a quella che egli sosteneva quando lo ascoltai per la
    prima volta sulla cima della montagna. Avendo messo in
    contrasto il diritto e il rito, e avendo affermato che mangiare
    senza essersi lavati le mani non significa nulla o
    che non è il cibo che mangi a renderti impuro, egli abolisce
    dunque alcuni dei segni e degli iota della Torah. Il
    maestro palesa allora che esiste davvero un contrasto fra
    i comandamenti che ci dicono di amare il nostro prossimo
    come noi stessi e i comandamenti che ci parlano del
    166

    mangiare e del bere. Il mio rispetto per l’uomo è tale,
    tuttavia, che esito davanti al pensiero che si sia contraddetto,
    dichiarando una cosa in un posto e il contrario altrove.
    Concludo che non lo capisco davvero. Egli vede
    un conflitto dove io non lo vedo, mentre io vedo che bisogna
    fare la volontà di Dio dove lui non la vede.
    Questo mi porta, tuttavia, a domandarmi ancora una
    volta, se noi pensiamo alle stesse cose quando parliamo
    di questi problemi. Dal mio punto di vista, mangiare senza
    essermi lavato le mani, pagare la decima dell’aneto e
    del cumino, lavare i piatti e i bicchieri non comporta nessun
    contatto - e meno ancora tensione o scontro - fra il
    diritto e il rito. Quando Gesù afferma che «voi dovreste
    fare queste cose, senza omettere quelle perché - come
    egli sottolineò - finché non siano passati il cielo e la terra
    non passerà dalla Legge neppure un iota o un segno,
    senza che tutto sia compiuto», non mi è affatto chiaro
    come egli concili questi insegnamenti fedeli alla Torah
    con i paralleli offensivi fra impurità e immoralità.
    È un dato di fatto che la Torah dedichi molto spazio al
    cibo. Dalla storia della creazione in avanti, quello che la
    gente mangia risulta un problema importante. Il giardino
    dell’Eden è un frutteto; Noè offrì in sacrificio animali;
    tutti i patriarchi d’Israele fecero lo stesso. Un argomento
    sul quale il Gesù di Matteo ha ben poco da dire - e nulla
    invero di positivo - mentre esso ha un posto considerevole,
    invece, nei racconti e nella legge della Torah.
    Israele serve Dio, in primo luogo, offrendo in sacrificio
    sia animali sia grano, vino ed altri prodotti della terra.
    Perciò nella Torah una delle forme del servizio divino,
    il sacrificio, prende la forma terrena del cibo. Si possono
    offrire in dono a Dio fiori o incenso o, per esempio,
    il gesto di una danza sacra, ma la Torah vuole cibo. In
    secondo luogo, al sacerdozio è assegnato pure del cibo. I
    167

    sacerdoti ricevono parte dei sacrifici del tempio. Essi sostituiscono
    Dio che è il padrone della Terra Santa e la
    parte dei raccolti spettante a Dio è accantonata sia per i
    sacerdoti e i leviti, sia per i poveri e gli indigenti. A tutto
    Israele viene insegnato, infine, che taluni cibi non vanno
    mangiati perché impuri, mentre si può mangiarne degli
    altri. Non si tratta di preoccupazioni esclusive dei farisei.
    Il mantenimento della vita, grazie alla coltivazione delle
    messi e degli animali nella Terra Santa rappresenta, infatti,
    un problema centrale nell’idea della Torah di un regno
    di sacerdoti e del popolo santo.
    Che cosa c’è da dire su questo problema della “purità”?
    Quando si tratta di considerare la purità, la Torah afferma
    esplicitamente che i sacerdoti, quelli che li assistono
    e tutto il popolo con loro debbono essere puri, quando
    si accingono a entrare nel cortile del tempio per compiere
    il loro lavoro sacro. In ebraico “puro” si dice tahor ed
    impuro si dice tame. Il significato di purità in questo caso
    non è reso però da questa traduzione. Noi pensiamo
    alla purità in termini assai generali. Ma nella Torah “puro”
    ed “impuro” si riferiscono essenzialmente ad un contesto
    particolare, cioè a quello relativo al tempio e al culto
    per Dio. Se qualcosa è chiamata “pura”, essa è generalmente
    accettabile per il culto mentre se è “impura”
    non lo è. La parola “puro” ha davvero un significato assai
    limitato e particolare in questo contesto. “Accettabile
    in luogo sacro” potrebbe essere una traduzione alternativa
    al posto di “puro”, come “inaccettabile” potrebbe esserlo
    per “impuro”.
    Ci siamo spinti assai lontano rispetto al punto di partenza
    che toccava il contrasto fra purità interiore ed esteriore.
    In questo scenario - mentre noi stiamo parlando
    del santo tempio che Mosè descrisse e che Israele costruì
    in seguito nella Terra Santa - la purità non è soltanto una
    168

    categoria che non ha nulla a che fare con l’etica. Non c’è
    né tensione, né contatto fra il rito e il “diritto”. È incomprensibile
    mettere in contrasto la purità “interiore” con la
    purità “esteriore”, con l’intenzione di unire così una vita
    privata immorale con una vita esteriore ritualmente corretta.
    Il problema della “purità” non riguarda l’etica; non entra
    in contatto e non si oppone ad essa se qualcuno, pur
    essendo colpevole di mancanza di misericordia, è “accettabile
    in un luogo santo”. Perché no? Perché quello che
    rende qualcuno accettabile in un luogo santo fa parte di
    una serie di considerazioni, mentre quello che rende una
    persona moralmente integra o inaccettabile fa parte di
    un’altra serie di considerazioni. Per usare un parallelo
    moderno, non possiamo dire che, se un chirurgo è puro
    per operare, ma è colpevole di andare a letto con la sua
    assistente di laboratorio, l’assistente di laboratorio sia
    un’ipocrita. Una cosa non ha proprio niente a che fare
    con l’altra (a meno che l’assistente di laboratorio non sia
    malata di epatite o di a id s ).
    Perciò, che cosa c’è da dire riguardo a questa “purità”
    che equivale ad “essere accettabili per il tempio e per il
    culto”? Il suo significato preciso è esposto nei libri del
    Levitico e dei Numeri. Le fonti di impurità sono dettagliatamente
    spiegate in Levitico 12-15 e altrove. Se dovessi
    dire in poche parole che cosa rende impuri, direi
    che rende impuri quello che, per una ragione o per l’altra,
    è anormale e interrompe il corso della natura e della
    società. Si prenda l’esempio del cadavere descritto in
    Numeri 19,11-22. La morte perturba la vita, a causa dell’impurità
    del cadavere. Ci sono, poi, come è specificato
    in Levitico 12-15 (Levitico 12,1-8 tratta della purificazione
    dopo il parto, mentre Levitico 15 riguarda le impurità
    sessuali), il flusso mestruale, il flusso di sangue fuori dal
    169

    ciclo mestruale, l’emissione seminale fuori dal normale
    processo riproduttivo. Anche in questo caso la fonte dell’impurità
    è costituita da quello che va contro la natura o
    che interrompe quello che è considerato il normale corso
    della natura.
    Il letto e la tavola debbono essere difesi perché rimangano
    nel loro alveo naturale. Ne consegue che la purità
    della tavola deve essere raggiunta e difesa sia riguardo al
    cibo che viene consumato, sia riguardo agli utensili usati
    per prepararlo e servirlo. I comuni oggetti d’uso quotidiano,
    destinati ad uno scopo preciso, sono passibili di
    diventare impuri e debbono essere tenuti separati da quegli
    oggetti che, per loro intrinseche proprietà, sono considerati
    straordinari o anormali. Se tale oggetto diventa,
    in seguito, impuro deve essere reso nuovamente puro attraverso
    l’ordine naturale.
    La lettura delle regole della Torah non rappresenta il
    solo modo di spiegare la classificazione di quello che è
    impuro; esse sono soltanto un modo di suggerirci che, in
    materia di purità o impurità, dei cibi da mangiare e dei
    cibi da non mangiare, della lavanda delle mani per mondarle
    daH’impurità e della lavanda delle stoviglie fatta allo
    stesso scopo, queste azioni non hanno a che fare con
    l’etica, ma sono, nondimeno, importanti. Non tutto è importante
    perché ha a che fare con un’azione giusta, con
    l’etica o anche coi rapporti umani. Alcune cose hanno
    importanza perché segnano il nostro rapporto con Dio e
    se questo implica di amare il nostro prossimo come noi
    stessi, esso ci richiede di cercare di “essere santi”, perché
    Dio è santo; e nella Torah la santità ha significati assai
    concreti e specifici che non hanno a che fare tutti con le
    relazioni interpersonali.
    Ci siamo allontanati molto dalla domanda che aveva
    segnato l’inizio della mia discussione con Gesù e che
    170

    formulò ancora una volta: dobbiamo o non dobbiamo
    mettere in contrasto il diritto e il culto? Essa fa parte della
    discussione più ampia che ho intrapreso tre capitoli fa
    su quello che conta davvero, nella quale ho analizzato la
    frase «Voi sarete santi, perché io, il Signore vostro Dio,
    sono santo» opposta a «Se vuoi essere perfetto, va’, vendi
    tutto quello che hai e poi seguimi». Se non avete un’idea
    esatta di quello che la Torah esige per essere santi,
    voi non comprenderete mai perché, se fossi stato là, non
    lo avrei seguito. Sono profondamente turbato, infatti,
    perché Gesù rifiuta, a mio avviso, quello che è fondamentale
    per la Torah. Non alludo alle minuzie delle quali
    ci stiamo occupando qui, ma al punto principale. O «Siate
    santi perché io, il Signore vostro Dio sono santo» o
    «Se vuoi essere perfetto... seguimi». Credo che la Torah
    abbia definito essere santo; è l’unica strada, a me nota,
    per sapere quello che Dio intende per santità, seguendo,
    per esempio, i Dieci Comandamenti. Dobbiamo sviscerare,
    perciò, il problema della santificazione fino alle sue
    estreme conseguenze.
    Le leggi sulla purità diventano particolarmente importanti
    per la Torah in connessione con il tempio e il sacerdozio.
    Per chiarire questo concetto, lasciatemi porre una
    semplice domanda. Che cosa, secondo le leggi della Torah,
    debbo fare se sono puro e che cosa non debbo fare
    se non lo sono? La risposta principale, ma non esclusiva
    è la seguente: se sono puro, posso andare al tempio, ma
    se non lo sono, non vi posso andare. Chi deve allora essere
    puro? Nei libri della Torah - Levitico, Numeri, Deuteronomio
    - è il sacerdozio a dover essere puro, quando
    va a officiare nel tempio. Quelli che non sono sacerdoti,
    le altre persone, debbono essere pure quando si recano al
    tempio, per esempio, durante le tre feste di pellegrinaggio
    di Pasqua, di Pentecoste e dei Tabernacoli.
    171

    C’è, tuttavia, un altro punto. Quando i sacerdoti consumano
    la loro porzione delle offerte dell'altare o quando
    mangiano a casa la decima che il popolo versa dai propri
    raccolti, essi debbono trovarsi proprio nello stato di purità
    cultuale che la parola “puro” indica.
    Perché dunque i farisei avrebbero fatto attenzione se
    qualcuno si fosse lavato le mani prima dei pasti oppure
    se avesse lavato i piatti e i bicchieri e tutto il resto? I sacerdoti
    hanno ricevuto esplicitamente, come vedremo fra
    poco, due ordini. Il primo ordine permette non solo a loro,
    ma anche ai loro famigliari a casa, di mangiare le cose
    sante che il popolo offre al Signore. Il secondo ordine
    gli intima di non essere “impuri”, quando mangiano queste
    cose sante. Si afferma infatti esplicitamente:

    «Il Signore disse a Mosè: “Ordina ad Aronne e ai suoi figli...
    se qualunque uomo della vostra discendenza che nelle
    generazioni future si accosterà, in stato d’immondezza, alle
    cose sante consacrate dagli Israeliti al Signore, sarà eliminato
    davanti a me. Io sono il Signore. Nessun uomo della
    stirpe d’Aronne affetto da lebbra e da gonorrea, potrà mangiare
    le cose sante, finché non sia mondo. Così sarà di qualsiasi
    persona che abbia toccato qualunque persona immonda
    per contatto con un cadavere o abbia avuto un’emissione
    seminale o di chi abbia toccato un qualsiasi rettile da cui
    abbia contratto immondezza oppure un uomo che gli abbia
    comunicato un’immondezza di qualsiasi specie. La persona
    che abbia avuto tali contatti sarà immonda fino alla sera e
    non mangerà le cose sante prima di essersi lavato il corpo
    nell’acqua; dopo il tramonto del sole sarà monda e allora
    potrà mangiare le cose sante, perché esse sono il suo vitto”»
    (Levitico 22,1-7).

    La faccenda diviene ora assai semplice. Queste regole
    si applicano sia al tempio nel quale i sacerdoti consuma172
    no la loro porzione delle cose sante dell’altare, sia a casa,
    alle mogli e ai figli dei sacerdoti.
    Che cosa ha a che fare tutto questo con i farisei? Gesù
    dà per scontato, evidentemente, che i farisei pensino che
    la purità e le prescrizioni alimentari vadano applicate anche
    fuori dal tempio e fuori dal sacerdozio (anche se non
    tutti i farisei erano sacerdoti). Egli presuppone questo
    fatto e questo sta alla base della critica al loro comportamento.
    Egli afferma con molte parole che la “tradizione
    degli anziani” non prescrive affatto al popolo di lavarsi le
    mani quando mangia. Perché la gente dovrebbe lavarsi le
    mani quando mangia se non officia come sacerdoti nel
    tempio, o perché dovrebbe lavarsi le mani se non si sta
    preparando a mangiare a casa la parte delle decime? Egli
    sostiene che i suoi discepoli non sono tenuti a lavarsi le
    mani, perché mangiare abitualmente non richiede l’osservanza
    puntuale delle regole di purità; esse appartengono
    al culto e la Torah è chiara su questo punto. Ogni altra
    posizione apparteneva, a suo giudizio, alla “tradizione
    dei padri” e non faceva affatto parte della Torah.
    Naturalmente ha ragione. Niente nella Torah lascia
    pensare che io mangio ogni giorno in uno stato di purità
    cultuale il cibo che non viene presentato al tempio come
    offerta, che non viene, per esempio, offerto ai sacerdoti.
    Che cosa voglio dire, quando pretendo allora, di mangiare
    il mio cibo quotidiano come se fosse il cibo del tempio
    o del sacerdozio, di mangiare a casa come se mi trovassi
    nel tempio, di comportarmi da sacerdote anche se
    sono una persona comune?
    La risposta mi sembra chiara e semplice. Sto recitando
    i riti di santificazione del tempio e del sacerdozio. Io sto
    assumendo perciò che ogni luogo nella terra santa è sacro
    come il tempio. Io mi sto comportando come se ogni
    israelita fosse un sacerdote. Io mi sto comportando come
    173

    se il mio cibo quotidiano fosse soggetto alle stesse regole
    di purità come il cibo dei sacerdoti nel tempio. In questo
    modo, che cosa sto facendo?
    Sto adempiendo al comandamento di santità. Questo è
    quello che la Torah intende quando afferma: «Siate santi,
    perché Io, il Signore, vostro Dio, sono santo» ed è questo
    che disse a Mosè:
    «Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all’Egitto, e come
    ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatto venire fino a
    me. Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e se custodirete la
    mia alleanza, voi sarete per me la proprietà fra tutti i popoli,
    perché mia è tutta la terra. Voi sarete per me un regno di sacerdoti
    e una nazione santa» (Esodo 19,4-6).
    Il nocciolo della questione è che, se osservo queste regole
    che la Torah stabilisce per il luogo santo, io agisco
    come se ogni luogo fosse santo. Quando mangio secondo
    le regole che rispettano i sacerdoti quando mangiano, mi
    comporto come se io fossi un sacerdote e come se il mio
    cibo venisse dall’altare. È un modo di essere santi, una
    maniera di realizzare quello che vuol dire «essere un regno
    di sacerdoti e una nazione santa».
    È un modo quotidiano di leggere la Torah, un modo che
    prende molto sul serio l’insistenza della Torah sul fatto
    che a Dio importa quello che mangio a colazione, per citare
    la frase con la quale ho concluso il settimo capitolo.
    Questo è un modo di vivere una vita santa che è eterna e
    costante, sempre in questo luogo e in questo tempo, sempre
    pertinente alle più immediate preoccupazioni di questa
    mattina. Sono sempre in movimento fra la coincidenza e
    lo scontro degli opposti, eternamente in movimento da un
    estremo all’altro, dal puro all’impuro, dall’impuro al puro.
    La morte è una costante. L’acqua destinata alla purifica
    174

    zione scende incessantemente dal cielo sulla terra. La sorgente
    dell’impurità dovuta al ciclo mestruale è costante
    come la pioggia. Il cibo sta sulla tavola ogni giorno, e se
    per gli Israeliti la tavola è un ritrovo abituale, il letto lo è
    altrettanto. La vita della santità della Torah ha perciò un
    suo ritmo costante. Si basa sulle fonti naturali deirimpurità
    e sulle fonti eterne della purità e si concentra sui momenti
    della vita quotidiana in cui gli uomini, qualsiasi cosa
    facciano, sono invariabilmente sempre impegnati: il nutrimento
    e la riproduzione, cioè mantenere la vita e creare
    la vita. Quello che Dio vuole da me è che io crei e sostenga
    la vita secondo le regole della Torah.
    Perché, in fin dei conti, nella Torah l’impuro si oppone
    fondamentalmente al sacro. La condizione naturale di
    Israele, che appartiene alle tre dimensioni della vita - la
    terra, il popolo e il culto - è la santità. Il popolo di Dio
    deve essere simile a Dio in modo da potersi avvicinare a
    lui. Di conseguenza, è l’impurità a causare, in quanto
    anormale, la perdita della santità di Israele, e da questo
    scaturisce che quello che è anormale è impuro. La purità
    è, perciò, l’espressione terrena dell’idea di santità e della
    separazione del popolo, della terra, del culto.
    Separandosi da quello che colpisce e affligge le altre
    nazioni, gli altri popoli e gli altri culti («I Cananei che
    erano prima di te»), gli Israeliti raggiungono quella separazione
    che esprime la santità e raggiungono la santità
    che è propria anche della condizione naturale d’Israele. I
    processi naturali corrispondono a quelli sovrannaturali
    che ristabiliscono in questo mondo il dato al quale questo
    mondo corrisponde. Le fonti distruttrici dell’impurità
    - cibi impuri, cose striscianti che sono morte e persone i
    cui organi riproduttivi e sessuali sono fuori dal proprio
    ordine naturale - infettano Israele e necessitano la restaurazione
    dell’ordine naturale.
    175

    Mi sembra perciò che i farisei stiano dicendo proprio
    questo quando compiono questi loro strani riti. E se in
    discussione c’è questo, allora i problemi che separano
    Gesù dai farisei, e anche da me, non sono banali. Egli
    non li presenta come banali e neppure io lo faccio.
    Quando egli considera il mio interesse nel mangiare
    secondo le regole di purità, cioè nel mantenere la mia vita
    attraverso il cibo, avendo in mente la volontà di Dio,
    egli pensa che questo sia assurdo come filtrare un moscerino
    o ingoiare un cammello.
    Come possiamo discutere?
    Tutto quello che posso dire suona così: «Maestro, Dio
    non vuole forse che noi siamo santi? E non è questo il
    modo in cui la santità è definita? I Dieci Comandamenti
    e la Regola Aurea hanno invero la precedenza. La Torah
    contiene, tuttavia, molto di più che di questi comandamenti
    e tu stesso ci dici di osservarli tutti quanti».
    Ne risulta che per i farisei l’idea di impurità funzionava
    in un contesto completamente differente rispetto all’etica,
    cosicché associare l’impurità al peccato non aveva
    alcun significato. L’impurità toccava un campo distinto
    da quello della morale, come il seguente esempio dimostrerà
    facilmente. Gesù considerava l’impurità una metafora
    del male, mentre la purità significava essere puro
    dal peccato. Il battesimo rimuoveva allora il peccato. I
    farisei vedevano invece nell’impurità una metafora del
    profano, mentre la purità era, ai loro occhi, metafora della
    santità. La lavanda delle mani rimuoveva l’impurità.
    Queste cose non rappresentano, davvero, la stessa cosa.
    Puro e impuro significavano per Gesù virtuoso o peccatore;
    la purità è perciò una categoria morale che rivela
    che genere di persona sei. Per i farisei, puro o impuro significa
    poter accedere o meno al santo tempio. Questo
    indica in quale posto puoi andare, quali cose puoi fare in
    176

    un particolare momento. Questo non ha nessun significato
    su quello che tu sei o non sei. Non si tratta di una categoria
    morale. Descrive lo stato in cui tu, in quel momento,
    ti trovi.
    Noi siamo stati soliti pensare che “essere più santo di
    te”, significhi essere più virtuoso dell’altro. Questo è ben
    lontano dal significato della santità ed è del tutto estraneo
    al motivo per cui la santità è importante per me. Per
    questa ragione, come vedremo, rappresentare l’impurità
    come peccato e come segno di malvagità rappresenta
    un’idea che può essere attribuita a stento alla Torah.
    Ritorniamo al meraviglioso passaggio della Mishnah,
    contenuto nel trattato Sotah 9,15 che dimostra come la
    pulizia conduce alla purezza e la purezza alla moralità o
    santità fino alla venuta del Messia e alla risurrezione dei
    morti:

    «L’attenzione porta alla pulizia fisica, la pulizia fisica alla
    purità levitica, la purità alla separazione, la separazione alla
    santità, la santità all’umiltà, l’umiltà a evitare il peccato,
    evitare il peccato alla santità, la santità allo Spirito santo, lo
    Spirito santo alla risurrezione dei morti».


    La persona impura non è per questo, evidentemente,
    malvagia cosicché non possiamo mettere in contrasto
    l’impurità con la moralità. La capacità di diventare puro
    che è, come abbiamo visto, una stazione sulla strada che
    conduce alla santità ha un equivalente nella capacità di
    diventare impuro; più una cosa è pura, più è esposta all’impurità.
    Non credo che potremo presentare i problemi in maniera
    che la gente possa discuterli ed, eventualmente,
    non essere d’accordo sulla stessa cosa. Se pensate che
    l’impurità abbia qualcosa di peccaminoso, voi troverete
    177

    allora che il contrasto fra la purità cultuale e la depravazione
    morale è del tutto spontaneo e quasi ragionevole.
    Ma se pensate che la pulizia ha a che fare con il culto e
    non con la moralità, allora il paragone non ha alcun senso.
    E alla base della controversia - perché c’è davvero
    una controversia fra Gesù e quelli come noi che hanno
    scelto la propria strada e non lo hanno seguito - è questo
    che fa tutta la differenza. O la corretta condotta cultuale
    determina il corso delle stagioni e la prosperità della terra
    o essa è semplicemente rituale, cioè un comportamento
    esteriore poco importante.
    Gesù predica il regno, la fine dei tempi, un evento nella
    stessa storia pubblica, mentre noi che seguiamo i farisei
    incentriamo la nostra attenzione sull’edificazione privata
    della casa e della coscienza. Gesù si rivolge ad un
    evento unico, ma il resto di Israele, vista la normalità dei
    nostri pasti che ci riguarda, si concentra sull’eternità. Ci
    interessano i cicli continui e ricorrenti che formano la vita:
    nascere e morire, seminare e mietere, il movimento
    regolare del sole, della luna, delle stelle nel cielo, della
    notte e del giorno, del sabato, delle feste e delle stagioni
    sulla terra. Abbiamo in comune un solo problema esistenziale:
    come reagire agli alti e bassi della vita?
    Se potessi rispondere nella calma di una lunga serata,
    lontano dalla folla vociante e se Gesù si curasse di ascoltarmi,
    che cosa gli direi?
    Gli direi: «Maestro, tu ed io, che facciamo parte dell’Eterno
    Israele, conosciamo davvero il segreto di resistere
    attraverso la storia. Agli Israeliti le cose non accadono
    solamente. Dio le fa accadere per insegnare qualcosa
    ad Israele. Questa è la ragione per cui i profeti insegnarono:
    ciò che ci accade, o Israele, si verifica perché
    così Dio ci ammaestra; gli eventi storici si verificano
    perché Dio lo vuole. Entrambi comprendiamo come i
    178

    profeti e gli apocalittici in Israele hanno modellato, ripensato
    e interpretato gli eventi, considerandoli la materia
    prima necessaria per rinnovare la vita del gruppo».
    Io vorrei evidenziare, forse non in così poche parole, alcune
    semplici verità. Per noi, Eterno Israele, la storia non
    è semplicemente “una catena di sporchi fatti che si succedono
    l’uno dopo l’altro”. La storia ci insegna invece cose
    importanti e significative. Essa aveva un fine e si muoveva
    verso una direzione. Coloro che scrissero il libro del
    Levitico e del Deuteronomio, i libri storici da Giosuè fino
    ai libri dei Re e i libri profetici, erano d’accordo che,
    quando Israele obbedì alla volontà di Dio, godette di pace,
    sicurezza e prosperità; quando non lo fece, fu punito da
    regni potenti che erano lo strumento dell’ira divina.
    Questa idea del significato della vita di Israele produsse
    un’altra domanda: per quanto tempo? Quando gli
    eventi storici avrebbero raggiunto il loro culmine e la loro
    conclusione? La speranza nell’avvento di un Messia,
    l’unto di Dio che avrebbe redento il popolo, lo avrebbe
    fatto incamminare sulla retta via concludendo le vicende
    della storia, costituì una risposta a questa domanda.
    Riprendo il mio soliloquio, nella quiete della sera.
    «Tu, maestro, poni questa domanda: “Per quanto tempo?”.
    E tu avresti risposto: “Non tanto a lungo”. Io, maestro,
    pongo questa stessa domanda, ma la mia unica possibile
    risposta è la seguente: comunque a lungo... Questa
    è la ragione per cui saremo quello che siamo chiamati ad
    essere: un regno di sacerdoti e un popolo santo».
    Guardando avanti, come se ci trovassimo nell’anno
    2000, comprendo che sarebbe stato assai a lungo. Ma assai
    a lungo abbiamo cercato di rimanere leali alla nostra
    vocazione: formare un regno di sacerdoti e un popolo
    santo, come Dio, attraverso la Torah di Mosè, ci ha ordinato.
    179

    Siamo, perciò, stanchi di aspettare? Alcuni lo sono, ma
    molti no: la pazienza è una virtù ebraica, benché l’impazienza
    sia, ahimè, molto più spesso, un vizio ebraico (e
    anche il mio). Lasciatemi parlare per conto mio e dire
    quello che io sostengo: per un ebreo, disperare è un peccato.
    Nelle nostre azioni, non in passato, ma ai nostri
    stessi giorni, abbiamo dimostrato e dimostriamo attraverso
    la nostra vita, attraverso la nostra volontà di resistere
    insieme, che non dobbiamo disperare. Il nostro è un popolo
    di speranza e noi abbiamo agito in passato e agiamo,
    oggi, con speranza.
    E ritornando al nostro soliloquio:
    «Voglio intraprendere, nel frattempo, proprio in questo
    momento e in questo contesto, la ricerca dell’eternità. Tu
    parli del regno dei cieli ed io spero che venga. Ma per
    adesso io penso che dovremmo cercare di formare una
    società che ospiti nel suo mezzo il cambiamento e lo
    sforzo. Gli stati della terra suppongono di fare la storia e
    pensano che le loro azioni contino. Ma Dio fa la storia.
    La realtà formata in risposta alla volontà di Dio è quello
    che ha valore come storia. Dio è il Re dei re dei re. Tu
    hai litigato coi farisei e io non giustifico la loro persecuzione
    nei tuoi confronti. Se fossi stato là quel giorno
    avrei protestato. Ma non troppo.
    Essi offrono una risposta alternativa alla domanda che
    tutti noi vogliamo porre. Essi sono in concorrenza con te:
    essi hanno altre domande, altre risposte, ma si rivolgono
    allo stesso Israele e alle sue condizioni.
    Essi non sono qui, adesso, ma agiscono nelle loro case
    come se fossero sacerdoti nel tempio. Se essi rispettano
    le leggi dei sacerdoti nel tempio mangiando ogni giorno
    a casa, essi si comportano, allora, a casa come dei sacerdoti
    impegnati a mangiare nel tempio. La loro è una pretesa,
    una imitazione, eppure è una magnifica aspirazione:
    180

    un modo di vita fondato sul “come se”. Essi vivono “come
    se” fossero sacerdoti, “come se” dovessero obbedire
    a casa a tutte le leggi applicate nel tempio.
    Questo è ciò che essi intendevano allora ed è quello
    che noi intendiamo ora: vivere attraverso le regole che
    Dio ha stabilito per la nostra santificazione. Questo è
    quello che significa per noi essere l’Eterno Israele.
    Tu, maestro, parli del regno dei cieli, la salvezza di
    Israele.
    I farisei, i sacerdoti, i saggi son quelli che si rivolgono
    alla santificazione di Israele. Se noi abbiamo idee differenti
    sulla cosa più importante - la salvezza alla fine dei
    tempi o la salvezza qui ed ora -, se questa è la posta in
    gioco, lo dirà il tempo. Dio risponderà, alla fine, a tutte
    queste domande».
    «E nel frattempo?» replica Gesù.
    «Beh, nel frattempo, se rimani nel nostro villaggio, mi
    faresti compagnia a colazione? Da amici?».
    Gesù risponde: «Da amici. Lo farei certamente».
    181
     
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    QUANTA TORAH, DOPO TUTTO?

    «Chi dunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo anche nel regno dei cieli; chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini, sarà considerato grande nel regno dei cieli. Poiché io vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei non entrerete nel regno dei cieli»
    (Matteo 5,19-20)
    .

    La mattina seguente, finita la colazione, avemmo l’occasione di parlare; il maestro si riprometteva infatti di lasciare il villaggio nel corso di quella giornata. Seduti sotto un fico e godendone l’ombra al sole del mattino, contemplavamo tutta la Galilea. Lui sembrava pensoso. Gli domandai se avesse intenzione di partire subito e lui rispose di sì. Gli chiesi poi che cosa sarebbe accaduto e lui replicò che lo sapeva soltanto Dio. Gli domandai, infine, se era diretto a Gerusalemme e lui mi disse di essere diretto proprio a Gerusalemme.
    «Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono inviati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una gallina raccoglie i pulcini sotto le ali e
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    voi non avete voluto. Ecco: la vostra casa sarà lasciata deserta! Vi dico infatti che non mi vedrete più finché non direte: Benedetto colui che viene nel nome del Signore» {Matteo 23,37-39).
    «Possiamo parlare ancora di alcune cose?» gli chiesi. «Perché no?» rispose il maestro.
    Resto in silenzio per un momento, poi mi volto verso di lui e lo guardo fisso negli occhi: «Ti rispetto davvero. Non voglio che si dica di me, a causa della mia incredulità: “Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua”. Non è la mia incredulità che mi trattiene dal seguirti. Non è che io non creda a quello che c’è in te. Il fatto è che io credo di più a quello che sta nella Torah. Perciò non verrò con te a Gerusalemme insieme ai tuoi discepoli. Ma voglio spiegartene il perché. Posso farlo?».
    Egli risponde pazientemente di sì.
    Continuo: «Io non vedo come conciliare i tuoi insegnamenti con quelli della Torah. La ragione non sta nel fatto che i tuoi insegnamenti non facciano ricorso, in verità, alla Torah. Alcuni di loro, anzi, lo fanno. La ragione è che gran parte delle tue affermazioni e gran parte delle affermazioni della Torah si toccano a stento. In parole semplici: tu parli del regno dei cieli. Per me questo significa vivere sotto il dominio di Dio. La Torah ci offre le regole che formano il dominio di Dio. E su molte di queste regole tu hai poco da dire».
    Egli obiettò: «Fammi un esempio».
    «Mosè ci dice, per esempio, di organizzare un governo giusto, di stabilire leggi giuste ed eque. Egli vuole che noi scegliamo uomini capaci, fidati e incorruttibili perché governino il popolo e lo giudichino.
    Mosè ci dice, per esempio, come comportarsi in caso
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    di liti fra le persone, in caso di controversie e di discussioni: “Quando due uomini rissano e uno colpisce il suo prossimo con una pietra...” (Esodo 21,18); “Quando un uomo colpisce con il suo bastone il suo schiavo” (Esodo 21,20); “Quando un bue cozza con le corna contro un uomo o una donna e ne segue la morte” {Esodo 21,28); “Quando un uomo ruba un bue o un montone e poi lo scanna o lo vende” {Esodo 21,37); “Se un ladro viene sorpreso mentre sta facendo una breccia in un muro e viene colpito e muore” {Esodo 22,1); “Quando un uomo usa come pascolo un campo o una vigna e lascia che il suo bestiame vada a pascolare nel campo altrui” {Esodo 22,4); “Se un uomo prende in prestito dal suo prossimo una bestia e questa si è prodotta una frattura o è morta” {Esodo 22,13); “Se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo, all’indigente che sta con te, non ti comporterai con lui da usuraio; voi non dovrete imporgli nessun interesse” {Esodo 22,24) e così via.
    Maestro, ho ascoltato e ho domandato e non ho sentito dire da nessuno sul modo in cui dobbiamo affrontare questi problemi nel regno che, a parer tuo, è sopra di noi. E ci sono anche molti altri punti sui quali il tuo silenzio è di per sé un messaggio eloquente».
    Egli mi chiede in che cosa consisterebbe questo messaggio e io replico che secondo questo messaggio il luogo e il tempo non hanno importanza.
    Egli ribatte: «Non ho detto forse: “Chi dunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo anche nel regno dei cieli; chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini, sarà considerato grande nel regno dei cieli. Poiché io vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei non entrerete nel regno dei cieli”?».
    Io controbatto: «Ma tutto dipende dal regno dei cieli
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    che è sempre proiettato verso il futuro. Ci si aspetta che io osservi questi comandamenti, e li insegni perché gli uomini siano grandi nel regno dei cieli. Tu vuoi che io agisca più rettamente degli scribi e dei farisei cosicché io possa entrare nel regno dei cieli. Ma che cosa ne è di questo luogo e di questo momento?».
    Ma egli afferma: «Tu non parli della preghiera che io ho insegnato: “Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà così in cielo come in terra”».
    Io noto che diciamo le stesse cose nella preghiera che recitiamo tre volte al giorno e che dice: «Possa venire il tuo regno e possa essere fatta la tua volontà».
    Egli sottolinea: «Tutti noi ebrei, perciò, guardiamo al regno dei cieli».
    Rispondo che è vero.
    Ed egli soggiunge: «Non ho insegnato, forse, che dovremmo aver fiducia in Dio senza preoccuparci di quello che mangeremo, di quello che berremo e di quello che indosseremo? “Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena” (.Matteo 6,33-34). Il regno dei cieli ti appare, perciò, così bizzarro, se il tuo passaporto è la fede in Dio?».
    Riconosco di aver udito lo stesso stato d’animo fra i farisei. Se potessimo sbirciare nel futuro, ne troveremmo espressione in molte frasi. Il tempo mi darebbe ragione. Un maestro fariseo vissuto più tardi direbbe la stessa cosa con le stesse parole, come dimostra questo detto:
    «Rabbi Eliezer il Grande dice: “Chi ha un pezzo di pane nella bisaccia e afferma: ‘Che cosa mangerò domani?’ è un uomo di poca fede”. Questo coincide con quello che diceva
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    Rabbi Eliezer: “Che cosa significa la frase ‘Chi oserà disprezzare il giorno di così modesti inizi’ (Zaccaria 4,10)? Chi fece sì che la tavola del giusto fosse vuota nell’età che verrà? Fu la povertà di spirito che li caratterizzò, perché essi non credettero nel Santo, benedetto Egli sia”» (Talmud Babilonese, Trattato Sotah 48A).
    Io replico: «Ma è qui ed ora che debbo scegliere, come tu vuoi, se seguirti a Gerusalemme o restare a casa».
    Egli dice: «È vero. Se vuoi, puoi venire».
    Io ribatto: «Verrei, se pensassi che il regno dei cieli fosse sopra di noi. Ma io non lo penso, al contrario di te. Stai andando a Gerusalemme, non è vero?».
    Egli dice di sì.
    Gli chiedo: «È la tua ultima parola?».
    Egli risponde: «Sì, lo è».
    E poiché mi ero perso molto di quello che aveva detto, ripetè queste cose già dette, qua e là, in Galilea:
    «Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete. I ciechi recuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l’udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella» (Matteo 11,4-5).
    E poi: «In verità vi dico: molti profeti e giusti hanno desiderato vedere ciò che voi vedete e non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate e non l’udirono!» (Matteo 13,17).
    E ancora: «Poiché il Figlio dell’uomo verrà nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e renderà a ciascuno secondo le sue azioni. In verità vi dico: vi sono alcuni fra i presenti che non morranno finché non vedranno il Figlio dell’uomo venire nel suo regno» (Matteo 16,27-28).
    E infine: «Allora Pietro, prendendo la parola, disse: “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa
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    dunque ne otterremo?”. “Nella nuova creazione, quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, sie- derete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù d’Israele. Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna”» (Matteo 19,27-29).
    Gli domando se accadrà presto e lui mi risponde di sì. «Ma se non si verificherà?» gli chiedo. Segue un lungo, lunghissimo silenzio.
    «Che cosa accadrà?» insisto.
    «Lo sa Dio», concluse. Si alzò e se ne andò per la sua strada.
    Rimasi a guardarlo mentre andava via, finché vidi i suoi discepoli venire a lui da strade e direzioni differenti.
    Ero sicuro, per ora, che egli avesse ragione. Sarebbero andati con lui a Gerusalemme. Essi credevano.
    Io no.
    Gli gridai: «Va’ in pace». In ebraico: Lekh be-shalom. Gli augurai ogni bene, ma me ne tornai a casa.
    Non ero deluso e non ero di certo privo di rimpianti, ma nondimeno i miei occhi erano rivolti verso casa. Qui mi aspettavano mia moglie, i miei figli, il mio cane che voleva giocare con me, le piante del mio giardino che aspettavano che le innaffiassi, ogni mia cosa. Là c’era il mio lavoro, là il mio riposo; là la mia chiamata, il mio compito, la mia precisa vocazione e non un’altra. Qui c’è la mia responsabilità, qui è il posto dove Dio vuole che io viva: mantenere la vita, santificarla, qui ed ora, in casa e nella famiglia, nella comunità e nella società. Il regno verrà, certamente, ma fino ad allora, la mia vocazione è in questo luogo e in questo momento.
    Addolorato per quello che doveva accadere e che non
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    gli avevo augurato, non avrei condiviso il suo destino o la sua fede, né nel momento critico della morte, né (se questo fosse avvenuto) nel suo trionfo sulla morte. Non che non fossi convinto della virtù dell’uomo o della saggezza di quello che aveva detto. È che non avevo udito da lui quel messaggio che la Torah mi aveva detto di aspettarmi. Nel suo insegnamento mancava la cosa fondamentale insegnata dalla Torah. Era fuori questione, anche al solo scopo di mostrare buona volontà, affermare che tutti i suoi insegnamenti erano fedeli anche alla Torah di Mosè.
    La Torah mi aveva detto cose del regno di Dio che Gesù aveva trascurato, mentre Gesù mi aveva detto delle cose del regno di Dio che la Torah non aveva detto. Il racconto che Gesù faceva del regno di Dio attirava i miei occhi verso l’alto, verso il cielo. Ma io vivevo, e vivo tuttora, in questo luogo e in questo momento, dove i buoi danno cornate e le famiglie litigano. Il regno dei cieli potrebbe venire, forse non troppo presto, ma finché è sopra di me, la Torah mi insegna che cosa significa vivere qui e ora nel regno di Dio.
    Molto di quello che Gesù aveva detto sul regno di Dio concerneva cose che la Torah, da parte sua, aveva anche trascurato come, per esempio, chi vi entra e chi no. Quando sarà e, naturalmente, la stessa situazione di Gesù nel regno di Dio - a nessuno di questi insegnamenti la Torah mi preparava, e in tutta onestà, non c’era nessun motivo per cui avrebbe dovuto farlo.
    Il regno di Dio potrebbe venire presto, ai nostri giorni, dove noi siamo? La Torah non solo risponde affermativa- mente, ma mostra anche in che modo verrà. Questo è davvero il punto. Io debbo attendere il regno di Dio? Debbo attenderlo, naturalmente: ma nell’attesa, ci sono cose che debbo fare. In maniera più appropriata, ci sono
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    cose che dobbiamo fare e dobbiamo farle insieme. Gesù e i suoi discepoli se ne partirono insieme, lontano dalla vita dell’Eterno Israele, e avrei pensato allora, come oggi, che Israele aveva ragione nel lasciarli andare. Il loro messaggio era rivolto, secondo Matteo, agli individui, mentre la Torah parla a tutti noi. Lascia la casa, seguimi; da’ via tutti i tuoi beni e seguimi; prendi la tua croce personale e seguimi; ma che ne è della casa, della famiglia e della comunità, e dell’ordine sociale che la Torah ha comandato ad Israele di far esistere?
    Molto tempo fa, in un posto lontano, Dio ha chiamato ad esistere un popolo, un popolo santo ed eterno. Dio ha unito a sé questo popolo in un patto, le cui clausole sono stabilite dalla Torah e sono scolpite anche nella nostra carne come il segno stesso del patto. Niente di quello che ho ascoltato da Gesù parla del patto, niente parla di Israele, niente dei doveri di tutto Israele, complessivamente e allo stesso tempo. Ogni cosa parla invece di me e non di noi, del partire e non del restare, di una svolta vicina e non di cose a lungo termine.
    «Se avesse ragione?», mi viene da pensare. «Se non ci fosse un lungo termine, ma soltanto, “questo breve momento”?».
    Non aveva forse ragione quando disse: «Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena», un messaggio profondamente radicato nella Torah che parla di buoi che danno cornate e di gente litigiosa.
    Se lui ha ragione, perciò, allora il regno dei cieli sarà qui e tutte le cose che lui dice ci saranno sicuramente.
    Se si sbaglia, tuttavia, che cosa accadrà? Famiglie distrutte a che scopo? Villaggi abbandonati, perché? E che facciamo se i buoi danno cornate e la gente litiga?
    Il mio discorso non intende contrapporre la terra al
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    cielo. Esso affronta due differenti idee sulla volontà di Dio, sulla maniera in cui si deve portare il cielo in terra. La Torah mi ha detto come costruire un regno di sacerdoti e un popolo santo. La Torah parla, pertanto, del regno di Dio. Essa parla, tuttavia, anche del bue che dà cornate e della slealtà. La gente reale vive la vita reale nel regno di Dio. La Torah ci insegna come costruire il regno nel luogo dove ci troviamo, nella maniera in cui siamo.
    Nessuna affermazione di Gesù sul regno dei cieli mi dice che qui, dove noi siamo, possiamo costruire, possiamo obbedire alla Torah, formando così un regno di sacerdoti e un popolo santo. Egli parla del cielo, non della terra; le sue regole sono regole per il suo tempo e il suo luogo, il suo giogo è lieve e il suo carico è leggero. Cammino tuttavia per questo sentiero di quaggiù. Vado a casa. Egli chiama me, ma io sono parte di un noi. Egli mi dice di abbandonare casa e famiglia, ma Dio sul Sinai ci ha detto che non c’è regno di Dio senza casa e famiglia, villaggi e comunità, terra e popolo. Il regno di Dio sta per venire qui in terra, nel popolo di Dio ed ogni persona può diventare un membro di Israele, il popolo di Dio.
    Camminando verso casa, scorsi da lontano quella montagna dove vidi per la prima volta Gesù, che stava sulla sua cima, con i discepoli che gli sedevano intorno. Stando ai piedi della montagna, pensai a Mosè che aveva parlato, in alto, in nome di Dio, tanto tempo fa, ma che viene ascoltato ogni giorno.
    Sì, l’ho sentito dire: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati gli afflitti, perché saranno consolati. Beati i miti, perché erediteranno la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno
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    misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» {Matteo 5,3-9).
    Ma che cosa dovevo ascoltare da sotto, dove mi trovavo? «Le folle restarono stupite del suo insegnamento; egli insegnava infatti come uno che ha autorità e non come i loro scribi» {Matteo 7,28).
    Che dire allora dell’altra montagna?
    «Io sono il Signore tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altri dèi di fronte a me... Non ti farai idolo né immagine alcuna... perché io il Signore sono il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra il suo favore fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandi» {Esodo 20,2-6).
    Mosè ha detto molto di più, stando sulla montagna. Egli disse al popolo come organizzare la sua nazione; come comportarsi nelle sue faccende di tutti i giorni; come adorare e servire Dio; come Dio gli avrebbe dato una terra santa e come avrebbe dovuto coltivarla, insomma tutto quello che serve per costituire un regno, il regno di Dio, sotto il dominio di Dio e per mezzo del suo profeta Mosè.
    Mi chiedo come dovettero rispondere loro e come debbo rispondere io, adesso, nel momento in cui una montagna mi fa ricordare l’altra montagna. Mi viene in mente un versetto della Torah: «Mosè andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore e tutte le norme. Tutto il popolo rispose insieme e disse: “Tutti i comandi che ha dati il Signore noi li eseguiremo”» {Esodo 24,3).
    E c’era molto di più, così tanto da far sembrare la montagna in Galilea lontanissima dal monte Sinai. Dire di più sarebbe ripetere tuttavia moltissime volte la stessa
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    cosa. Ma ero vicino a casa e il sabato si avvicinava; il sole stava per tramontare. Gesù stava ormai avvicinandosi a Gerusalemme. Mi meravigliai di quello che aveva fatto delle parole che tutti noi avremmo recitato, pochi minuti dopo, benedicendo il vino:
    «Gli Israeliti osserveranno il sabato, festeggiandolo nelle loro generazioni come un’alleanza perenne. Esso è un segno perenne fra me e gli Israeliti, perché il Signore in sei giorni ha fatto il cielo e la terra, ma nel settimo ha cessato e si è riposato» (Esodo 31,16-17).
    Attraverso tutte le generazioni, un patto perenne, un segno per l’eternità: che legame c’è tra il Sinai ed una montagna della Galilea? Il patto è eterno.
    Così lui andò per la sua strada e io per la mia. Conclusi che non è facile discutere quando una delle due parti parla del domani e l’altra dell’oggi. Non spettava a me dire se il messaggio sulla cima di quella montagna della Galilea si sarebbe compiuto. Ma sapevo allora e lo so adesso, che la voce che parla dal Sinai getta un ponte fra i secoli, fu udita e sarebbe stata udita, finché sarebbe esistito l’Eterno Israele. Noi avremmo ascoltato e obbedito; avremmo cercato di ascoltare e di obbedire nel regno di Dio, in questo luogo e in questo momento; il sabato, alla fine di ogni settimana, ci fa pregustare il regno; per sei giorni lavoreremo, di sabato ci riposeremo tutti insieme, noi, l’Eterno Israele, chiamato ad essere, a costruire il regno di sacerdoti e il popolo santo.
    Dobbiamo raccogliere la sfida che scaturisce da quel giudizio:

    «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra per fare un solo proselito e, ottenutolo, lo rendete figlio della Geenna il doppio di voi» (Matteo 23,15).
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    E rispondiamo ripetendo quello che Dio ci ha detto al principio dei Dieci Comandamenti - un’affermazione che il Gesù di Matteo passò stranamente sotto silenzio affrontando i Dieci Comandamenti.
    «Io Sono il Signore tuo Dio, che ti ha condotto fuori dal paese d’Egitto, dalla casa di schiavitù».
    Questo spiega quello che mi proposi di spiegare: perché, se fossi stato là e se fossi stato fra i primi ad ascoltare questi insegnamenti terreni - la torah con la t minuscola - esposti come parte dei suoi insegnamenti per conto di Gesù Cristo, non sarei stato d’accordo. Se avessi ascoltato quello che egli disse, per buone e fondate ragioni, non sarei diventato uno dei suoi discepoli. E per le stesse ragioni, non sono oggi fra i suoi discepoli.
    Posso dire il perché in una sola parola?
    Sì, perché Gesù si rivolge tanto all’individuo quanto alla collettività.
    Ma la Torah, a partire dal Sinai in poi, si rivolge sempre a tutto il popolo.
    «Non avrete altri dèi di fronte a me».
    “Noi” - l’Eterno Israele - siamo qui per rispondere: «Noi lo faremo e obbediremo».
    E non credo che Dio vorrebbe altrimenti.

    J. Neusner
     
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    Credo che non sia il discorso della montagna ad essere errato ma l'interpretazione che ne si dà e che é arrivata in qualche modo corrotta. Non va intesa alla lettera. Penso che nell'ebraismo sia una prassi normale fondare sul verbo l'interpretazione delle lettera, fondare sulla torah orale l'interpretazione della torah scritta. Biglino scade proprio per questo motivo d'altronde. Il senso del discorso della montagna non va ricercato nel suo significato letterale, ma nello scopo che si prefigge che non é l'istituzione di una nuova legge scritta ma la rivitalizzazione dello spirito con cui la si vive. "L'avete sentito dire, ma io vi dico" non và inteso come un voler cambiare le cose. Gesù prima di iniziare a parlare esprime chiaramente che non una jota debba essere cambiata della torah e che é meglio per colui che corrompe la torah legarsi una pietra al collo e buttarsi in mare. Allora come si connubiano queste due affermazione così apparentemente distanti? La chiave di volta, sta nella meditazione supportata dalla fede che ciò che si sta leggendo non é errato, ma che di errato vi può essere soltanto l'interpretazione che si sta attribuendo al testo. Non é un caso che Gesù dichiari di parlare attraverso parabole. Ciò non va inteso solo come un'intervento destinato ai personaggi del racconto. La quarta-parete é perennemente rotta all'interno del vangelo. Se esso si dovesse rappresentare teatralmente avremmo il Gesù protagonista che mentre parla guarda sempre verso il pubblico. Come nei film appunto, in cui un personaggio guarda verso la telecamera e dice qualcosa al pubblico. Il parlare in parabole indica che il Vangelo stesso non sia altro che una macroscopica parabola. Solo i discepoli possono capirlo non tutti, come egli stesso dice in Matteo 13. Non é certo per volontà sua l'essere criptico o frainteso. E' colui che ascolta che se non ha la giusta chiave di lettura prenderà inevitabilmente fischi per fiaschi. Così il Gesù semplicemente parla, i suoi discepoli capiscono gli altri odono una parabola.
    Il significato del discorso della montagna é totalmente avulso dalle "accuse" che gli sono mosse all'interno di questa critica. Tutt'altro, esso va letto e interpretato alla luce della "difesa" mossa dall'autore nei confronti dell'ebraismo. Il significato non é quello che l'autore gli attribuisce ma esattamente quello che egli usa per controargomentarlo.
    La visione bidimensionale del discorso della montagna implica che un cristiano per essere tale debba essere una specie di super eroe del buonismo e della passività il tutto trasceso e sublimato da un superpotere detto amore che pur non avendo deve sforzarsi di praticare. Ora, ditemi voi chi in questo mondo é capace di amare a comando?
    La visione tridimensionale, ovvero quella supportata dalla conoscenza della tradizione, implica che tra i pilastri fondamentali della fede cristiana vi siano la grazia, il pentimento, la conversione, l'umiltà.
    La visione che ne consegue é quella quadridimensionale, ovvero quella che si svolge nel tempo, ovvero la messa in pratica di quanto sopra letto linearmente e meditato in profondità.
    Succede allora che il discorso della montagna, nella sua dimensione temporale, non é altro che un rito iniziatico, di profonda valenza, il cui scopo non é quello di impartire un nuovo ordine, ma di rendere palese e manifesta la miseria umana, di rendere palesi e manifesti i propri limiti all'iniziato. Di modo che dall'impossibilità di poter mettere in pratica un tale ordinamento, ne scaturisca o l'abbandono della dottrina o l'abbandono a Dio, il pentimento, la conversione come accettazione profonda della propria limitatezza e errabilità e la remissione nella propria totalità alla vera e unica Totalità, Dio.
    Il discorso della montagna é iperbolico, provocatorio, trickster. E lo spirito che lo anima mi pare lo stesso che animi quei sottili significati sottesi dall'aneddoto ebraico riguardo al fatto che é degno di studiare la Torah solo chi capisce che non é possibile che due uomini passino per lo stesso camino e che uno ne esca pulito e l'altro sporco.
    Il suo senso viaggia sulla linea del Sfido chiunque di voi a mettere in pratica alla perfezione quanto vi prescrivo senza che Io Sia Con Lui.
    Non é un caso che al termine del discorso della montagna la parabola evangelica prosegua così: Matteo 8
    1 Or quando egli fu sceso dal monte, molte turbe lo seguirono.
    2 Ed ecco un lebbroso, accostatosi, gli si prostrò dinanzi dicendo: Signore, se vuoi, tu puoi mondarmi.
    3 E Gesù, stesa la mano, lo toccò dicendo: Lo voglio, sii mondato. E in quell’istante egli fu mondato dalla sua lebbra.
    4 E Gesù gli disse: Guarda di non dirlo a nessuno: ma va’, mostrati al sacerdote e fa’ l’offerta che Mosè ha prescritto; e ciò serva loro di testimonianza.

    Edited by Pasquale Barubiriza - 15/10/2019, 17:05
     
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