| CITAZIONE (zerzan @ 28/10/2017, 20:32) Qualcuno mi può spiegare? Grazie Antropomorfismi biblici il caso di Esodo 33:18-23 Parte 1 Autore:© Avraham Israel, diritti riservati – Ultima revisione : 13/10/2007
Per antropomorfismo (dal greco ¥nqrwpoj = uomo e morf» = forma, aspetto esteriore) si intende l’attribuzione di forme fisiche e di sentimenti uman i alle figure divine nelle varie culture religiose. Nelle diverse traduzioni della Bibb ia ebraica si riscontrano passaggi che, per la forma in cui sono stati resi in traduzione dal testo ebraico originar io, sembrano conferire a D- o caratteristiche umane. In un importante passaggio del libro dell’Eso do, Es. 33:18-23, D-o che parla a Mosè sembra possedere un volto visibile dagli altri esseri uman i, appare confinabile al l’interno dell’universo, camminare sulla terra ed avere persino mani e spa lle, come fosse simile ad una delle sue creature terrestri. Un attento studio del testo ebraico condo tto da Avraham Israel illustra il reale significato dei termini ebraici che ricorrono in Es. 33:18-23 e ci restituisce il senso più probabile del passo, dedotto in base al contesto letterario, alla tecni ca di composizione della Bi bbia ebraica, che utilizza spesso espressioni figurate e allegorie, alla trad izione rabbinica e alle complesse sfumature della lingua ebraica, spesso ostiche al semplice lettore e persino al biblista “o ccidentale”. L’analisi dimostra come le parole che ricorrono nel test o ebraico abbiano un significato altamente simbolico e non possano essere ricondotte semplicemente a te rmini comunemente utilizzati per esprimere parti del corpo umano, come appare leggendo le divers e traduzioni della Bibbi a ebraica. Anche per questo, più che di “traduzioni” dovremmo parlare di “versioni” od “interpretazioni” della Bibbia ebraica nelle varie lingue, del resto già la vo calizzazione masoretica, dalla quale provengono le varie traduzioni dall’ebraico, è una forma di interpretazione di un testo ebraico che anticamente era consonantico. La relazione di Avraham Israel ci rest ituisce la visione che la religione ebraica ha da sempre di D-o, che non può essere descritto da un punto di vista antropom orfo oppure confinato all’interno di uno spazio, fosse anche l’intero universo materiale, in quanto “E gli Stesso è lo spazio, il Luogo, è la Presenza Divina che genera lo Spazi o, alimenta ogni cosa, l’ energia da Lui emanata mantiene in movimento le particelle degli atomi e permette l’esistenza della materia che sta sempre all’interno di uno spazio”. 2. Alcuni antropomorfismi nella Bibbia ebraica Nella Bibbia ricorrono comunemente espressioni figurate e simbolic he quali: “braccio del Signore”, “dito di D-o”, “mano di D-o”, ecc. Queste espres sioni non vengono riferite solamente alla Divinità, inoltre frasi come “per mano di” oppure “la mano di ” non sempre vanno intese in senso letterale ma spesso indicano la causa dell’azione in modo figurato. La stragrande maggioranza di queste espressioni sono parte de llo stesso linguaggio bi blico, il quale si esprime spessissimo con espressioni figurate e metaforiche. Ad esempio, in ita liano usiamo la parola “accanto”, per dire “al lato”, la corrispondente traduzione in ebraico è “al yad” o “leiad” ch e letteralmente significa: “sopra mano”, “a mano”. Il senso della costruzione, quindi , non ha nulla a che vedere con la mano di un essere umano. Le espressioni che contengono la parola “yad” = mano nell ’ebraico comune sono numerosissime (al ydei, miyad, ecc.) così come mo lto comuni sono le espressioni che contengono il termine “pi” = bocca (lefi, al pi, ecc.). Anche termini utilizzati nel cap itolo 33 dell’Esodo come “panim” = “faccia” – che nello stesso libro incont riamo nelle sue varie co struzioni: “panai” (mia faccia: è proprio il caso di Es. 33:20), “panav” (s ua faccia) “pnei” (la f accia di) – nell’ebraico comune sono impiegate in numerosissime espressi oni, da intendersi molte volte in senso figurato anche se spesso non sono propriamente figurate, in quanto fanno parte del normale uso delle parole dell’ebraico. Ad esempio le parole “mipnei” (= a cau sa di), “lignei” (prima di, davanti a), ecc., sono 2 tutte composte con il termine “panim” (faccia). Il termine “panim” (= faccia) in ebraico esiste solo al plurale, ma non è da intendersi come il plurale italiano “facce” perchè in ebraico esso è un plurale di indefinibilità ed esprim e pertanto un conc etto singolare indefi nito, pur rimanendo grammaticalmente un plurale. L’indefinibilità la si può intuire per esempio nella moltitudine dei lineamenti del viso esistenti nell’u manità. “Panim”, tuttavia, non de nota soltanto il volto dell’uomo ma in senso estensivo è utilizzato anche per quello degli animali, degli oggetti e di ogni altra cosa. “Panim” significa anche “davanti”, la parte anteri ore di tutte le cose, il suo esatto contrario è “achor” = dietro, la parte posteriore. Nei seguen ti due versi, che riportia mo secondo due diverse traduzioni/versioni dell a Bibbia in lingua italiana, ricorro no proprio i due opposti, “davanti” e “dietro”: 1 Cr. 19:10 (Trad. Nuova Diodati) – “Quando Joab si rese conto ch e aveva contro di sé due fronti di battaglia, uno davanti e l’altro dietro ...” (ebr.: ‘êlâyw pâniym wæ’âxôwr ) 2 Cr. 13:14 (Trad. N. Riveduta) – “Gli uomini di Giuda si voltar ono indietro, ed eccoli costretti a combattere davanti e di dietro ” (hammilæxâmâh pâniym wæ’âxôwr ) In italiano si usa dire “spalle” anche per designare la parte poste riore delle cose così in altre traduzioni dei suddetti versi biblici, come quella della C.E.I., si trova “s palle” anziché “dietro”. Sebbene le parole ebraiche utilizzate in 1 Cr. 19:10 e 2 Cr . 13:14 siano identiche (pâniym wæ’âxôwr), la Nuova Diodati in 1 Cr. 19:10 tra duce con “dietro” mentre in 2 Cr. 13:14 con “spalle”. Viceversa la Nuova Riveduta utilizza ne l primo v. “spalle” e nel secondo “dietro”. Quindi la stessa versione italiana a volte rende con termini diversi della lingua italiana parole che in ebraico sono esattamente le stesse. In E zechiele 2:10 abbiamo un terzo esem pio in cui ricorrono gli stessi due contrari, “davanti” e “dietro” . In questo caso, tuttavia , varie traduzioni sb agliano a rendere il termine che nel testo masoretico è vocalizzato “p anim” (= faccia, davanti), leggendolo come se fosse “pnim” (= dentro), un termine di radice del tu tto diversa: “Lo srotolò davanti a me; era scritto di dentro e di fuori” (trad. Nuova Riveduta). Il testo ebraico riporta in questo passo ancora una volta l’espressione “pâniym wæ’âxôwr”, che dunque ricorre in modo perfettamente iden tico in tutti e tre i versi sopraccitati: 1 Cr. 19:10, 2 Cr. 13:14 ed Ez. 2:10. Non desta dunque alcuna meraviglia se in Esodo 33:23 “achorai” viene tradotto con “spalle” (“Poi toglierò la mia mano e vedrai le mie spalle ”, CEI) anziché con “parti post eriori”. Ma questa parola è da intendersi in senso fisico, come se D-o avesse spalle umane (antropomorfismo)? Nessun passaggio della Bibbia utilizza il termine “achorai” (= mie parti posteriori, costruzione con suffisso di “achor” = dietro) per designare le spalle uman e come organo. Esiste solamente un verso in tutta la Bibbia ebraica rife rito ad uomini che usa il termine “achor”, costruito al plurale, ma non indica le spalle o la schiena come regioni del corpo ma semplicemente esprime ciò che sta dietro di loro come direzione. Si tratta di Ez. 8:16, dove il te rmine ebraico usato è “achorehem” = “le loro parti posteriori”. Quando “achor” è riferito agli uomini è dunque logico tradurre con “spalle”, come giustamente fa la versione Diodati: Ez. 8:16 (Diodati) – “che aveano le spalle volte alla Casa del Signore, e le facce verso l’Oriente” Ma lo stesso identico termine “achorehem”, essendo esso questa volta rivolto ai buoi, in 1 Re 7:25 viene reso dalla stessa versione Diodati con “parti di dietro”: 1 Re 7:25 (Diodati) – “E tutte le parti di dietro di que’ buoi erano volte indentro” Il termine che invece designa propriamente le “spa lle” come parte fisica del corpo umano in ebraico è “shchem” ed è molto comune nella Bibbia. 3 3. Esodo 33:20 La faccia di D-o (panim) Appurato dunque che il termine “panim” non sempre si riferisce ad un or gano del corpo umano e non può essere tradotto ogni volta meccanicamen te con “faccia” oppure con “volto”, mentre “achor” non assume mai il significa to di “spalle”, resta ora da cap ire se il nostro brano di Esodo 33:18-23 attribuisce realmente a D-o parti anteriori e posteriori. E’ logico pensare che nel D-o di Israele, spesso definito il “luogo del mondo”, si possano distinguere parti riconoscibili, come in tutte le altre cose? Il testo ebraico della Bibbia non può esimersi da ll’utilizzare espressioni figurate e metaforiche, specialmente quando queste sono riferi te alla Divinità, perc hè questo è l’unico modo, l’unica tecnica letteraria per poter parlare di D-o e descrivere le Sue azioni. D-o parla con gli uomini nella lingua degli uomini per farsi da loro comprendere. Esamineremo ora i termini impiegati nel libro dell’Esodo che hanno dato l uogo ad interpretazioni antropomorfe. A tale proposito utilizzeremo la versione italiana della Bibbia Diodati che più lascia trasparire il senso figurato di alcune parole. Nel te sto ebraico dell’Esodo compreso fr a i capp. 32 e 34 si rintracciano, in varie forme, 18 occorrenze del termine “panim” = “faccia”: 1) “Edificò un altare davanti ad esso” (Es. 32 :5). L’ebraico ha “lefanav” (= alla sua faccia) 2) “Ma Mosè supplicò al Signore Iddio suo” (Es. 32:11). L’ebraico ha “pne ****” (= la faccia del Signore) 3) “D’in su la terra” (Es. 32:12); “Faccia della terra” (Nuova Riveduta) 4) “Sopra dell’acqua” (Es. 32:20). L’ebraico ha: “al pne hamaim” (= sulla faccia dell’acqua) 5) “E il Signore disse: La mia faccia andrà” (Es. 33:14) 6) “Sopra la terra” (Es. 33:16); “Su lla faccia della terra” (Nuova Riveduta) 7) “Tu non puoi veder la mia faccia” (Es. 33:20) 8) “La mia faccia non si può vedere” (Es. 33:23) 9) “Il Signore adunque passò davanti a lui” (Es. 34: 6). L’ebraico ha “al panav” (= sulla sua faccia) 10) “Davanti a me” (Es. 34:20). L’ebraico ha “panai” (= mia faccia). 11) “Tre volte l’anno comparisca ogni maschio tu o davanti alla faccia del Signore” (Es. 34:23) 12) “E quando tu salirai per comparir davanti alla faccia del Signore Iddio tuo” (Es. 34:24) 13) “La pelle del suo viso” (Es. 34:29). L’ebraico ha “‘or panav” (= pelle della sua faccia) 14) “La pelle del suo viso” (Es. 34:30). L’ebraic o ha “‘or panav” (= pelle della sua faccia) 15) “In sul viso” (Es. 34:33). L’ebraico ha “ ‘al panav” (= sulla sua faccia) 16) “E quando Mosè veniva davanti alla faccia del Signore” (Es. 34:34) 17) “La faccia di Mosè” (Es. 34:35) 18) “La faccia di Mosè” (Es. 34:35) Le espressioni contenenti il termine “panim” e che sono in relazione con D-o sono chiaramente da intendersi in senso figurato. Ad esempio “veder e la Faccia di D-o” biblicamente significa presentarsi al Tempio di Gerusalemme durante le festività ebraiche. Il testo ebraico scritto (consonantico) in Es. 34:24 legge: “Lir’ot et pnei ****” (= vedere la Faccia di D-o), ma il testo 4 ebraico orale masoretico lo vocalizza come se fo sse scritto nella forma passiva: “leheraot” (= vedersi) come in Deut. 3:24. Il prof. Izchack Seeligmann nel suo libro “Mechkarim besifrut hamikrà” (Ricerche nella le tteratura biblica, a pag.159) afferma che il verbo “lerao t” = “mostrarsi” (passivo di vedere), voc alizzato dai masoreti come un “nifal” (coniugazione passiva), anticamente era inteso come un “kal” (coniugazione sempli ce), da leggersi dunque: “lir’ot” (vedere). Ne consegue che l’azione fisica di presentarsi presso il Tempio di Gerusa lemme nel testo ebraico scritto viene espressa in senso fi gurato, come se i fedeli andassero a vedere la “faccia di D-o”. La forma verbale passiva “leraot”, adottata successivame nte dai masoreti, fa assumere alla particella dell’accusativo “et” il senso di “con”, cambiando il senso dell’intera frase: non più “Vedere la Faccia del Signore”, ma “Vedersi con la Faccia del Signore”, dove qu i “faccia” è il cospetto del Tempio, simbolo della presenza divina. Come vedr emo in seguito anche il verbo “yerau” (= si vedranno) di Esodo 33:23 (“La mia faccia non si può vedere”, trad. Diodati) è vocalizzabile come se fosse “yr’ru” (vedranno), da cui: “La mia Faccia non vedrà”, nel senso che D-o non vedrà, per giudicare il peccato di Mosè che consiste nell a rottura delle prime tavole di pietra divine. L’apparente antropomorfismo di Eso do 33:18-23 poggia su tre termini ch e se interpretati come parti corporee offrono il pretesto per assegnare a D-o sembianze umane. Questi termini sono: (1) “panai” (= mia Faccia), ricorre in Es. 33:20 e 33:23; (2) “accorai” (= mie parti posteriori), cfr. Es. 33:23; (3) “capì” (= mio palmo della mano; “caf”, raramente è usato per “mano”), cfr. Es. 33:22 e 33:23. L’interpretazione antropomorfa, oltre che su questi tr e termini, si insinua anche attraverso i verbi di radice “avar” (= passare), che apparentemente a lludono al movimento corpor eo, fisico. Nelle varie traduzioni D-o dice: “passerà la mia Gloria”, “fin ché sarò passato”, come se camminasse. A ciò si aggiunge la richiesta di Mosè a D- o di mostrare la Gloria Divina , cfr. Es. 33:18, interpretata qui come se egli chiedesse di vedere il volto di un dio antropomorfo avente sembianze umane. Ma, come vedremo fra breve, il termine ebraico usat o, “cavod”, tradotto in italiano con Gloria, non dovrebbe essere reso in tal modo a causa del suo ricorrente uso figurato. A smontare definitivamente la tesi dell’int erpretazione antropomorfa di Es odo 33:18-23 concorre poi l’esame del contesto letterario in cui è inserito il nostro brano, argomento di cui ci occuperemo in seguito. Esodo 33:22 La mano di D-o (capì) Ora prendiamo in considerazione il termine “cap ì”, tradotto con “mano”, che contribuisce marcatamente all’interpretazione antropomorfa di D- o. La traduzione italiana usa il verbo “coprire” in connessione con il termine “mano”, D-o infatti dice a Mosè in Es. 33:22 “Io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano finché sarò passato” (CEI). Leggendo la traduzione pare di capire che D-o sarebbe passato come avrebbe fa tto un comune uomo e, dopo aver messo Mosè all’interno di una grotta, ne avre bbe poi coperto l’ingresso impede ndo in tal modo alla curiosità di Mosè di guardare il “volto divino” e rendersi così accidentalmente reo di morte. Inutile sottolineare quanto sia assurda una simile interp retazione riferita al D-o di Is raele, la cui presenza, secondo molti versi biblici, riempie l’intero universo: Egli siede in Cielo e poggia i piedi sulla terra. Il termine “capì” è il costrutto del nome “caf” (letteralmente = part e piatta, palmo della mano o pianta del piede). “Caf”, quando è seguito da “reghel” (= piede) significa “pianta del piede” ed è applicabile sia agli uomini che agli animali, per esempio in Genesi 8:9 è scritto che “La Colomba non trovò dove posare la pianta (ebr. “caf”) del piede”. Il termine “caf” indica anche la parte piatta della coscia, ne abbiamo un esempio in Gen. 32:26 dove il termine è seguito da “ierech” (coscia) ed estensivamente indica i genitali. Il termine “caf” indica non solo parti del corpo ma anche cose od 5 oggetti che hanno forma piatta come “cappot temarim”, le palme dei datteri, “caf ctoret”, un arnese d’oro usato nel Tempio dai sacerdo ti, anche l’impugnatura della manigl ia di una porta è detta “caf” (cfr. Cantico, 5:5), ecc. L’enciclopedia illustrata della Bi bbia in 24 volumi ‘Olam ha tanach (Mondo della Bibbia) aggiunge altri significati al termine “caf” che non sono sta ti elencati nei dizionari , analogamente HaMilon haEnziclopedi shel haMikrà (il Di zionario enciclopedico della Bibb ia) di Avnion e Milon ha’Ivrit hamikrait (= dizionario di ebraico biblico) di Kaddari. Secondo questa, “caf” designerebbe la “nuvola” e a tale proposito cita al cuni versi che riportiamo di segu ito, questa volta dalla versione italiana della Bibbia C.E.I: Giobbe 36:32 (CEI) – Arma le mani (ebr. “capaim” = palmi, ossia le nuvole) di folgori e le scaglia contro il bersaglio. Lam. 3:41 (CEI) – Innalziamo i nostri cuori al di sopra delle mani (ebr. “el capaim” letteralmente: verso i palmi [le nuvole]), verso Dio nei cieli. 1 Re 18:44 (CEI) – Ecco, una nuvoletta, come una mano d’uomo, sale dal mare. Poi, nell’interpretazione in loco, di carattere scie ntifico, l’enciclopedia spiega che la “caf” di D-o, ossia l’espressione “la mia mano” (r iferita a D-o) di Es. 33:22-23 de signerebbe la nu vola protettiva vista di giorno, non una mano come quella degli uomini. Ma la dimostrazione che nel passo dell’Esodo qui analizzato non intend e riferirsi al palmo della mano di un corpo divino immaginato come quello di un uomo, cioè un dio antropo morfo, è data proprio dal verbo impiegato, “wesachoti”, di radice “sachach”, usato sempre per figurare protezione, in particolare protezione divina. Questa radice ha generato anche il nome della costruzione protettiva che stava sopra le mura delle città, come descrive Naum 2:6, che citiamo nella versione C.E.I.: Naum 2:6 (CEI) – Si fa l’appello dei più coraggiosi che accorrendo si urtano: essi si slanciano verso le mura, la copertura di scudi è formata. In nessun altro passaggio biblico si riscontra il termine “caf” nel modo in cui è usato in Esodo 33:22, dunque esso deve necessariamente essere interp retato in modo figurato, come tutte le altre volte in cui ricorre il verbo di radice “sachach”. Solitamente, però, il verbo di radice “sachach” è usato in connessione con “canaf” (“ala”, per es empio di un uccello) ed è bene notare che probabilmente il nostro brano con “caf” (= palmo) intende “canaf” (= ala), in accadico infatti per indicare le due cose è usato lo stesso termine: “kappu”. Con “caf” (plurale: “cappot”; duale: “capaim”) si intende qualcosa che ha estensione superficiale e così come il termine indica le palme di datteri (ebr. “cappot temarim”) esso potrebbe indicare anche l’al a di un uccello, la cui struttura geometrica è simile. “Caf” potrebbe anche essere la forma assimilativa di “canaf” col decadimento della nun. Per esempio, in Geremia 2:34 l’ebraico riporta “cnafaim” (duale di “canaf” = ala, angolo), ma la versione greca dei LXX traduce come se vi avesse letto “capaim” ( ™n ta‹j cers...n sou ). Anche altre traduzioni dall’e braico, fra cui la Peshitta, hanno fatto lo stesso. In Salmi 91:4 è descritta la protezione divina mediante un verbo di radice “sachach”, “canaf” ed un suo sinonimo: Salmi 91:4 (Diodati) – Egli ti farà riparo colle sue penne, e tu ti ridurrai in salvo sotto alle sue ale; la sua verità ti sarà scudo e targa. Anche con “nuvola” viene usato il verbo di radice “sachach”, come in Lamentazioni 3:44 il cui testo ebraico legge: תפלה מעבור לך בענן סכותה e viene reso in traduz ione dalla Diodati con: 6 Lam. 3:44 (Diodati) – Tu hai distesa una nuvola intorno a te, acciocché l’orazione non passasse. Il verbo “wesachoti” (Es. 33:22) Va però puntualizzato che il verbo “wesachoti” del nos tro brano è scritto con la lettera ebraica sin e non con la lettera samech. Il testo ebraico masoretico (vocalizzato) è: Esodo 33:22 – yrIêb][;Ad[' * ̋yl≤ç[; y ̋Piök' ytiàKoc'w“ rWX– ̋h' tr"∞q]nI ̋B] * ̋yTiçm]c' ̋w “ ydI ̋bK]o rbo∞[} ̋B' h ̋y:h;w“ In Giobbe 10:11 il verbo di radice “sachach” è in teso come “tessere” ed è tradotto con “mi intessevi”: Giobbe 10:11 (TNM) – “Mi vestivi di pelle e carne e mi intessevi di ossa e tendini” Sia nel Koren (il testo ebraico sc ritto tradizionale) che nel codice di Aleppo questo verbo di Giobbe 10:11 è scritto con sin, il codice di Leningrado invece lo riporta con samech. Segno, questo, che la shin di questo verbo era letta come sin, che ha fone tica simile alla samech. Esistono alcuni termini ebraici nei quali la sostituzione delle lettere con altre aventi fonetica simile non comporta praticamente alcuna differenza di significato, in altri termini la differenza invece esiste ed è rilevante. La pronuncia de lla lettera ebrai ca “shin” (si può pronunciare nei due modi: shi e si) è stabilita dal sistema di punteggiatur a masoretico, che è una tradizione orale, ma il testo scritto lo si può leggere anche in base al contesto ( 1 ). Quando vediamo una shin sc ritta nella Toràh (che non contiene la punteggiatura vocali ca aggiunta dai masoreti), non semp re sappiamo con certezza se si tratti di una שׁ (“shin”, nel testo masoretico è raffigurata con il puntino in alto a destra) oppure di una שׂ (“sin”, nel testo masoretico ha il puntino in a lto a sinistra) e dobbiam o dedurre la corretta lettura essenzialmente dal contesto letterario. Ora, il verbo “tiàyKc w ' ̋o (wesachoti) di radice שכך (sachach) è vocalizzato nel testo masoretico co me “sin” ed interpretato come di radice סכך (“sachach”, scritto con la “samech”) . Ma nella Bibbia esso non viene mai scritto con “sin”, tranne i tre casi seguenti: 1) quello del nostro brano di Esodo, cfr. Es. 33:22; 2) il caso di uso anomalo che ricorre in Giobbe 10:11 (tessochcheni), dove è interpretato come “tessere” (riportato poco prima); 3) un’altro di uso simile in Salmi 139:13 (tessuccheni). Mentre il secondo caso è difficilmente interpretab ile nei sensi di coprir e/proteggere, il terzo è invece interpretabile nei due modi: tessere oppur e proteggere/coprire. La versione CEI traduce Salmi 139:13 con: “Mi hai tessuto nel seno di mi a madre” e la TNM con: “Mi tenesti coperto nel ventre di mia madre”. La versione greca dei LXX presenta una variante: “dal ventre” ( ™k gastrÕj ). Oltre ai tre verbi di cui sopra dell a stessa radice (scritta con la lett era “sin”) abbiamo solo altri tre nomi comuni ai quali sono stati at tribuiti i significati di “spine” e “tronchi di alberi” (con rami intrecciati o ricchi di foglie ). Questi nomi sono importanti per stabili re il senso base della radice alla quale appartengono, come vedremo prossimamente. Nel seguito di questa trattazione, quando esamineremo il testo parola per pa rola prenderemo in considerazione anche l’eventualità che il 1 La “sin” dell’alfabeto ebraico si pronuncia come l’italiano sera, la fonetica è simile alla lettera “samech”. La “shin”, invece, è pronunciata come l’italiano sci. 7 verbo “wesachoti” di Esodo 33:22 si pronunciasse originariament e con “shin”, invece che con “sin”, acquistando così un senso del tutto diverso, quello della radice “shachach” = “calmarsi”. Per ora parliamo delle due radici di fonetica “sachach” ma scritte divers amente: l’una con “sin” e l’altra con “samech”. Dal confronto di alcune parole si può cercare di risalire all’etimologia di un dato termine (sempre che ciò sia possibile). Si può intuir e una certa somiglianza di base fra la serie di significati espressi da questa rara radice scritta con “sin” e quelli espressi dalla ricorrente radice scritta con “samech”. Pare che le due serie di term ini abbiano in comune il senso generico di base: “unità composta da una moltitudine di elemen ti o ramificazioni”. Il prof. Kaddari, nel suo dizionario, attribuisce, sebbene con incertezza, il senso di “grande moltitudine” alla parola “sach” (con samech) messa chiaramente in relazione con la radice “sachach” (con samech) da Rashi nella nota al verso di Salmo 42:5. Il senso base del gr uppo scritto con “samech” pa re sia: “coprire per proteggere con qualcosa composto da un insieme di elementi o intrecci”. Della radice “sachach” (con “samech”) fanno parte i termini Succàh e “schach”. La Succà (capanna, costruita durante la festa di “succot” = capanne) ha il tetto chiamato “schach” ed esso deve rigorosamente essere costruito da intrecci vegetali. Questo tetto non è dunque impermeabile, non può essere completamente coperto ed essendo fatto da intrecci lasc ia filtrare la luce di giorno e vedere le stelle di notte. Il senso dunque espresso da questa radice non è quello di “co prire per impedire di vedere attraverso” e pertanto in Esodo 33:22, sebbene scritto con Sin, non può avere nemmeno questo senso dato che gli si riconosce ta le equivalenza a quell i scritti con Samech. In sintesi, dunque, il senso stabilito da traduttori, interp reti e vari commentatori è basato su un termine classificato come corrispondente oltre che usato in modo anomalo e per di più di significato incerto (come vedremo meglio nel seguito di questa trattazione). Portiamo ora due esempi classici di verbi di radice “sachach” (con samech, dato che con sin esistono solo quei tre casi di cui abbiamo già parlato): il primo è “sochchim”, usato per esprimere la funzione di protezione svolta da lle “ale” dei cherubini sopra il coperchio dell’arca del Patto: Es. 37:9 (TNM) – “Ed erano cherubini che spiegavano due ali verso l’alto, coprendo il coperchio con le loro ali” L’altro esempio è “wesachota”, usato per esprimere la funzione di protezi one della Parochet, la tenda che copriva l’accesso al Santo dei Santi del Tempio di Gerusalemme: Es. 40:3 (TNM) – “E devi mettervi l’arca della testimoni anza e chiudere l’accesso all’Arca con la cortina” La Mishnàh (Shekalim 8:5) riporta le dimensioni di questa tenda o cortina, detta Parochet, la cui complicata struttura consisteva di 72 corde che intrecciandosi a rete avevano maglie tali da permettere la visione del Santo dei Santi. An che qui, dunque, il verbo di radice “sachach” è utilizzato per esprimere l’azione di copertura/protezione di un’unità composta da un intreccio e vari altri elementi. Lo stesso doveva essere analogament e anche per i misteriosi “cherubini” dell’Arca, che non potevano essere delle semplici raffigurazioni (c hiaramente proibite dalla Toràh). Si trattava probabilmente di un sofisticatissimo sistema di protezione, che impediva di aprire il coperchio dell’Arca. Questa infatti aveva il compito di custodire cose carissime e pericolose, fra cui le preziosissime Tavole del Patto e il miracoloso s cettro divino, che secon do il Midrash era un’arma molto potente. Il re Salomone fece inoltre costruir e, accanto all’Arca, altri due cherubini, la cui portata delle “ali” proteggeva l’in tero spazio del Santo dei Santi. Dato che il verbo in nostro esame esprime protezione ed è usato con sistemi ad in treccio, non si può fare a meno di considerare i moderni sistemi di allarme comunemente installati nei musei più importanti e negli scompartimenti delle casseforti delle Banche, sistemi appunto fatti ad intreccio di diversi raggi infrarossi. Consueto poi che le casseforti (analogament e all’arca), i loro magazzini, le varie porte (analogamente alla “Parochet”) e lo spazio dove sono contenute, abbia no degli allarmi separati. La “Parochet” o in italiano “cortina” (come tr aduce la TNM) aveva il compito di im pedire l’accesso al Santo dei Santi. 8 Essa era anche “cheruvim” (attributo plurale indefin ito) ossia protettrice, anche le porte e i cancelli hanno i loro sistemi d’allarme sepa rati. Il nome “Parochet” lo si può spiegare confrontandolo con l’accadico “paraku” il cui senso è “bloccare la strada”, qualche volta l’accadico usa anche il termine “pariktu” (derivante da “paraku” e con fonetica mo lto simile a “Parochet”), il cui senso è quello di “barricata”, “parete divisoria”. Solamente i due versi seguenti contengono verbi di radice “such” (scritta con Sin) variante di “sachach”, che esprime protezione con il senso di chiudere con un recinto: 1) Osea, 2:8(a) (TNM) – Perciò, ecco, cingo di spine la tua via. 2) Giobbe, 1:10 (TNM) – Non hai tu stesso posto una siepe attorno a lui e attorno alla sua casa e attorno a ogni cosa che ha tutt’intorno? Il verbo del secondo passaggio, שכת (“sachta” = hai protetto chiude ndo), è quello che si sarebbe dovuto impiegare nel nostro brano di Esodo 33:22 per esprimere protezione chiudendo l’ingresso della “grotta”. Il verbo “wesacoti” è scritto ושכתי e leggendolo direttamente dalla Toràh, senza l’ausilio della vocalizzazione masoretica, lo si interpreterebbe “wesachti”, della stessa radice “such”, perchè si sarebbe influenzati dal contesto individuato, cioè la chiu sura dell’ingresso della grotta, fosse pure per impedire a Mosè di af facciarsi a guardare, come vuole quella assurda interpretazione antropomorfa di Esodo 33:22. “Wesachti” invece che “wesacoti” della forma anomala e non ricorrente della radice “sachach” scri tta con una sin, perchè come abbiamo detto, la forma ricorrente è quella scritta con samech e si v uole forzatamente intendere questo verbo come se fosse scritto con samech, ma senza alcuna dimostrazione di utilizzo in altre ricorrenze bibliche. Le uniche prove sarebbero la fone tica adottata dal testo masore tico, dunque non l’evidenza del testo scritto, e le varie tr aduzioni posteriori. La Roccia (Es. 33:22) A questo punto, però, sorge la domanda: per qual e motivo i masoreti non adottarono la fonetica “wesachti” che esprimerebbe perfettamente quel cont esto? Se esiste già un ve rbo scritto con “sin”, perchè allora vocalizzare il termine come se esso fosse scritto con “samech”? In ogni caso entrambi i verbi hanno senso di “proteggere” e non propriamente dalla vista, altrimenti si sarebbero usati altri verbi di radice del tutto diversa e compatibili con il complemento oggetto “capi” (mio palmo della mano). Con molta probabilità il ve rbo è da leggersi con “shin” e non con “sin”, come abbiamo già accennato precedentemente, cioè “weshicoti” (calmerò ), dato che questo ha la fonetica più simile a “wesicoti” e la tradizione orale masoretica, col trascorrere del tempo, lo ha potuto trasformare in “sin”, probabilmente influenzato dal verbo “wehas iroti” (toglierò). All’azione del “togliere” si è fatta precedere l’azione inversa del “porre” (la “palma” della mano divina per poi successivamente toglierla). I targumim Unkelos e pseudo Jonathan traducono il nostro verbo ebraico “wesacoti” da ebraico ad aramaico con “weaghen” (= protegge rò). Non solo, ma aggiungono anche altri termini esplicativi ben lontani da ogni antropomorfismo associato a D-o. Riportiamo l’antichissima traduzione in aramaico di Esodo 33:22, come dal Targum pseudo Jonathan: Esodo 33:22 (pseudo Jonathan) – דאעיבר זמן עד עלך במימרי ואגין דטינרא באספלידא ואישוינך שכינתי יקר במיעיבר ײויהי che traduco letteralmente qui di seguito: “E avverrà nel passare della Gloria della Mia presenza ti metterò nella spaccatura della roccia e ti proteggerò c on la Mia Parola fino al tempo in cui passerò”. Il termine “spaccatura” nel targum aramaico è אספלידא (“ispelida”) un termine raro, la cui etimologia si è tentato di spiegare in vari modi. Secondo alcuni si trattere bbe di una assimilazione 13 Le lamentele del popolo all’esaurirsi del cibo che era stato condotto fuori dell’Egitto hanno costretto la profezia ad una dimostrazione pratica, tangibile, che dovette dimostrare senza alcun ombra di dubbio che era D-o il vero Condottiero de l popolo e non Mosè ed Aronne. Ma il vedere la Gloria del Signore consistette prin cipalmente nel mostrare la Sua Grazia procurando buon cibo in un deserto di morte, nonostante le lamentele del popolo, la cui ingiustificat a carenza di fede era vista da Mosè ed Aronne come un insulto alla Divinità, che aveva già mostrato in modi inequivocabili la Sua provvidenza. Vedere la Gloria di D-o significò dunque vedere la grandiosità delle sue opere, ma ancor più cogliere la pr ofondità delle Sue alte qualità morali spesso irraggiungibili e per tale ragione male interpretati dall’impazienza e dalla piccolezza umana. Ma la Gloria di D-o non era visibile solo nelle grandi opere come la liber azione dalla schiavitù dell’Egitto e nei miracoli della Manna e dell e quaglie nell’aridità del mortale deserto; la Sua provvidenza e guida erano ben visibili nella presenza di una strana nuvola: Es. 16:10 (N. Riv.) – Mentre Aronne parlava a tutta la comunità dei figli d’Israele, questi volsero gli occhi verso il deserto, ed ecco la gl oria del SIGNORE appa rire nella nuvola. Come si evince da questo verso, la Gloria del Signore non è il Signore stesso, ma è un suo mezzo, una Sua manifestazione. D-o mostra al popolo che Egli è presente e lo dirige, è la Sua Grazia a mostrare visivamente che il popolo non deve temere nulla di male perchè è nelle mani di D-o. Anche il “palmo di D-o”, secondo Rav. Saadia haGa on, il compilatore del primo dizionario ebraico, è la nuvola della Gloria. Dunque non sono stati per pr imi i professori delle uni versità israeliane ad interpretare il “palmo di D-o” del nostro brano di Esodo con la nuvola della Gloria, come abbiamo esposto precedentemente citando l’enciclopedia “O lam haTanach”. Anche lo scienziato rav. Levi ben Gershom (RALBAG), Ibn Ezra e Malbim avev ano inteso allo stesso modo. Secondo questi antichi commentatori “kaf” significa “nuvola” ed è il parallelo di “kevod ****” (= Gloria del Signore). A tale proposito è interessante notare ch e nei loro commenti a Gi obbe 36:32, dove figura il termine “caf” al plurale, Ibn Ez ra e Ralbag, per sostenere che si tratta di nuvole, portano come prova proprio Esodo 33:22. Doveva dunque essere chia ro ai loro dintorni che l’accoppiamento di “caf” con il verbo “wesachoti” no n può altro che dare il senso di “nuvola” al termine “caf”. Pertanto il termine “Kevodì” (kavod + i = Mio Onor e, Mia Gloria) di Esodo 33:22 è interpretabile anche come un sinonimo di “capì” (caf + i = Mia palma, Mia nuvola) come vedremo quando prenderemo in esame le varie possibili letture ed interpretazioni. Il lettore ebreo, che legge direttamente dall’ebraico, non potrà fare a meno di notare che i termin i del nostro brano tradotti con “gloria” sono scritti in ctav chasser (= scrittura in completa) cioè senza la wav che segna la presenza di una vocale lunga, come consuet udine nel resto delle ricorrenze (c fr. ad esempio Genesi 45:13 e Isaia 48:11). In tutto sono solo 12 le ricorrenze in ctav chasser in cui la tradizione orale del TM ricorda come Kavod = Onore, Gloria invece di Koved = durezza o kaved = pesante, ostinato, potente, in confronto alle altre 179 volte in cui questo termine ricorre in ctav malè (= scrittura completa). Così interpreta il Midrash Tanchum a (parashat wayerà) i due opposti di Numeri 23:19: 1) ויכזב אל איש לא = non è uomo D-o e non mentirà; 2) יעשה ולא אמר ההוא = quello disse e non farà. (1) = Quando D-o promette del bene: non è come un uomo che promette un regalo al figlio e poi quando esso lo fa arrabbiare annulla la promessa . Il Signore invece promette di fare del bene e anche se i suoi figli peccano non si pente del regalo promesso. (2) = Ma se invece D-o minaccia una disgrazia ed il popolo si pente, Egli ri tira la Sua minaccia: “Quello disse e non farà”. 14 In Es. 23 20 è detto che D-o manda il suo “mal ’ach” davanti al popolo per custodirlo durante l’esodo e condurlo nel luogo che ha preparato. Tale promessa non fu mai annullata, neppure a causa del gravissimo peccato del vitello d’oro. Essa viene rinnovata in questi termini: Es. 33:1-3 (CEI) – 1. Il Signore parlò a Mosè: «Su, esci di qui tu e il popolo che hai fatto uscire dal paese d’Egitto, verso la terra ch e ho promesso con giuramento ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe, dicendo: Alla tua discendenza la darò. 2. Manderò davanti a te un angelo e sc accerò il Cananeo, l’Amorreo, l’Hittita, il Perizzita, l’Eveo e il Ge buseo. 3 Va’ pure verso la terra dove scorre latte e miele... Ma io non verrò in mezzo a te, per non dove rti sterminare lungo il cammino, perché tu sei un popolo di dura cervice». D-o annuncia che la promessa, nono stante l’avvenuta trasgressione , sarà mantenuta, ma il popolo non sarà esente da punizione ed oltre alla pest e, gli viene inflitta la punizione più grave: l’abbandono divino, il distacco, la mantenuta di stanza. D-o minaccia di non rimanere più col Suo popolo, il testo qui dice che Egli “non salirà in mezzo al popolo”, similmente sono usate espressioni di questo tipo con l’uso del verbo: camminare, passeggiare. Egli non “passeggerà” più in mezzo al popolo come aveva fatto finora. Il verbo “passeggiar e” è usato più volte nella Bibbia per designare la Shekinàh, la Presenza Divina. D-o guida e cu stodisce il Suo popolo passeggiando in mezzo ad esso: ךלהתמ (“mithalech” = passeggia) co me in Deut. 23:5, che legge: Deut. 23:4 (Diodati) – “Conciossiachè il Signore Iddio tu o cammini nel mezzo del tuo campo, per salvarti, e per mettere in tuo potere i tuoi nemic i; perciò sia il tuo campo santo; e fa ch’egli non vegga alcuna bruttura in te, onde egli si rivolga indietro da te.” Lo stesso verbo מתהלך (“mithalech” = passeggia) è usato in Gen. 3:8, dove il soggetto è la Voce Divina: Gen. 3:8 (Diodati) – Poi, all’aura del dì, udirono la vo ce del Signore Iddio che camminava per lo giardino. La Presenza Divina è ugualmente resa con lo stesso identico verbo in: 2 Sam. 7:6 (Diodati) – Conciossiachè io non sia abitato in casa, dal dì che io trassi fuori di Egitto i figliuoli d’Israele, infino a quest o giorno; anzi son camminato qua e là in un padiglione ed in un tabernacolo. La versione Diodati aggiunge le parole “anzi” e “qua e là”, assenti nel testo ebraico, che ne cambiano il senso, come hanno fatto in modo simile altre traduzioni. Il distacco, la mantenuta distanza, l’allontanamento della Shekinàh vengono messe in prati ca da Mosè, che subito obbedisce trasferendo il Tabernacolo fuori dall’accampamento: Es. 33:7 (Diodati) – “E Mosè prese il Padiglione, e se lo tese fuor del campo, lungi da esso; e lo nominò: Il Tabernacolo della convenenza; e, chiunque cercava il Signore, usciva fuori al Tabernacolo della convenenza, ch’era fuor del campo.” Il popolo ora è invitato a pentirsi , a fare “tshuvàh”, il ritorno a D- o. Ora è il popolo che deve cercare di avvicinarsi D-o, che offeso dalla grave trasgressione del vitello d’ oro, si era allontanato da esso. L’allontanamento rappresenta dunque l’offesa e Mosè farà da intermediario per placare l’ira divina che ancora continuava a minacciar e la distruzione dell’intero popol o. A causa della gravità della trasgressione D-o aveva infatti proposto di mantenere le promesse fatte ai padri, attraverso una nuova discendenza il cui capostipite sarebbe stato Mo sè. Ma egli si rifiuta e lotta con tutte le sue forze perchè il popolo non venga distrutto. Egli cont ende con D-o come se contendesse con un https://digilander.libero.it/Hard_Rain/Antr...20parte%201.pdf |
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