אריאל פינטור
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צדקה Tzedaqàh
Quella di donare ai poveri è una “mitzwàh deoraita”, come è scritto:
כי לא יחדל אביון מקרב הארץ על כן אנוכי מצווך לאמור פתוח תפתח את ידך לאחיך לענייך ולאביונך בארצך
Traduzione: “Poiché non smetterà di esistere il nullatenente in seno alla terra, pertanto Io ti comando dicendo: apri generosamente la tua mano al tuo fratello, ai tuoi poveri e ai tuoi miseri nella tua terra”. (Devarim 15,11)
Il comandamento consiste nel provvedere al povero per tutte le sue necessità, ovvero: vitto, alloggio e vestiario. Secondo l’halachàh, l’obbligo della tzedaqàh è rivolto a tutti i cittadini, anche al povero che viva egli stesso di tzedaqàh. Pur essendo esente da ma’asser (tassa della decima), egli è comunque obbligato ad offrire tzedaqàh ad altri poveri. Rambam descrive la tzedqàh secondo una scala morale di otto gradi. Ogni ebreo è incoraggiato a conseguire il grado più alto:
1) Donare tzedaqàh, con lo scopo di risollevare chi è caduto economicamente, perché possa riacquisire la sua indipendenza economica. Fare società con lui, fargli un prestito (senza interesse) o donargli una considerevole somma di danaro per creargli un lavoro.
2) Donare la tzedaqàh ai poveri, senza conoscere l’identità di chi la riceve e chi la riceve non conosce l’identità di chi l’ha data. Come dare la tzedaqàh ad un’associazione che distribuisce ai poveri (In questo caso Rambam avverte di accertarsi che l’amministratore sia onesto).
3) Chi dà la tzedaqàh conosce l’identità di chi la riceve, ma il povero non conosce l’identità di chi l’ha data.
4) Il povero sa chi è il benefattore, ma il donatore non sa chi è il beneficiario.
5) Donare alla mano del povero, ancor prima che egli sia costretto a chiedere.
6) Donare dopo che il povero ne abbia fatta espressa richiesta, conformemente ai suoi bisogni.
7) Donare con gentilezza, dopo che il bisognoso ne abbia fatta espressa richiesta, ma in misura inferiore ai suoi bisogni.
8) Donare tristemente e controvoglia.
(Rambam, Matanot ‘Aniim, 10, 7-14)
Il grado più alto di tzedaqàh è quello rivolto a chi è rimasto senza nulla, in seguito ad un fallimento economico. E’ d’obbligo aiutarlo a risollevarsi dalla sua condizione, attraverso dei prestiti, oppure entrando in società con lui, in modo che non abbia il bisogno di vivere di tzedaqàh e possa così continuare a vivere del frutto del suo lavoro.
E’ di elevato grado morale dare tzedaqàh in modo anonimo, affinché chi la riceva non ne sia umiliato. Colui che dà non sa chi riceve e chi riceve non conosce la provenienza di chi ha donato. Ancora più meritevole è considerato colui che dà al povero che ne faccia espressa richiesta. Non è visto di buon occhio invece, chi dà la tzedaqàh in misura insufficiente o di mala voglia. I Saggi hanno posto una siepe intorno alla tzedaqàh, stabilendo un limite all’entità dell’elargizione, affinché non vi sia il rischio che il benefattore possa diventare egli stesso povero, dato che la tzedaqàh, in realtà, non ha una percentuale fissa e ciascuno può dare quanto ritenga opportuno. Il limite imposto dai Saggi è che ognuno non elargisca più di 1/5 del suo guadagno netto. Essi stabilirono anche chi ha la precedenza nel ricevere la tzedaqàh. Ad esempio: in primo luogo vengono i componenti familiari, poi i vicini, i concittadini e così via dicendo.
La tzedaqàh è considerata come la più grande di tutte le mizwot della Toràh:
צדקה וגמילת חסדים שקולות כנגד כל מצותיה של תורה
Traduzione: “Tzedaqàh e Beneficenza sono considerate le più grandi, tra tutte le mizwot della Torah” (Talmud Yerushalmi, Peà 3a)
A questo proposito, è bene precisare come il concetto esposto abbia una connotazione totalmente diversa da quello espresso dalla traduzione “carità”. La carità è una sorta di benevolenza, di “concessione” al prossimo. Potremmo considerarla una “donazione amorevole e pietosa” che non è affatto obbligatoria, per quanto meritevole.
Tzedaqàh, dalla radice צדק (Tzedeq: Giustizia), ha in sé non solo il valore morale, ma anche il senso giuridico dell’obbligatorietà della giustizia sociale. La carità non è un diritto di chi la riceve e non è un obbligo per chi la “concede”. All’opposto, la tzedaqàh è un obbligo per colui che deve elargirla ed un diritto di colui che ne beneficia. La tzedaqàh esprime in sé, oltre che l’amore per il prossimo, anche un contributo alla società, con una tendenza, se non proprio ad eliminare, almeno ad attenuare le disuguaglianze e rende la compagine sociale più nobile ed economicamente più forte. Secondo la letteratura talmudica essa è più grande dei qorbanot (Babli, Succàh 49b) e avvicina il tempo della גאולה (Gheulàh).
Come riporta la Masechet Sanhedrin, una città che non aveva una cassa per i poveri era considerata di un così basso livello morale che ad un talmid chacham era proibito risiedervi. (Sanhedrin 17b) Anche i più malvagi ottengono dei meriti, donando la tzedaqàh e addirittura è detto che hanno la facoltà di riscattare se stessi per mezzo delle donazioni ai poveri: אדם קונה את עצמו בממון מידי שמים
Traduzione: “Un uomo compra se stesso con denaro, dal (giudizio del ) cielo (Mechilta, Mishpatim, 109).
I Saggi vedono la povertà come una situazione che si ripete e che può far parte della vita di chiunque. Pertanto, è necessario che ci sia costantemente il timore di HaShem, poiché la parnassàh ci è data da Lui e che si doni sempre all’indigente, con mano generosa, affinché Egli si ricordi di noi, nel momento in cui la ruota della vita non girerà più in nostro favore. Anche il rapporto con la povertà è particolarmente diverso nella mentalità ebraica, rispetto a come è concepito in altre società ed altre religioni. Alcune religioni esaltano la povertà come mezzo di salvezza ed esortano i loro fedeli a spogliarsi dei propri beni, allo scopo di guadagnare la vita eterna. Nell’ebraismo si tratta esattamente del contrario: ricchezza e benessere sono considerati una benedizione di HaShem, al quale deve andare tutta la gratitudine per quanto ci è dato. La povertà e l’indigenza sono considerate una sventura, nulla affatto una gioia o una speranza, nell’ottica di una presunta salvezza futura.
[QUOTE La Tzedaká spirituale può essere fatta anche ad un gentile se ne fa richiesta? [/QUOTE]
Non è proibito accettarla se è spontanea e, soprattutto, se non vi sono secondi fini (ad esempio a scopo di proselitismo e di conversione).
l'halachà proibisce all'ebreo di farne richiesta al gentile.
da non confondere il "ma'asser" (OBBLIGO di versare la decima), che è una tassa, dalla Tzedaqà che non è obbligatoria e quindi altamente meritoria. il 10% minimo-medio, in questo caso è solo orientativo e di consuetudine. Si offre ciò che si può, mentre il massimo del 20% è una regola. Nel caso di persone estremamente ricche, si può arrivare al 25%. La tzedaqà spirituale non deve essere un alibi per non dare innanzi tutto aiuto materiale. Le chiacchiere sono belle, ma l'indigente deve poter riempire il suo stomaco, altrimenti nemmeno la sua spiritualità potrà essere coltivata.
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