Poiché il Giudizio appartiene a D-o

tesi master UCEI di Negev

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    Buongiorno a tutti.
    Volevo presentarvi questa eccellente tesi di laurea dell'utente Negev (Ariel, Dr. Ernesto Pintore) che ha guadagnato il massimo dei voti: 110 e lode!!!

    Facciamo i migliori auguri a Negev per il conseguimento di questo livello e per l'assiduo impegno negli studi ebraici e ringraziamo l'UCEI (Unione delle comunità ebraiche italiane), per aver concesso questa pubblicazione.

    Un particolare ringraziamento vanno al Rav Dr. Riccardo Di Segni, rabbino capo d'Italia e al Rav Dr. Umberto Piperno e un elogio per la loro eccellente preparazione in materie ebraiche.

    Vi incollo la prima parte, la prefazione, poi proseguiremo con le altre parti.



    Unione delle Comunità ebraiche italiane

    Master in cultura ebraica e comunicazione
    Diploma Universitario triennale in studi ebraici

    ״כי המשפט לאלהים הוא״
    אלה ומוסר במשפט העברי

    “Poiché il Giudizio appartiene a D-o”
    Norma e Morale nel Diritto Ebraico



    Candidato
    Dr. Ernesto Pintore
    Relatore
    Rav Dr. Umberto Piperno
    Correlatore
    Rav Dr. Riccardo Di Segni

    anno accademico 2015-2016

    Indice



    Nota: cliccare sui titoli per raggiungere i capitoli.


    1) Prefazione pag. 3
    2) Introduzione ai principi del diritto ebraico pag. 5
    3) Moshèh e il significato del termine Elohim pag. 9
    4) Etimologia e significato dei termini “אלהים” e “אלה” pag. 15
    5) Il Re e il Gran Sinedrio pag. 20
    6) Il Valore dell’essere umano pag. 25
    7) Il concetto di eguaglianza pag. 28
    8) Il principio di convivenza pag. 31
    9) Gli impegni e i rapporti commerciali pag. 33
    10) La coscienza legale del cittadino pag. 35
    11) דינים Dinim pag. 36
    12) La ricompensa e la punizione pag. 38
    13) L’Uguaglianza degli esseri umani pag. 39
    14) Il Diritto delle minoranze pag. 40
    15) L’orfano e la vedova pag. 46
    16) צדקה Tzedaqàh pag. 49
    17) Ospitalità pag. 53
    18) שבת Shabbath pag. 55
    19) שנת השמטה Shannath hashemitàh L’anno sabbatico pag. 57
    20) העבד Il Servo pag. 60
    21) La condizione della donna pag. 62
    22) Conclusioni pag. 64
    23) Bibliografia pag. 67




    Prefazione



    Lo scopo di questo lavoro è di analizzare come alcuni principi, comunemente conosciuti nell’era moderna, accettati ed ormai integrati nelle legislazioni dei popoli, fossero rigorosamente presenti ed applicati nella società ebraica, già dal periodo biblico e come il Diritto ebraico derivi da una Norma Superiore.
    Conquiste sociali: uguaglianza degli esseri umani, protezione delle minoranze, delle categorie socialmente deboli come l’indigente, l’orfano, la vedova e il residente straniero, diritto al riposo settimanale, tutela dei diritti dei lavoratori, garanzia delle relazioni commerciali, condizione della donna, sono concetti del tutto ignoti nel mondo antico nel quale imperavano oppressione, schiavitù e diritto del vincitore e del più forte, perfino in sistemi legislativi complessi quali il diritto romano, che è stato il corpus giuridico che ha informato molti degli ordinamenti giuridici moderni. Il mondo moderno ha riconosciuto queste istanze di uguaglianza degli esseri umani, solo in epoca relativamente recente, a partire dai movimenti socialisti del XIX secolo, al prezzo di cruenti conflitti sociali, molti dei quali non si sono esauriti, né sono stati risolti, nemmeno ai nostri giorni.
    Espressioni come “stato sociale”, “welfare”, “diritto all’assistenza sanitaria”, “diritto all’istruzione”, “volontariato”, “protezione dei deboli”, “assistenza agli indigenti”, “istanze dei migranti”, sono entrati solo negli ultimi anni nel linguaggio, nelle aspettative e nella mentalità comuni.
    Queste concezioni “sociali” erano radicate nel Popolo d’Israel ben prima che esso divenisse un Popolo a tutti gli effetti ed erano a fondamento della Legislazione biblica già durante la peregrinazione nel deserto del Sinai, informando successivamente tutta la tradizione scritta e orale che lo ha accompagnato, dall’epoca del Regno, durante la diaspora, fino alla costituzione dell’odierno Stato d’Israele.
    Si tratta di concetti straordinari che possiamo certamente considerare rivoluzionari, di una modernità stupefacente, si si pensa all’era in cui essi furono concepiti e codificati in Legge di Nazione, quando il mondo circostante fondava le proprie relazioni sociali, interne e internazionali e la propria economia, su rapporti di subalternità, di differenze sociali, di ceto e di schiavitù.
    In realtà, tutto il sistema economico produttivo e commerciale del mondo antico era basato sulla forza lavoro della schiavitù.

    Per meglio comprendere quegli aspetti che tratteremo in questa relazione e cioè come il senso della Morale ed il Principio del Diritto si intreccino e si completino armoniosamente nel Diritto ebraico, è necessario trattare alcuni aspetti peculiari di questo.
    Morale e Diritto sono due concetti che possono, non difficilmente, entrare in conflitto fra di loro.
    La Norma scritta è qualcosa di fisso, definito, cristallizzato e non modificabile. Essa è Legge, non può tenere conto di fattori diversi, che non siano rigorosamente giuridici e deve essere applicata così come il Legislatore l’ha emanata. Non vi è spazio per altre considerazioni ed è inflessibile.
    Ne consegue che la pena sarà inevitabile, indipendentemente da tutte quelle circostanze o da quei sentimenti che, caso per caso, possano mostrarla come esagerata, inadeguata, sproporzionata o addirittura ingiusta: “Dura Lex, sed Lex”.
    La Morale è qualcosa che fa parte della natura umana, è dominio del “cuore” e non della ragione. E’ un “sentire” valori che possono non avere relazione alcuna con la Norma o essere, addirittura, agli antipodi di questa. Uccidere in battaglia o per legittima difesa, è lecito e necessario secondo la Norma, ma crea un malessere all’essere umano, dal punto di vista della morale e del sentimento.
    Nel diritto dei popoli esiste quindi una separazione netta tra i due ambiti. Pietà e considerazioni etiche e morali possono avere scarsa influenza nell’ applicazione della Legge.
    Non così nel Diritto ebraico il quale, come vedremo, riconosce un elevato valore ed un ruolo principe alla Morale, la quale è, e deve essere, anche al di sopra della Legge, affinché si possa giungere ad un verdetto e alla sua conseguente sanzione, nel modo più giusto possibile. Si può comprendere quindi che solo una Norma che sia molto al di sopra delle leggi umane possa dominarle, controllarle e modularle, intervenendo laddove il giudizio terreno possa diventare troppo inflessibile o inadeguato.
    A tale scopo, procederemo seguendo un filo logico, partendo dai concetti principali del Diritto ebraico e, attraverso l’analisi dei termini אלהים (Elohim), אלה (Alàh), איש האלהים (Ish haElohim), delle prerogative del Re e del Gran Sinedrio, arriveremo alle applicazioni pratiche delle norme nei דינים (Dinim) e di tutta la Legislazione di Giustizia sociale che essi prevedono, essendo queste generate dalla Norma Suprema Divina, אלה “Alàh”, che è al di sopra delle leggi degli uomini.

    Edited by Abramo - 1/6/2016, 20:39
     
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    Introduzione ai principi del diritto ebraico



    Il diritto ebraico risale a più di 3000 anni fa, ma esso fu applicato nella sua completezza solo nei periodi in cui il popolo di Israel ebbe uno Stato indipendente.
    Tale diritto ha conosciuto lunghi periodi di lacune nel corso della storia del Popolo di Israel, durante le sue diaspore.
    Gli altri popoli antichi, una volta sconfitti e soggiogati da altre nazioni, videro scomparire, a mano a mano, il loro diritto nazionale e di questo rimangono solo scarse testimonianze archeologiche.
    Non così fu invece per il diritto ebraico che è sopravvissuto e restato in vigore fino ad oggi. Malgrado la lunga e drammatica dispersione fra altri popoli e l’assenza di uno Stato proprio, Israel si curò di conservare le sue Leggi con la speranza futura di una completa ricostituzione nazionale.
    Il diritto ebraico, nei periodi della diaspora, ha sempre avuto una funzione al di fuori dello Stato ospite, perché esso non solo è un diritto statale in senso stretto, ma è soprattutto il diritto di una Nazione, di un Popolo, al quale questo ordinamento giuridico fu concesso, ancor prima di ottenere il territorio nazionale. Quindi, nel suo lungo esilio, il Popolo di Israel portò con sé la sua Legge ed i suoi Tribunali, come li aveva già portati con sé durante l’errare nel deserto, ben prima di costituire il proprio Stato nazionale.
    La comunità ebraica ha sempre costituito una società autonoma anche nei paesi in cui è stata duramente perseguitata.
    Il suo Diritto e la sua Toràh hanno conservato e preservato il Popolo di Israel, impedendone l’assimilazione (e di conseguenza la scomparsa, con la perdita della propria identità), cosa che immancabilmente avvenne invece per tutti gli altri popoli coevi.
    La tradizione fa risalire il Diritto ebraico alla rivelazione del Sinai, ma esso si basa su un Diritto ancor più antico, che rinnova e completa. Tutte le sue norme prendono vigore in virtù della rivelazione del Sinai anche se esse sono, in realtà, molto più antiche.
    Il Diritto ebraico è infatti una derivazione del diritto noachide e questo, a sua volta, proviene dal diritto antidiluviano.
    Esso si basa interamente sulla tradizione orale giuridica che risale al sistema legale promulgato nel Sinai da Moshèh Rabbenu, con la costituzione di un’assemblea di 70 anziani che ottennero, in quell’occasione, il dono della profezia.
    Nella Toràh scritta (תורה שבכתב), le norme sono riportate in forma poetica e solenne ma concisa e, per tale motivo, non possono avere una funzione normativa esaustiva. Esse sono poi sviluppate nella loro completezza nella Toràh Orale (תורה שבעלפה).
    Altre norme della Toràh scritta contengono dei rinvii ad altre composizioni giuridiche in vigore a quell’epoca.
    In tutti i periodi della storia del Diritto ebraico, la base è stata sempre la Toràh shebe’alpè.
    La Toràh scritta ha rivestito principalmente il ruolo di insegnamento, di lettura esortativa, il cui scopo è quello di far ricordare le mizwot, l’identità di Popolo e la propria origine e quindi non ha avuto esclusivamente una funzione normativa.
    Abbiamo quindi, da una parte la tradizione normativa orale, dalla cui abbondanza vengono tratte le norme giuridiche e dall’altra la Toràh scritta che, in modo conciso e nella sua solennità poetica, ci ricorda costantemente la loro origine divina, esorta a rimanere uniti ad esse e a metterle in pratica diligentemente.
    Nel seguente brano talmudico, dopo aver precedentemente discusso e stabilito che la maggioranza della Toràh fu data in forma orale, si afferma che il Patto che D-o stabilì con il Popolo di Israel si basa su entrambi questi pilastri, Toràh scritta e Toràh Orale. Ma l’essenza del Brit è caratterizzata proprio dalla esistenza della Torah orale, senza la quale l’altra non sarebbe comprensibile, essendo la comprensione delle condizioni e degli impegni reciproci, condizione necessaria affinché un Patto abbia valore.
    Di conseguenza, è proprio la Torah orale a identificare il vero Popolo di Israel, come illustreremo in seguito. Inoltre è evidente che, mentre una norma scritta può essere oggetto di discussione ed interpretazione, variabili da soggetto a soggetto e da epoca ad epoca, il tramandare oralmente e fedelmente, all’interno del Popolo, di generazione in generazione, da Maestro ad allievo e da Padre in figlio, costituisce la garanzia della veridicità di ciò che si tramanda. ( Rambam “Morèh hanevukim”; parte I, cap 71)


    דרש רבי יהודה בר נחמני מתורגמניה דרבי שמעון בן לקיש, כתיב: "כתב לך את הדברים האלה", וכתיב: "כי על פי הדברים האלה", הא כיצד? דברים שבכתב אי אתה רשאי לאומרן על פה, דברים שבעל פה אי אתה רשאי לאומרן בכתב. דבי רבי ישמעאל תנא: אלה - אלה אתה כותב, ואי אתה כותב הלכות.
    א"ר יוחנן: לא כרת הקב"ה ברית עם ישראל אלא בשביל דברים שבעל פה, שנאמר: "כי על פי הדברים האלה כרתי אתך ברית ואת ישראל".

    Traduzione:
    “Così commentava Rabi Yehudàh Bar Nachmani (il portavoce di Rabi Shim’on Ben Laqish): “E’ scritto: ”scriviti queste parole” ed è scritto: ”Perché sulla base di queste parole” (Shemot 34,27). In che senso? Parole in forma scritta non ti è permesso di trasmetterle oralmente, parole trasmesse in forma orale non ti è permesso trasmetterle per iscritto”.
    Così si recitava nella scuola di Rabi Ishmael: “Queste: queste tu scrivi, ma non scrivi halachot”.
    Così disse Rabi Yochanan: “Il Santo Benedetto Sia non ha stipulato un Patto con Israel se non per le parole in forma orale”, come fu detto: “perché sulla base di queste parole ho stipulato con te un patto e con Israel”.
    (Talmud Babli, Ghittin 60b)

    La Toràh Orale, essendo interna al Popolo, presenta la caratteristica di essere più protetta in confronto alla Toràh Scritta, perché è possibile che un popolo straniero se ne appropri, in quanto scritta, e che poi questi possa assumere la falsa identità di “Popolo di Israel”:


    ויאמר ה' אל משה כתב לך את הדברים האלה זשה"כ אכתב לו רובי תורתי כמו זר נחשבו
    א"ר יהודה בר שלום כשאמר הקב"ה למשה כתב לך ביקש משה שתהא המשנה בכתב ולפי שצפה הקב"ה שאומות העולם עתידין לתרגם את התורה ולהיות קוראין בה יוונית והם אומרים אנו ישראל ועד עכשיו המאזנים מעויין אמר להם הקב"ה לעכו"ם אתם אומרים שאתם בני איני יודע אלא מי שמסטורין שלי אצלו הם בני ואיזו היא זו המשנה שנתנה על פה והכל ממך לדרוש

    Traduzione:
    “Disse HaShem a Moshèh: “Scriviti queste parole”, ciò è quanto esprime lo scritto: “Se io avessi scritto la maggior parte della mia Toràh sarebbero stati considerati come [popolo] straniero”(Oshea 8,12).
    Disse Rav Yehudàh bar Shalom: quando disse il Santo Benedetto Sia a Moshèh: “scriviti”, Moshèh gli chiese che la ripetizione orale venisse messa per iscritto. Ma siccome il Santo Benedetto sia aveva previsto che i popoli del mondo, nel futuro avrebbero tradotto la Toràh leggendola in greco e avrebbero detto: “ Siamo noi Israel e fino ad ora la bilancia è esattamente in equilibrio”. Disse loro il Santo Benedetto Sia: “Voi dite che siete miei discepoli, Io so solo che chi ha con se i miei arcani, essi sono miei discepoli”. E quale è? Questa, la Mishnàh, che fu data in forma orale e il tutto è da te commentare”.
    (Midrash Tanchuma, Ki Tissà, 34).

    L’espressione המאזנים מעויין (la bilancia è esattamente in equilibrio), pronunciata dai popoli in questo Midrash, ha il senso comune, nel linguaggio talmudico, di equilibrio fra le colpe e i meriti degli umani e quindi qui potrebbe significare che i popoli si considerano dei giusti perché osservano la Toràh scritta, considerata da loro l’unica esistente. Ma significa anche che gli stessi, in un futuro lontano, avrebbero considerato la Toràh Scritta come se appartenesse anche a loro. Come dire: “la bilancia è in esatto equilibrio, la Toràh fu data a loro Israeliti, come anche a noi allo stesso esatto modo”.
    L’aggettivo מעויין deriva dall’espressione עין בעין (occhio per occhio) il cui senso è “in modo esatto”:
    עין בעין שן בשן
    “occhio per occhio, dente per dente”
    (Devarim 19,21)

    עין תחת עין שן תחת שן
    “Occhio al posto di occhio, dente al posto di dente”
    (Shemot 21,24)

    “דמי עינא חולף עינא, דמי שינא חולף שינא”

    Traduzione:
    “il prezzo [stabilito] per l’occhio sostituisce l’occhio, il prezzo [stabilito] per il dente sostituisce il dente”.
    (Targum pseudoYonathan, Devarim 19,21; Shemot 21,24)

    Toràh Scritta (תורה שבכתב) e Toràh Orale (תורה שבעלפה) non somigliano dunque ad altri sistemi giuridici quali, ad esempio, il diritto romano dove si ritrovano lo “Jus scriptum” (legge scritta) e lo “Jus non scriptum” (legge non scritta).
    In questo (il diritto romano), con “legge non scritta” si intende tutto ciò che va oltre la legge scritta. Nello specifico, in questo caso, si intendono tutte quelle usanze popolari che non sono state scritte nel codice delle leggi e in alcuni casi questa espressione veniva anche identificata con lo “Jus naturale”, ovvero con tutti quei comportamenti che emergono in modo spontaneo e naturale.
     
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    Moshèh e il significato del termine אלהים


    Queste due Toroth, questi due insegnamenti, secondo la tradizione ebraica, sono state trasmesse per mezzo di una catena di trasmissione che ha a capo un unico autore, Moshèh Rabbenu:

    משה קיבל תורה מסיניי, ומסרה ליהושוע, ויהושוע לזקנים, וזקנים לנביאים, ונביאים מסרוה לאנשי כנסת הגדולה

    Traduzione:
    “Moshèh ricevette Toràh dal Sinai e la consegnò a Yehoshua’, Yehoshua agli anziani, gli Anziani ai profeti e i profeti la consegnarono alle personalità della grande Knesset”.
    (Avot 1,1).

    Moshèh è definito “איש האלהים” (Ish haelohim) (Devarim 33,1).

    Secondo Rabi Ishmael אלהים(elohim) non è “qodesh”, ma “hol” (non è inteso in senso sacro, ma in senso ordinario). Il senso della coppia di termini “ish haelohim” è come intendevano i saggi del Midrash Tehilim: גברא דיינא (Gavra daiana: l’uomo giudice) ovvero la più alta personalità giuridica:

    אמר רבי אלעזר: מייסטרופולין היה משה שנאמר:״לא כן עבדי משה בכל ביתי נאמן הוא״. דבר אחר: איש האלהים גברא דיינא שנאמר: ״צדקת ה׳ עשה ומשפטיו עם ישראל״ שהיה אומר: ״יקוב הדין את ההר״ דבר אחר שהטיח דברים כנגד מדת הדין (…) ״איש האלהים״ שהכריע מדת הדין למדת הרחמים, הקב״ה אמר: ״אכנו בדבר ואורישנו״ ומשה אמר:״סלח נא לעון העם הזה כגודל חסדך״ וכתיב: ״ויאמר ה׳: סלחתי כדבריך״.

    Traduzione:
    “Così disse Rabi El’azar: Moshèh era un incaricato dal popolo, come fu detto: “Non così è il mio servo Moshèh, in tutta la mia casa egli è affidabile” (Bamidbar 12,7). Altra cosa: “Ish haelohim” significa: “l’uomo giudice”, come fu detto: ”Mise in pratica la giustizia di HaShem e i suoi giudizi con Israel” (Devarim 33,21); come egli diceva: ”Che il giudizio perfori i monti” (Sanhedrin 6b). Altra cosa: “Che mosse dure critiche alle misure della giustizia retributiva”. (…), “Ish haelohim” perché sottomise l’attributo della giustizia all’attributo della clemenza. Il Santo Benedetto Sia disse: “Lo colpirò con l’epidemia e lo espellerò” (Bamidbar 14,12). E Moshèh disse: ”Perdona, per favore, la trasgressione di questo popolo in conformità alla Tua grande clemenza” (Bamidbar 14,19); ed è scritto:” HaShem disse: “Ho perdonato conformemente alle tue parole” (Bamidbar 14,20).
    (Midrash Tehilim, 90,5)

    Nel Midrash Tehilim abbiamo il termine “מייסטרופולין” composto di “maistro” (incaricato) e “polin” (città, stato). Ma in un’altra edizione del Midrash abbiamo, al suo posto, il termine ”מטרפולין” con il senso di “città capitale”. Esso è composto di “matro” (madre) e “polin” (città o stato). Dunque “Ish metropolin” è l’alta personalità della città capitale, ovvero il capo di stato e la più alta autorità giuridica.

    Il diritto ebraico si basa su due poli, uno è la Legge e l’altro è l’Insegnamento. Essi furono entrambi consegnati a Moshèh nel Sinai ed egli è il Maestro per eccellenza: “Moshèh Rabbenu,” “Moshèh nostro Maestro”.
    Per osservare la legge, è necessario che il Popolo sia educato ed istruito e occorre che vi sia un corpo preposto a questo scopo.
    La Ghemaràh inoltre, parla di due incarichi importanti e complementari che erano affidati ai due condottieri del popolo di Israel. Da un lato vi è Moshèh che è il Giudice che giudica, senza aver timore di alcuno, il cui motto era:
    “יקוב הדין את ההר” (la giustizia perfora i monti) e dall’altro vi è Aharon, il quale non essendo un Giudice, ma il Cohen haGadol aveva il compito di curarsi della spiritualità del popolo:

    יקוב הדין את ההר שנאמר כי המשפט לאלהים הוא וכן משה היה אומר יקוב הדין את ההר אבל אהרן אוהב שלום ורודף שלום ומשים שלום בין אדם לחבירו שנאמר תורת אמת היתה בפיהו ועולה לא נמצא בשפתיו בשלום ובמישור הלך אתי ורבים השיב מעון

    Traduzione:
    “Ia Giustizia perfora i monti” come fu detto: Il giudizio appartiene a D-o (Devarim 1,17) e perciò Moshèh diceva che il giudizio perfora i monti, però Aharon amava la Pace e la perseguiva e metteva pace fra gli uomini, come fu detto: ”Un’istruzione di verità aveva nella sua bocca e non si trovava ingiustizia nelle sue labbra. Nella pace e nel diritto camminò con Me e a molti fece abbandonare la via della trasgressione (Malachì 2,6).
    (Sanhedrin 6b)

    Secondo invece “Sha’arè lashon”, “Ish haelohim” è da intendersi “l’uomo del giudizio” che, da come si evince dal Midrash Tehilim sopracitato, non è il tipo di Capo del potere giuridico esecutivo, che giudica solo secondo la norma scritta, come avviene nel giudizio dei popoli, ma che giudica anche secondo la מדת הרחמים (midat harahamim), l’attributo della clemenza. Giudicare secondo l’attributo della clemenza, significa mitigare il senso “granitico”, fisso ed inamovibile della Giustizia, per risalire alla Norma Morale Superiore da cui deriva una data legge. Così che il verdetto non sia rigido, tale che il Giudice sia obbligato a restare ancorato ad esso e, di conseguenza, da non poter emettere un verdetto equilibrato. E’ importante, nel diritto ebraico, tenere conto delle norme morali di base e della condizione dell’accusato, come vedremo in seguito.

    Così “Sha’arè lashon” commenta il Midrash Tehilim:

    במדרש הזה משמש אומנם הצירוף ״איש האלהים״ כתואר למשה אך לסומך ״האלהים״ מיוחס המשמע ״הדין, המשפט״ הווי אומר: איש האלהים = ״איש הדין״ בין שהוא משליט את מידת הדין במשפט בן שהוא מכניע אותה ומשליט עליה את מידת הרחמים. אין ספק שדרשה זו מושתתת על משמע התיבה [ה]אלהים כפי שהוא עולה מן הפשט או מפרשנות חזל לכמה כתובים במייוחד אלה:
    1. ״והגישו אדוניו אל האלהים״ (שמות כא,ו) — אצל הדיינים (מכילתא דרבי ישמעאל)
    2. ונקרב בעל הבית אל האלהים… עד האלהים יבוא דבר שניהם…אשר ירשיעון אלהים ישלם שנים לרעהו (שמות כב,ז-ח)

    Traduzione:
    “In questo Midrash la coppia “Ish haelohim”, a dire il vero, è usata come un attributo di Moshèh ma al secondo termine “haelohim” è attribuito il senso [giuridico] di “giudizio, giustizia”. Pertanto “Ish haelohim” è l’uomo del Giudizio, sia che egli, nel procedimento giudiziario, faccia prevalere l’attributo della Giustizia, sia che invece lo sopprima e faccia prevalere l’attributo della clemenza. Non vi è dubbio che questa interpretazione è basata sul significato del termine “elohim” come si evidenzia dal senso letterale, oppure dall’interpretazione dei saggi di alcune scritture, in particolare queste:

    1) “Il padrone lo presenterà a Elohim (Shemot 21,6) — presso i Giudici” (Mechilta derabi Ishmael, Talmud Yerushalmi, Qiddushin,1,2)

    2) “Il padrone di casa si rivolgerà all’Elohim…ci si presenterà all’Elohim con le due versioni dei fatti…secondo come decideranno Elohim [egli] pagherà il doppio al suo prossimo.
    (Sha’arè lashon, Volume I pag.275)

    Il Salmo 82 mostra i problemi delle Autorità, dei Capi di stato e dei Giudici che potrebbero manifestare la tendenza a privilegiare il ricco ed il potente e a tenere in scarso conto o a soggiogare i poveri, i deboli e gli indifesi. Il monito divino, espresso in questi versi, trasmette l’ideale di un governo giusto, che non abbia preferenze per i potenti e che salvi gli indifesi dalle oppressioni: l’ideale di una società perfetta. Riportiamo questa Tehilàh in ebraico, seguita dalla nostra traduzione e dalle interpretazioni tradizionali.

    מזמור לאסף
    אלהים נצב בעדת אל בקרב אלהים ישפט
    עד מתי תשפטו עול ופני רשעים תשאו סלה
    שפטו דל ויתום עני ורש הצדיקו
    פלטו דל ואביון מיד רשעים הצילו


    Traduzione:
    Mizhmor leAsaf
    Elohim presiede la commissione dei potenti, giudicherà in mezzo ai Giudici
    “Fino a quando giudicherete ingiustamente e avrete preferenza per i malvagi?
    Giudicate equamente l’indifeso e l’orfano e salvate il povero e l’afflitto.
    Lasciate vivere l’indifeso, che non ha nulla, salvatelo dalla mano dei malvagi”.
    (Tehilim 82,1-4)

    Il verbo הצדיקו di radice צדק ha qui il senso di salvare, come in quest’altro verso di Tehilim:

    “הודיע ה׳ ישועתו לעיני הגוים גלה צדקתו”


    “HaShem fece conoscere la Sua salvezza, ha rivelato la Sua salvezza davanti agli occhi dei popoli”.
    (Tehilim 98,2)


    E così afferma il Prof. Amos Chakham:

    “ולפי זה הדברים מכוונים למושלי העם בכלל, ולאו דוקא לשופטים הדיינים”.

    Traduzione:
    “In base a ciò le parole sono dirette ai governanti del popolo e non necessariamente ai giudici che giudicano”.
    (Da’at haMikrà, Tehilim 82,3, pag.88)

    Così commenta HaMalbim (Rabi Meïr Leibush ben Jehiel) questo capitolo di tehilim:

    הוסד נגד השופטים המטים משפט, וכפי סדר המזמורים נראה שגם שיר זה (כמו השיר שאח"ז) נתקן בימי יהושפט שהעמיד שופטים בכל עיר ועיר והזהיר אותם, דעו מה אתם עושים כי לא לאדם תשפטו כי לה' ועמכם בדבר המשפט, ועתה יהי פחד ה' עליכם (דה"ב י"ט):
    אלהים נצב בעדת אל - אלהים עומד בין הבעלי דינים והעדים הבאים למשפט שהם צריכים לעמוד, אלהים עומד עמהם, וגם בקרב אלהים ישפט - גם נמצא בין השופטים ושופט עמהם ומצייר ששופט בקרב אלהים, היינו בקרב לב השופטים נמצא דבר אלהים המזהיר אותם, ואומר להם: עד מתי תשפטו עול.

    Traduzione:
    “E’ stato stabilito contro i Giudici che deviano il giudizio e secondo l’ordine dei salmi, sembra che anche questo canto (come il canto successivo) sia stato composto ai tempi di Yoshafat, il quale nominò Giudici in ogni città e li avvertì: “Sappiate ciò che fate, perché non l’uomo voi giudicate, ma HaShem ed Egli è con voi nel corso del procedimento giudiziario ed ora che sia il timore di HaShem su di voi”.
    “Elohim presiede la commissione dei potenti “(Tehilim 82,1): Elohim sta in piedi fra le parti in causa e i testimoni che vengono in giudizio. Essi devono stare in piedi e Elohim sta in piedi con loro. “Giudicherà in mezzo ai Giudici” (Tehilim 82,1). Egli sta anche fra i Giudici e giudica in mezzo a loro. L’atto del giudicare in mezzo ai giudici, descrive che Egli giudica in mezzo agli Elohim, cioè a dire che nel cuore dei Giudici vi è la parola di Elohim, che li avverte e dice loro: “Fino a quando giudicherete in modo ingiusto?”



    L’applicazione del diritto ebraico, nella nazione ebraica, è alla base del Patto fra D-o ed il Suo popolo. Un Giudice che emetta un verdetto giusto e veritiero fa sì che la shekinàh stia in mezzo a Israel:

    אמר רבי שמואל בר נחמני אמר רבי יונתן כל דיין שדן דין אמת לאמיתו משרה שכינה בישראל שנאמר: אלהים נצב בעדת אל בקרב אלהים ישפוט

    Traduzione:
    “Disse Rabi Shemuel bar Nachmani, disse Rabi Yonathan: ogni Giudice che giudica secondo giudizio veritiero, fa posare la Shekhinàh in Israel, come è detto: “Elohim presiede la commissione dei Potenti, giudicherà in mezzo ai Giudici”. (Salmo 82,1)
    (Sanhedrin 7a)

    In questa pagina talmudica del trattato Sanhedrin, viene citato il salmo 82, il quale presenta D-o che presiede la commissione del Gran Sinedrio ed Egli stesso giudica in mezzo ai Giudici.

    Dalle fonti citate appare chiaro che nella tradizione ebraica il termine “Elohim” è inteso in senso strettamente giuridico e non soltanto religioso.
    Vero è che, per definizione, Hashem è אלהי האלהים “Elohè haElohim”, ossia “Giudice dei Giudici” e Legislatore Supremo, ma anche il giudice, il legislatore e il governatore umano sono “elohim”, in quanto rappresentanti umani della Somma Legislazione.

    Nota: ogni capitolo è raggiungibile attraverso l'Indice del primo post, pian piano ogni voce sarà trasformata in link.

    Shalom

    Edited by Abramo - 29/5/2016, 07:53
     
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    Etimologia e significato dei termini אלהים e אלה



    Il termine אלהים deriva dalla radice אלה, il cui senso base del verbo, è “giurare”.

    L’atto del giurare biblico, da parte della Divinità, corrisponde al legiferare.
    Egli, HaShem, emana le leggi e “giura” con la sua firma: “אני ה׳” “Ani HaShem”. Chi non rispetta le Sue leggi, anche se in segreto e quindi non condannabile da un tribunale umano, va incontro ad una punizione inflitta direttamente dalla Divinità.
    Il sostantivo אָלָה, che deriva anch’esso dalla stessa radice e designa una norma superiore che contiene in sé la punizione come conseguenza della sua trasgressione, allarga così il campo semantico del verbo in “legiferare”.

    Secondo Rav Shimshon Rafael Hirsch, “Elohim” deriva da אלה e significa governante, legislatore e giudice. Haelohim sono dunque i legislatori e i giudici della società umana, nel piccolo mondo dell’uomo. Egli fa notare che la stessa radice אלה è anche quella del pronome dimostrativo אֵלֶּה (elle=questi, queste), riferito a persone o cose, sia a nomi maschili che femminili. “Elle”, questi, in senso assoluto, è riferibile a tutte le cose, come se esse fossero riunite insieme in un solo termine. “Questi” rappresentano una società organizzata, fatta di ordinamenti giuridici che la regolano.
    (Rashar Hirsch, commento alla Toràh, Genesi 1,1).

    Il senso base del sostantivo אָלָה è “norma giuridica” ed esso si estende in un campo semantico più vasto acquistando, in base al contesto, il senso di Giuramento, Patto e “Maledizione”.

    Secondo il Milon Ben Yehudàh
    i seguenti termini, in diverse lingue, sono sinonimi ed il termine אָלָה è da intendersi con “serment”, “vertrag”, “schwur”, “pacte”, “oath”, “covenant”. In senso ristretto אָלָה è dunque la punizione, la conseguenza della violazione del patto.
    (Milon Ben Yehudàh; אָלָה pag.228).

    Varie definizioni sono state date al sostantivo אָלָה.
    Riportiamo quella del dizionario Milon Ariel haMaqif:

    אלה: שבועה שיש בה קללה נגד מישהו המפר אותה

    Traduzione:
    “Giuramento che ha in se una maledizione contro chi lo viola”.

    I.L. Seeligmann nega il senso di “maledizione” al termine אָלָה ed anche altri studiosi hanno proposto interpretazioni diverse da quelle tradizionali.
    (Seeligman, Mechkarim besifrut haMikrà, pag.150, nota 22 e pag.253, nota 29).

    Noi invece riteniamo importanti le interpretazioni tradizionali e queste ci aiutano a comprendere il vero senso dei termini biblici; ma il senso di questo termine è perfettamente deducibile dal contesto di alcuni versi.

    Come si evince dal seguente verso di Mishlè, אָלָה è la Legge, la cui conoscenza rende coscienti della trasgressione e della conseguente punizione:

    חולק עם גנב שונא נפשו אלה ישמע ולא יגיד

    Traduzione:
    “Chi divide con il ladro odia se stesso e anche se fosse a conoscenza dell’alàh non la direbbe”.
    (Mishlè 29,24).

    Il termine אָלָה, in questo contesto, acquista il senso di “Legge” e, più propriamente, della punizione che questa prevede per i trasgressori: chi divide con il ladro diviene suo complice. Tale complicità consiste nel fatto che egli sa che l’azione che il ladro sta commettendo è punibile dalla Legge, ma non fa opera di persuasione per convincerlo a desistere, anzi si unisce a lui per dividere la refurtiva.
    La Toràh condanna questo tipo di comportamento: il comportamento immorale di chi è a conoscenza di una “voce della legge” e della punizione da essa prevista:

    ונפש כי תחטא ושמעה קול אלה והוא עד או ראה או ידע אם לוא יגיד ונשא עונו


    Traduzione:
    “Chi trasgredirà pur avendo sentito la voce dell’alàh ed egli è testimone o ha visto o ha saputo, se non lo dirà, diverrà colpevole della sua trasgressione”. (Waykrà 5,1)
    La voce dell’alàh è la sua dichiarazione pubblica:

    אתם נצבים היום כלכם לפני ה׳ אלהיכם … לעברך בברית ה׳ אלהיך ובאלתו אשר ה׳ אלהיך כרת עמך היום למען הקים אתך היום לו לעם והוא יהיה לך לאלהים כאשר דבר לך וכאשר נשבע לאבתיך לאברהם ליצחק וליעקב
    ולא אתכם לבדכם אנכי כרת את הברית הזאת ואת האלה הזאת

    Traduzione:
    “Voi tutt’oggi siete presenti davanti ad HaShem vostro Legislatore… per entrare nel Patto di HaShem tuo Legislatore e nella sua alàh, che HaShem tuo Legislatore concluse con te oggi, affinché tu divenga Suo Popolo ed Egli sarà per te Legislatore, come ti ha detto e come ha giurato ai tuoi antenati, ad Avraham, a Itzchaq e a Ya’aqov.
    Non con voi solamente Io concludo questo patto e questa alàh”.
    (Devarim 29,9-13)

    ובאלתו: זה שנאמר ואם באלה לא תשמעו לי אמר להן הברית הזאת כרותה היא עמכם מהר חורב שנאמר אשר כרת אתם בחורב

    Traduzione:
    “E nella sua alàh: è come fu detto: e se in queste non mi ascolterete, disse loro, questo patto è concluso con voi dal monte Horev, come fu detto: che concluse con loro in Horev”.
    (Midrash haGadol, Nizavim, 29)

    Secondo questo passaggio del Midrash haGadol, la alàh è la punizione, inflitta direttamente dalla Divinità, che fa parte dell’elenco delle punizioni descritte nella Parashàh Bechukkotai. Quando il tribunale degli umani perde la sua efficienza per eccessiva corruzione, HaShem stesso scende per educare il popolo, infliggendogli tutta una serie di punizioni che alla fine lo riporteranno sulla retta via. Tali punizioni sono impropriamente dette “maledizioni”.

    La “maledizione” nell’ebraismo altro non è che la punizione che consegue alla trasgressione della Toràh. Essa è la conseguenza della violazione del Patto stipulato con HaShem.
    Pare che il Midrash in questo caso, vocalizzi il termine אלה non come pronome dimostrativo (אֵלֶּה), ma come אָלָה. Non si dovrebbe leggere “beelle”, ma “baalàh”, come anche fa notare Rav Baruch Epstein, nel suo commento alla Toràh.
    (Toràh Temima, Waykrà 26,23).

    Pertanto “ואם באלה לא תשמעו לי” è anche da intendersi: “e se non mi presterete attenzione in base all’alàh”, ovvero alla “Legge” che, nella sostanza, altro non è che un giuramento solenne pronunciato da D-o, che prevede quelle punizioni in essa descritte in caso di violazione. Ma il testo della Toràh riporta così la suddetta citazione:

    ואם עד אלה לא תשמעו לי


    che i massoreti, concordemente al targum, vocalizzano:

    וְאִם עַד אֵלֶּה לֹא תִשְׁמְעוּ לִי

    Traduzione:
    “E se fino a queste non mi ascolterete”
    (Waykrà 26,18)

    Il Midrash riporta altre due vocalizzazioni del termine עד di questo verso:
    1)* עֵד=testimone, testimonianza (cfr. 1*)
    2)** עֹד: ancòra (cfr. 2**)

    רבי אליעזר אומר אין הקב״ה מביא פורעניות על ישראל עד שמעיד בהן תחילה הה״ד: ואם עד אלה

    Traduzione:
    1)* Rabbi Eli’ezer dice: Il Santo Benedetto Sia non manda disgrazie su Israel fino a che prima non testimonia contro di loro, come è scritto:

    ואם עֵד אלה



    רבי יהושע אומר שלא יהו ישראל אומרים כלו מכות עוד אין לו אחרות להביא עלינו ת״ל: ואם עד אלה, אם עוד אלה יש לו אחרות

    Traduzione:
    2)** Rabi Yehoshua dice: che non dicano Israel cessarono le punizioni, non ne ha più da portare a noi, cioè a dire: ואם עֹד אלה, se ancora queste, ne ha di altre.
    (Echàh Rabbàh, Petichta deRabi Pinchas, 27)
    Pertanto, in conformità anche con il senso espresso nel Midrash haGadol, l’espressione di questo verso, se vocalizzato come vuole il Midrash Rabbàh: עֵד אָלָה acquista il senso di: “Testimonianza di Legge”.

    Midrash haGadol:
    וְאִם בְּאָלָה לֹא תִשְׁמְעוּ לִי

    Traduzione:
    “E se, in base alla Legge, non mi presterete attenzione…”

    Midrash Rabbàh:
    וְאִם עֵד אָלָה לֹא תִשְׁמְעוּ לִי

    Traduzione:
    “E se, (nella maniera della) testimonianza di Legge,
    non mi presterete attenzione…”

    עֵד אָלָה è qui un espressione avverbiale come עֵד שֵׁקֶר:

    לא תענה ברעך עד שקר
    “Non testimonierai contro il tuo prossimo, falsa testimonianza”.
    (Shemot 20,13).

    in cui il termine עֵד è un sostantivo astratto con il senso di “testimonianza”.

    Edited by Abramo - 29/5/2016, 08:04
     
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    Il Re e il Gran Sinedrio



    הוא נקרא אלהים וקרא למשה אלהים שנאמר ראה נתתיך אלהים לפרעה ואמר הקדוש ברוך הוא למשה מלך עשיתיך שנאמר ויהי בישורון מלך

    Traduzione:
    “ Egli è chiamato Elohim e chiamò Moshèh Elohim, come fu detto: “vedi, ti ho costituito elohim a Par’ò e disse il Santo Benedetto Sia a Moshèh: ti ho fatto Re, come fu detto: vi sia un Re in Ieshurun.
    (Yalkut Shimoni, Parashat Beha’alotchà,724)

    האדם אם הוא מלך או שר נקרא גם כן בשם אלהים

    l’uomo, se è un Re o un Ministro, è anche chiamato con il titolo “Elohim”.
    (Ohev Israel, Likutim Chadashim, Parashat Waerà)

    Il Re aveva l’obbligo di scrivere per sé un Sefer Mishnèh Toràh e di leggervi tutti i giorni della sua vita, “perché non si insuperbisca deviando dai comandamenti a destra o a sinistra”. (Devarim 17,20)

    Da quanto si evince da Yehoshua 1:18, il Re aveva dei poteri particolari e la trasgressione dei suoi decreti comportava la pena di morte. (haMishpat ha’Ivrì,p.49) .
    Egli godeva di alti poteri nell’ambito legislativo, giudiziario ed esecutivo. In modo particolare, qualora fosse richiesto un intervento immediato, era facoltà del Re di decidere in tempi brevi, sorvolando su ogni complicazione burocratica. Aveva anche il potere di condanna a morte, perfino nei casi in cui mancasse anche uno solo degli elementi principali, senza il quale il Sinedrio non era in grado di comminare la condanna. Vi è dunque una sostanziale differenza fra il mishpat del Sinedrio ed il mishpat hamelech.

    Mentre da un lato, il Sinedrio aveva sempre l’obbligo di applicare il “mishpat tzedeq”, ossia la Giustizia secondo Norma giusta, dall’altro il Re aveva l’obbligo di gestire la società di cui era responsabile. Queste due importanti istituzioni avevano dei poteri complementari ed insieme governavano la società ebraica del Regno.

    Il Sinedrio doveva rispecchiare la Giustizia suprema, divina, come è scritto:

    “ושפטו את העם משפט צדק”

    “E giudicarono il popolo con giusto Diritto” (Devarim 16,18)

    mentre il Re aveva l’obbligo di sorveglianza su di esso, affinché l’eccessivo senso della Giustizia non eccedesse in inflessibilità o non mettesse in pericolo il Regno.
    In determinate circostanze, il Re poteva adottare delle eccezioni, rifacendosi al diritto straniero ed applicandolo secondo la contingenza o l’urgenza, risolvendo in tal modo questioni complicate, oltre a tutte quelle situazioni che non erano di stretta competenza del Sinedrio.

    השיפוט לפי הדין הוא ״נשגב במעלתו״, ו״צודק בעצמו״ אך לא תמיד הוא גם מתקן את ענייני החברה וצרכי השעה; משום כך יש שמשפטי עמים אחרים פותרים בעיה חברתית מסוימת בצורה הולמת יותר מאשר הדין שבהלכה. התאמה זו של הדין לצרכי השעה ולתיקון הסדר החברתי נעשה על ידי משפט המלך. משום כך מערכת המשפט העברי בכללותה אינה חסרה דבר, ״כי כל מה שיחסר התיקון הנזכר (= של הסדר החברתי) היה משלימו המלך״.

    Traduzione:
    “Il giudizio secondo il diritto (della halachàh) è “di alto grado morale” e “giusto in sé”, però non sempre risolve anche gli affari della società e le necessità del momento. Pertanto, il diritto di altri popoli risolve un dato problema sociale in un modo più adatto del diritto della halachàh. Questo adattamento del diritto, secondo le necessità del momento, e la risoluzione dell’ordine sociale, veniva effettuato per mezzo del “mishpat hamelech”.
    Pertanto, il sistema del diritto ebraico nel suo insieme, non manca di nulla, “poiché tutto ciò che veniva a mancare nella suddetta risoluzione (dell’ordine sociale) veniva completato dal Re”.
    (Menachem Elon, haMishpat ha’Ivrì, pag.51)

    I Giudici, rispetto al Re, avevano obblighi maggiori e più stringenti, riguardo al diritto della halachàh.
    A causa di questa sua indipendenza, al Re era riservato un particolare monito della Toràh:
    “לבלתי רום לבבו” “che non si insuperbisca” (Devarim 17, 20), affinché il suo essere cosciente di non dover rispondere agli stessi obblighi dei giudici e la sua maggiore libertà ed indipendenza nel giudicare, non lo portassero ad eccessi e abusi, fino a deviare dalla via della Toràh.
    In determinati casi, la giurisdizione era di esclusiva competenza del Re. Egli era il giudice supremo del tribunale militare ed esercitava il suo potere senza l’intervento del Sinedrio, il quale era concepito come la Corte Suprema della Nazione. Il Sinedrio aveva potere esclusivo sui cittadini israeliti, mentre i casi riguardanti tutti gli altri residenti, in particolare nel diritto penale, erano sotto la esclusiva giurisdizione del sovrano, il quale giudicava avvalendosi soprattutto dei rapporti internazionali con i paesi dei quali gli imputati erano cittadini.
    Per i cittadini stranieri, era in vigore un differente tipo di diritto, che prevedeva la nomina, da parte del Sinedrio, di un Tribunale di pari condizione e provenienza degli accusati. Questa peculiarità, unica nel suo genere, sarà analizzata a proposito del diritto relativo allo status di “gher toshav”.
    Esistono però dei casi in cui il Re conferiva al Sinedrio il potere di agire per proprio conto, in maniera indipendente. Questo tipo di delega spesso comportava delle decisioni e potevano crearsi delle situazioni di eccessiva rigidità nell’applicazione del giudizio, creando problemi e conflitti che mettevano in cattiva luce il Sinedrio agli occhi dei cittadini, i quali lo avevano sempre concepito come il Tribunale di somma giustizia divina.
    Nei periodi della diaspora e nei periodi in cui il Popolo non aveva un Re, i Giudici potevano permettersi delle liceità di modi, usualmente riservati esclusivamente al regnante. Questo, perché tale caratteristica è prevista nel diritto ebraico che, come abbiamo visto, completa il suo campo d’azione in quei casi in cui il diritto della halachàh si riveli poco efficiente a causa di elementi giuridici che si discostano troppo dalla sua effettiva competenza.
    In una Beraita, attribuita a Rav Eli’ezer Ben Ya’aqov, sono riportati due casi in cui il Bet Din aveva giudicato avvalendosi della suddetta liceità:

    תניא ר''א בן יעקב אומר שמעתי שבית דין מכין ועונשין שלא מן התורה ולא לעבור על דברי תורה אלא כדי לעשות סייג לתורה ומעשה באחד שרכב על סוס בשבת בימי יונים והביאוהו לבית דין וסקלוהו לא מפני שראוי לכך אלא שהשעה צריכה לכך שוב מעשה באדם אחד שהטיח את אשתו תחת התאנה והביאוהו לבית דין והלקוהו לא מפני שראוי לכך אלא שהשעה צריכה לכך:

    Traduzione:
    “Rabi Eli’ezer ben Ya’aqov dice: “ho sentito che il Bet Din infligge colpi e castighi che non appartengono alla Toràh e (ciò avveniva) non per trasgredire alle parole della Toràh, ma per fare una siepe intorno alla Toràh. C’è il fatto di uno che cavalcava un cavallo di Shabbath, nel periodo dei Greci. Lo portarono nel Bet Din e lo lapidarono, non perché è così da farsi, ma perché tale era la necessità del momento. Un altro caso di un uomo che ebbe rapporti sessuali con sua moglie sotto un fico e lo portarono al bet din e lo castigarono con le frustate, non perché era così da farsi ma perché era la necessità del momento”.
    (Sanhedrin 46a)

    Cavalcare di Shabbath infatti, non comporta la pena di morte ed avere rapporti con la propria moglie sotto un fico, non è proibito dalla Toràh. Ma data la situazione che si era venuta a creare a causa dell’oppressione greca, in un’epoca nella quale i comandamenti avevano perso il loro valore ed il popolo si era dato a facili trasgressioni, se non si fosse intervenuti con una certa durezza e determinazione, altri limiti sarebbero stati oltrepassati con maggiore facilità, con un’inevitabile caduta in trasgressioni molto più gravi.
    Il caso dell’uomo che cavalcava di Shabbath, doveva essere punito in modo esemplare, in maniera tale da incutere tanto timore nel popolo, da indurlo ad una seria riflessione sulle conseguenze di un comportamento troppo permissivo e tale da dissuaderlo da quel comportamento scellerato.
    Anche un rapporto sessuale fuori di casa, poteva incitare il popolo a trasgressioni più gravi ed era quindi necessario porre un limite, comminando una punizione esemplare.
    La “necessità del momento”, in cui il Re disponeva di pieni poteri, consisteva anche nella costruzione di una “siepe”, per proteggere la Toràh in casi come questi, in cui le oppressioni e le dominazioni straniere non possono e non devono giustificare in nessun modo le violazioni.

    Così commenta Rashì:

    אלא שהשעה צריכה לכך. מפני שהיו פרוצים בעבירות שהיו רואין לוחצן של ישראל שהיונים הם גוזרים עליהם גזירות והיו מצות בזויות בעיניהם

    Traduzione:
    “Perché così era la necessità del momento: perché erano soliti trasgredire con facilità, vedendo le oppressioni degli Israeliti da parte dei Greci i quali promulgavano loro editti ed i comandamenti erano da loro disprezzati”.
    (Rashì in Sanhedrin 46a)

    D’altro canto, infliggere la pena delle frustrate per una trasgressione per la quale la Toràh non la prevede o, peggio ancora, infliggere la pena di morte, sono atti gravissimi che equivalgono ad annullare la procedura esecutiva descritta nella Toràh.
    Secondo R. David ben Zimrah applicare la pena di morte per una trasgressione per la quale la Toràh non la preveda, equivale alla violazione del sesto principio del Diritto Ebraico: “לא תרצח”, ma i Saggi che stabilivano la halachàh ritenevano opportuno adattare il diritto penale, allo scopo di far fronte ai cambiamenti nelle situazioni storiche, sociali, religiose e morali del Popolo. (Menachem Elon; “Hamishpat haivrì” pag.423)

    Nel Talmud Yerushalmi, viene trattato il principio della “necessità del momento” e fino a quale misura possa essere applicato.

    תני א"ר אלעזר בן יעקב שמעתי שעונשין שלא כהלכה ועונשין שלא כתורה עד איכן ר' לעזר בי רבי יוסי אמר עד כדי זימזום רבי יוסה אומר בעדים אבל לא בהתרייה מעשה באחד שיצא לדרך רכוב על סוסו בשבת והביאוהו לב"ד וסקלוהו והלא שבות הוית אלא שהיתה השעה צריכה לכן שוב מעשה באחד שיצא לדרך ואשתו עמו ופנה לאחורי הגדר ועשה צרכיו עמה והביאוהו לב"ד והלקוהו והלא אשתו הוות אלא שנהג עצמו בבזיון:

    Traduzione:
    “R. El’azar ben Ya’aqov diceva: “Ho sentito che infliggono punizioni non secondo la halachàh, infliggono punizioni non secondo la Toràh; ma fino a quanto (ciò è permesso)?”
    R. L’azar della scuola di Rabi Yose disse: “Anche fino a che sembra una cospirazione. Rabi Yosa disse: per mezzo di testimoni sì ma non soltanto per deduzioni logiche”.
    C’è un fatto di uno che andava cavalcando il suo cavallo di Shabbath, lo condussero al Bet Din e lo lapidarono; ma non si tratta di Shevut? (Shevut: proibizione sabbatica rabbinica).
    Si, ma era invece la necessità del momento che lo richiedeva. C’è ancora un altro fatto di uno che andava con sua moglie per strada, girarono dietro il recinto ed ebbe rapporti sessuali con lei. Lo condussero al Bet Din e lo punirono con le frustrate; ma non era sua moglie? Sì, però si era comportato in modo osceno”. (Yerushalmi, Chaghiga, 2,2)

    Edited by Abramo - 29/5/2016, 08:10
     
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    Il Valore dell’essere umano


    Il Principio alla base dell’Ebraismo è l’idea che l’uomo sia stato creato ad immagine di D-o, “בצלם אלהים”.

    La Toràh inizia con il racconto della Creazione e con questo ci indica i principi generali su cui si fondano la morale e la legislazione ebraica.
    Il valore dell’uomo in quanto uomo, è sempre presente in ogni cognizione morale e legislativa, la quale regola tutto il sistema in tutte le sue forme. L’uomo, creato ad immagine di D-o, esprime il più alto concetto di eguaglianza e di amore verso l’uomo, esclusivamente in quanto tale. Tutti gli esseri umani derivano da un solo uomo, appartengono alla stessa famiglia umana e sono dunque tutti fratelli. Questo concetto è penetrato nel cuore dell’umanità attraverso le religioni che derivano dall’ebraismo. Il mondo ha imparato la moralità e l’amore dall’ebraismo, ha attinto molti principi morali dai Profeti di Israel, ma non ha saputo stabilire un sistema giuridico all’altezza degli alti principi morali della religione di Israel. La morale dei popoli è stata gestita per lo più dalle religioni dominanti e spesso imponenti; ma il loro sistema giuridico non rispecchia in pieno gli alti principi morali.

    Al contrario, tutto il sistema giuridico ebraico si fonda sugli insegnamenti della Toràh, la sua Morale superiore e le sue Norme.

    ואהבת לרעך כמוך (Waykrà 19,18), “Ama il prossimo tuo come te stesso” o, più precisamente, come lo intende il Midrash: “ama (desidera) per il tuo prossimo come per te stesso”, è la base della morale e del diritto ebraico.


    לעולם יהיה אדם אוהב את הבריות, שנאמר ואהבת לרעך כמוך ומ״ש לרעך ולא אמר את רעך בא ללמד שחייבה תורה לאהוב ולחמוד לחברו כל מה שהוא אוהב וחומד לנפשו.

    Traduzione:
    “Che l’uomo ami sempre le creature, come fu detto: “amerai il prossimo tuo come te stesso. Ciò che fu detto è: לרעך ( per il tuo prossimo) e non את רעך (il tuo prossimo), viene ad insegnare che la Toràh ha obbligato ad amare e desiderare per l’amico, tutto ciò che si ama e si desidera per se stessi”.
    (Ozar haMidrashim, Le’olam, cap. 17, pag. 2749)

    Questo comandamento d’amore è il riflesso di un comandamento più grande, il comandamento che comanda all’ebreo di amare D-o con tutto se stesso.
    Amare D-o significa amare le sue leggi di amore, significa amare l’uomo in quanto Sua immagine.
    In quanto tale, l’uomo non può essere umiliato, offeso o maltrattato. La proibizione dell’assassinio è strettamente legata al principio secondo cui l’uomo è l’Immagine di D-o (Bereshit 9,6).
    Il comandamento “amerai per il prossimo tuo come per te stesso” si sviluppa e sta alla base di tutte le proibizioni di compiere qualsiasi azione che ferisca la persona altrui.
    I comandamenti della Toràh sovrintendono anche ai sentimenti del cuore quali: desiderio, amore, odio e vendetta per impedire, già alla radice, la tendenza verso le trasgressioni, quale conseguenza della loro influenza sul comportamento umano.

    Ad esempio:
    לא תחמוד (= non seguirai i tuoi desideri) è la proibizione di compiere qualunque azione volta a ottenere la proprietà altrui. Questa è solo l’ultima delle cinque parole nella seconda delle due tavole, ordinate secondo una scala graduale di gravità:

    לא תרצח (non assassinerai)
    לא תנאף (non commetterai adulterio)
    לא תגנב (non ruberai)
    לא תענה (non testimonierai [il falso])
    לא תחמוד (non seguirai i tuoi desideri)

    Questi alti comandamenti morali, da cui derivano i loro articolati precetti, sono alla base di tutto il diritto ebraico per il quale, l’applicazione delle relative punizioni, in caso di violazione, consiste nella “purezza del mishpat”, che è ricordata nel Tanakh in vari modi: proibizioni di deviare il din, avvertimento contro la corruzione, obbligo di giudicare con equità anche i più deboli della società: i poveri, gli orfani e le vedove. Nelle dispute legali vi è l’alto obbligo di ogni cittadino, che ne abbia le capacità, di aiutare i poveri e gli oppressi.
    Questi comandamenti sono rivolti principalmente alla coscienza del cittadino. Essi sono scritti, in forma di principi morali, nel cuore di ogni uomo, perché possa usare l’attributo della pietà:

    אם כסף תלוה את עמי את העני עמך לא תהיה לו כנשה לא תשימון עליו נשך אם חבל תחבל שלמת רעך עד בא השמש תשיבנו לו כי הוא כסותה לבדה הוא שמלתו לערו במה ישכב והיה כי יצעק אלי ושמעתי כי חנון אני

    Traduzione:
    “Se presterai denaro al mio Popolo, al tuo povero, che è con te, non ti comporterai con lui come da creditore. Non addebiterai a lui interesse. Se con forza prenderai il vestito del tuo prossimo, fino al tramonto del Sole glielo restituirai perché questo è la sua unica coperta, è il vestito sulla sua pelle, con cosa si coricherà? Ed avverrà che se griderà a Me, ascolterò, perché Io sono Pietoso.
    (Shemot 22,24)
     
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    Il concetto di eguaglianza


    La procedura giuridica ebraica differisce in modo sostanziale rispetto al diritto degli altri popoli. Mentre in quest’ultimo sono gli avvocati dell’accusa e della difesa a condurre gli interrogatori e a richiedere le prove a carico di ogni parte, nel diritto ebraico sono invece i Giudici a dirigere gli interrogatori e a richiedere le prove a ciascuna delle parti. Questo metodo è di gran lunga più efficiente, perché principalmente tende ad eliminare il problema della contraffazione delle prove e la falsa efficienza di una retorica ingannevole. Il verdetto dovrà essere equo nel suo massimo grado possibile. In esso si dovrà anche tenere conto dell’appartenenza di ceto sociale di ciascuna delle due parti.
    Il concetto di eguaglianza non può prescindere dal considerare le potenziali possibilità o impossibilità a compiere determinate azioni, che possono essere molto diverse in base alla classe sociale di appartenenza.
    Un ricco dispone di molte risorse ed i valori che egli attribuisce alle cose sono di gran lunga differenti rispetto al povero. Se dunque un povero dovrà essere multato, dovranno essere tenute in considerazione le sue effettive possibilità, in base al valore che queste hanno per lui, poiché dispone di scarse risorse. Questo principio valeva ad esempio, nelle regole del culto dei sacrifici. Nel caso di un povero che non avesse avuto la possibilità economica di offrire un animale costoso, l’obbligo, da parte del Bet Din, era di presentare un’offerta adeguata alla sua disponibilità e condizione. (Waykrà 5,5-13)
    Pertanto, il concetto di eguaglianza non può essere vero ed esatto se non implica dapprima in sé un’eguaglianza di valori. Nel diritto dei popoli, al contrario, una sanzione pecuniaria ha lo stesso valore per tutti i soggetti, in quanto non prende in considerazione i valori secondo le possibilità di ciascuno. Vi è quindi l’illusione di conseguire un’eguaglianza assoluta mentre, al contrario, con questo metodo non si applica una punizione equa, poiché il benestante, potrà considerare irrisoria una sanzione e, non ricevendo una lezione adeguata e una sanzione proporzionale al suo status economico, continuerà a manifestare la tendenza a trasgredire nuovamente, data l’inefficienza della punizione.
    Si consideri anche che un ricco potrà disporre di avvocati prestigiosi e di fama, con la possibilità di gestire molto più agevolmente la procedura giuridica a suo favore, pur essendo egli trasgressore in maniera certamente non diversa dall’indigente.
    Nel diritto ebraico invece, il concetto principe è il conseguimento della Verità e questo compito è riservato ai Giudici, i quali gestiscono tutta la procedura in modo attivo, mentre le due parti in causa rimangono passive ed attente alle richieste dei magistrati. Compito basilare della procedura giuridica ebraica è quello di conseguire una completa eguaglianza delle parti in causa.
    Davanti ai Giudici (in fase istruttoria), le due parti sono perfettamente uguali.
    Dinanzi a loro in udienza, non c’è né ricco né povero, né padrone né servo, né piccolo né grande: unico obbiettivo è una perfetta indagine della verità.
    Diversamente, al momento della promulgazione della sentenza, sarà emesso un verdetto che prenda in debita considerazione le diseguaglianze di ceto sociale e di condizione economica, affinché il Giudizio sia il più equo possibile.

    Un’ulteriore differenza sostanziale fra il diritto ebraico e quello dei popoli, è riscontrata nel principio, nel diritto ebraico, secondo il quale l’uomo fu creato ad immagine di D-o e pertanto, in virtù di questo concetto, ogni uomo ha l’obbligo di mantenere elevato il proprio onore e quello del suo prossimo in quanto tale.
    Se ad esempio, durante un’indagine sia richiesta una perquisizione, questa dovrà essere eseguita in maniera tale che l’indagato non debba sentirsi umiliato.
    Il compito di ricerca della verità e dell’identificazione dei colpevoli non ha la liceità di violare l’onore del sospettato. Il sospetto non è mai una giustificazione, se tende a violare l’alto principio dell’onore dell’uomo in quanto uomo. Ciò vale sia per l’accusa che per l’accusato. Le due parti dovranno fare di tutto per salvaguardare l’onore e la dignità dell’indagato.

    Nel diritto dei popoli, la Morale e la Legge appartengono a due campi diversi mentre nel diritto ebraico, questi due campi sono perfettamente integrati. La procedura giuridica dei popoli si fonda sulla legge stabilita e nulla può aver luogo se non espressamente scritto in un dato comma. Le considerazioni morali hanno valore relativo e, nel caso che si sovrappongano alla legge scritta o che vadano in conflitto con questa, sarà la norma scritta che predominerà.
    Nel diritto ebraico, all’opposto, si tende a conseguire il diritto equo in ogni circostanza e quindi si può derogare dalla legge scritta, sostituendo ad essa una derivazione da una Norma Morale Elevata che abbia relazione con l’indagine. Esso obbedisce perfettamente al principio generale:

    ועשית הישר והטוב

    “Farai ciò che è diritto e buono”. (Devarim 6,18)
    La Norma Morale ha sempre la precedenza, quando la circostanza lo richieda. (Ramban, Parashat Qedoshim).
    Già dal periodo biblico, i popoli intravedevano un’alta morale e pietà nel diritto ebraico.
    Ad esempio, i servi del re di Aram così si esprimevano riguardo ai Re di Israel:

    ויאמרו אליו עבדיו הנה נא שמענו כי מלכי בית ישראל כי מלכי חסד הם נשימה נא שקים במתנינו וחבלים בראשנו ונצא אל מלך ישראל אולי יחיה את נפשך

    Traduzione:
    “I suoi servi gli dissero: ecco, per favore, abbiamo sentito che i Re della casa di Israel sono Re di bontà, permettici per favore di metterci dei sacchi nei nostri lombi e corde sulla nostra testa e usciamo incontro al Re di Israel, che forse non ti salvi la vita”.
    (1 Malachim 20,31 )

    Secondo il diritto ebraico sono più importanti il principio del perdono e della riconciliazione, rispetto alla ricerca e all’applicazione di una pena esemplare.
    In altri termini, il verdetto dovrà perseguire la pace e la riconciliazione delle due parti in causa.
    L’applicazione del diritto ebraico dunque ha la massima efficienza, perché integra in sé anche i principi morali su cui si basano tutte le sue Leggi. Dato che l’origine di tale diritto è attribuito a D-o nella Rivelazione del Sinai, i cittadini hanno la tendenza a rispettarlo e a mettere in pratica i loro doveri con un alto senso di timore della Divinità. Come abbiamo precedentemente sottolineato, il principio che è alla base del diritto ebraico è: “Ama per il prossimo tuo come per te stesso”, cui segue solennemente la firma con il nome sacro di HaShem: “Anì ****” “Io sono HaShem”.
    Colui che comanda è il Sommo Legislatore, la massima autorità in assoluto, oltre la quale non vi può essere alcun tipo di appello:

    אני אמית ואחייה
    מחצתי ואני ארפא
    ואין מידי מציל



    Traduzione:
    “Io farò morire e farò vivere, ho colpito ed Io guarirò e non c’è chi potrà salvare dalla mia mano” (Devarim 32,39)
     
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    Il principio di convivenza


    La concezione del principio di convivenza, su cui si basa il diritto ebraico, può prevedere un intervento imprevisto da parte del prossimo. Si prenda il caso del proprietario di un immobile che abbia dei difetti, che potrebbero creare problemi di tipo economico allo stesso proprietario, qualora non si intervenga in tempo debito. Un conoscente potrebbe prendere l’iniziativa di sovvenzionare i lavori all’insaputa o senza il consenso del proprietario. Questa azione è mossa da un principio di amore che richiede un intervento pratico il quale esprime, nella sua essenza, che il cittadino è interessato alla situazione economica del proprio prossimo e desidera partecipare con i propri mezzi per migliorarla. Secondo il diritto ebraico, questa possibilità è ammessa e non è considerata una violazione di proprietà, né di alcun altro genere.
    Le intenzioni di chi vuole contribuire, tendono a proteggere gli interessi del proprietario e non a violarli. Con questo tipo di concezione della società, ogni contribuente non dovrà temere ad esempio, di essere citato in giudizio, come violazione della proprietà altrui. Ogni qual volta si presenti l’occasione di fare del bene al prossimo, ciò è permesso e auspicabile ed è perfettamente legale, perché si integra perfettamente nel principio generale dell’amore fraterno. Esso, naturalmente, è mirato a conseguire un miglioramento della società.

    Al contribuente interessa l’aver fatto del bene al proprietario e non deve sperare in una ricompensa. Il proprietario può decidere di pagare una parte delle spese, oppure l’intera somma o quanto egli vorrà e ciò potrà essere concordato fraternamente, con la supervisione del Tribunale, per ottenere un risultato equo. Il beneficiario non può però essere obbligato a pagare, ma ogni contribuente può ben sperare che prima o poi si possa vedere il frutto della sua iniziativa.
    Ciò incrementa indubbiamente la partecipazione fraterna ed è l’espressione della fratellanza in sé, che sono la massima applicazione del principio generale e basilare di amare il prossimo come se stessi.
    (Baba Metzi’a 101a 101b, Rambam, Ghezhelàh 10,5-11)

    All’opposto, nel diritto di altri popoli, chi prende l’iniziativa di apportare un miglioramento alla proprietà altrui, non può avere il diritto di ricevere un indennizzo parziale o totale, per i lavori effettuati. Ciò in base alla concezione secondo la quale nessuno può avvalersi dell’arbitrio di prendere iniziative in affari di altri, né di interessarsi dei problemi che riguardano la proprietà altrui, pena il rischio di una denuncia per violazione della proprietà privata.
    Questo perché la comune concezione di fratellanza, che già in generale è inferiore moralmente a come essa è concepita nel diritto ebraico, non è presa in nessuna considerazione in ambito strettamente legale, proprio perché si tratta di un concetto morale e non giuridico.

    Un’altra importante e sostanziale differenza nel diritto ebraico è che esso si fonda principalmente sui doveri, mentre il diritto dei popoli è basato principalmente sui diritti.
     
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    Gli impegni e i rapporti commerciali


    Consideriamo una delle situazioni più ricorrenti nel diritto: l’impegno contrattuale, in base al quale gli individui si impegnano a mantenere, per il futuro, le promesse concordate. Nel diritto ebraico è importante che vengano rispettati diligentemente, non solo i patti scritti ma anche quelli stipulati verbalmente e ciò anche nel caso che in futuro non si realizzino le condizioni inizialmente previste. L’impegno preso oralmente ha un alto peso, come è scritto:
    מוצא שפתיך תשמר ועשית
    “Osserverai ciò che esce dalle tue labbra e lo farai”. (Devarim 23,24)

    In relazione ai contratti stipulati verbalmente, il diritto ebraico pone l’accento sull’obbligo dell’onestà delle parti, perché ognuna di esse tenga fede alle promesse.

    Per insegnare l’obbligo di mantenere le promesse, i saggi usano spesso le parole di Bil’am nella Parashat Balaq, ove, a dare l’esempio, è proprio HaSHem:

    וישא משלו ויאמר קום בלק ושמע האזינה עדי בנו צפר לא איש אל ויכזב ובן אדם ויתנחם ההוא אמר ולא יעשה ודבר ולא יקימנה הנה ברך לקחתי וברך ולא אשיבנה

    Traduzione:
    “Innalzò il suo Mashal e disse: Alzati Balàq e intendi, ascolta verso di me figlio suo, di Tzippòr.
Non è una persona umana, altolocata D-o, da non mantenere le promesse, non è un essere umano che possa retrocedere, come chi disse e non farà, promise e non manterrà la promessa. Ho accettato di benedire e ho benedetto e non posso più ritirare [benedizione].
    (Bamidbar 23,18-20)

    Il Mashal contiene parole di saggezza, atte ad insegnare e adopera il metodo del confronto. Qui viene messo a confronto il Governante dell’universo, con un semplice governante umano. Quest’ultimo è il modello del personaggio politico che ha l’abitudine di promettere, ma restìo a mantenere le sue promesse.
    L’umano retrocede, non tenendo fede alle sue promesse, mentre invece D-o non retrocede mai ed Egli qui, per Bil’am, è il massimo esempio di chi non viene mai meno al Suo impegno.
    Nei suddetti attributi divini espressi da Bil’am, alcuni commentatori non hanno solo visto il semplice compimento delle promesse, ma un alto esempio morale, atto ad incoraggiare a mantenere la promessa, anche quando l’altra parte contrattuale l’abbia spudoratamente violata.

    Il verso in questione vuole sottolineare la consuetudine umana che tende a liberarsi dagli impegni presi, ma Egli D-o non è come gli umani, Egli mantiene sempre le promesse e vuole essere imitato in questo.
     
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    la coscienza legale del cittadino


    Il sistema giuridico ebraico richiede che ogni cittadino venga istruito sulle norme che è obbligato a rispettare. La stessa morale intrinseca nelle norme giuridiche, viene proposta al cittadino ebreo sotto forma di insegnamento. Una volta che questi abbia perfettamente appreso l’insegnamento di base su cui poggia ogni norma, egli sarà in grado di mettere in pratica tutta la legislazione ebraica. Questo è il senso delle parole del Profeta (Yermiahu 31,32), secondo cui le leggi saranno scritte nel cuore:

    נתתי את תורתי בקרבם ועל לבם אכתבנה

    Traduzione:
    “Ho dato la mia Toràh in mezzo a loro e la scriverò nel loro cuore”

    Tale insegnamento è la Toràh, la cui Legislazione non può prescindere dall’istruzione rivolta ad ognuno.
    Un insegnamento che istruisce alla fedeltà e all’onestà, che sono i pilastri su cui poggiano la società e il diritto ebraico.

    La massima espressione dell’onestà è richiesta ai rapporti commerciali:

    אמר רבא בשעה שמכניסין אדם לדין אומרים לו נשאת ונתת באמונה קבעת עתים לתורה עסקת בפו"ר צפית לישועה פלפלת בחכמה הבנת דבר מתוך דבר

    Traduzione:
    “Disse Raba, nell’ora in cui viene fatto entrare un uomo nel giudizio, gli si dice: “Ti sei preso e hai dato (negli affari commerciali) fedelmente? Hai stabilito i tempi per studiare la Toràh? Ti sei occupato di perù-urvù (fecondare e moltiplicare)? Hai sperato nella salvezza? Hai studiato approfonditamente con saggezza? Sei stato saggio nelle tue conclusioni?”
    (Shabbat 31a)

    I concetti di “fedeltà” e “onestà”, nell’accezione comune, si riferiscono all’ambito della sfera morale. Differentemente, in senso ebraico, essi appartengono, non solo al campo dei valori morali, ma significano profondo rispetto delle mitzwot (ossia dei precetti) e, di conseguenza, per definizione, rientrano ampiamente nell’ambito giuridico, ovvero dei “Dinim”.
     
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    דינים Dinim


    IL concetto ebraico di דינים è trattato principalmente nel seder nezikin.
    I Dinim si dividono in “dinè mammonot” e “dinè nefashot”.
    Spesso, con “Dinè mammonot” ci si riferisce al diritto civile, ma tra le due categorie non vi è un’esatta corrispondenza. Questi infatti incorporano un numero maggiore di norme, un campo ancor più vasto, ma che non comprendono parte dei “dinè mishpahàh” (diritto di famiglia) e dei “dinè ribit” (diritto relativo all’interesse).

    “Dinè nefashot” comprendono una parte del diritto penale, ma non comprendono quella parte del diritto penale che non preveda una punizione corporale.
    Un esempio che vada oltre questo sistema giuridico è dato dall’ordinanza di Usha che ha stabilito l’obbligo del padre di provvedere al mantenimento dei figli fino all’età di sei anni. Per il resto degli anni, essi sono sotto la cassa pubblica della Tzedaqàh. La continuazione del sostentamento, dopo i sei anni di età, è trattato nei “dinè tzedaqàh”. Si tratta quindi di un esempio nel quale i “Dinè mammonot” (diritto civile in generale), comportano delle implicazioni con i “dinè mishpahàh” (diritto di famiglia).
    (Shulchan ‘Aruch, Yoreh Dea 251,1; Even ha’ezer. 71,1)

    I “dinè mammonot” si rifanno al principio:

    המוציא מחבירו עליו הראיה


    Traduzione:
    “Chi intende togliere all’amico, a lui spetta la prova”
    Baba Kama 3,11

    La prova spetta all’accusa: chi ritiene di essere proprietario di qualcosa, indebitamente posseduta da un altro, a lui spetta la prova.

    e si estende in:

    אין הולכין בממון אחר הרוב

    Traduzione:
    “Nelle questioni monetarie non si va secondo la maggioranza”.
    (Baba Kama 27b)

    In tutte le altre controversie (non monetarie), il verdetto viene emesso in base alla maggioranza dei Giudici, mentre invece nel caso di contestazioni di tipo monetario, il verdetto viene emesso in base ad una vera ed inconfutabile prova.

    Nel caso di “Dinè nefashot” e, particolarmente, in caso di condanna a morte, si va secondo la maggioranza (dei Giudici) e con normative molto vincolanti.

    שפך דם האדם באדם דמו ישפך כי בצלם אלהים עשה את האדם


    Traduzione:
    “Chi versa il sangue dell’uomo, dall’uomo il suo sangue sarà versato perché ad immagine divina ha fatto l’uomo”. (Bereshit 9,6)

    L’uomo è צלם אלהים ovvero egli è l’immagine, il rappresentante del Giudice Supremo e ha dunque piena delega di applicare la pena di morte, nel caso in cui ci si renda colpevole di assassinio.
    La pena di morte non poteva però essere applicata con facilità.
    Questo procedimento giudiziario estremo, ha bisogno di prove concrete. Non sono sufficienti gli indizi, anche se sono molto logici e fortemente significativi. Oltre le prove, sono necessari due testimoni oculari che abbiano visto l’esecuzione dell’assassinio durante il suo svolgersi. Ma anche essendo presenti questi elementi difficili e determinanti, il Bet Din non ppteva ancora agire, nel caso non avesse precedentemente emesso un avvertimento all’imputato. L’omicidio premeditato consta infatti di azioni preliminari che alcuni testimoni possono aver visto o sentito (ad es. minacce) e rispetto alle quali abbiano avvertito le autorità competenti. Se il delinquente era stato molto abile a nascondere il suo odio premeditato, in maniera da non lasciare indizi evidenti, non avrebbe potuto ricevere l’avvertimento dal Tribunale, avvertimento che è elemento determinante ed indispensabile per emettere una condanna a morte. La mancanza di atti preliminari può essere intesa come assenza di premeditazione e quindi l’assassinio viene definito come omicidio involontario e per il trasgressore è prevista la detenzione nella città rifugio. Tale detenzione non ha però lo scopo di isolare forzatamente l’omicida involontario dalla società, ma di proteggerlo dal “goel dam”, il liberatore del sangue.
     
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    La ricompensa e la punizione


    Il discorso morale nel Tanakh pone l’accento principalmente sulla ricompensa per le opere buone e la punizione, come conseguenza naturale delle opere malvagie. Nel libro dei proverbi e nel resto dei libri sapienzali, la ricompensa è concepita come la conseguenza naturale dell’azione e non propriamente attraverso l’intervento divino.
    Ci sono nel Tanakh, tzadiqim esemplari ma, nonostante ciò, non esiste nella mentalità del Tanakh l’ideale del giusto che non abbia mai peccato.

    כי אדם אין צדיק בארץ אשר יעשה טוב ולא יחטא


    Traduzione:
    “Non c’è uomo giusto sulla terra, che faccia il bene e non pecchi”.
    (Qohelet 7,20)

    Una lista di azioni morali, presentate come esemplari, si possono osservare nelle lunghe confessioni di Yov (cap. 29-31), nei Tehilim 1,15, 24 etc, e nei rimproveri di Yehezqel (cap. 22)
     
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    L’Uguaglianza degli esseri umani


    L’uguaglianza si basa sul fatto che tutti gli essere umani, a qualunque ceto sociale appartengano, sono figli della stessa madre e dello stesso padre. Come dice Giobbe, tutti siamo stati formati allo stesso modo, nello stesso tipo di grembo materno e su questo principio egli basa la sua condotta verso i suoi servi e verso le classi deboli:

    אם אמאס משפט עבדי ואמתי ברבם עמדי
    ומה אעשה כי יקום אל וכי יפקד מה אשיבנו
    הלא בבטן עשני עשהו ויכננו ברחם אחד
    אם אמנע מחפץ דלים ועיני אלמנה אכלה
    ואכל פתי לבדי ולא אכל יתום ממנה


    Traduzione:
    “Se ho disprezzato la causa del mio servo e della mia serva nella loro contesa con me, cosa farò se si alzerà D-o [nel giudizio] quando mi esaminerà, cosa gli risponderò? Non è nel grembo che ha fatto me e ha fatto lui? Ci ha stabilito in un unico grembo. Se ho evitato di soddisfare i desideri dei bisognosi e se ho fatto attendere la vedova, se ho mangiato il mio pane da solo e non lo abbia mangiato anche l’orfano”.
    (Yov 31,13-17)

    Secondo le parole del profeta Malachì, tutti siamo figli dello stesso padre e pertanto creati dallo stesso Creatore:

    הלוא אב אחד לכלנו הלוא אל אחד בראנו

    Traduzione:
    “Non abbiamo forse un solo padre? Non ci ha forse creati un solo D-o?”
    (Malachì 2,10)

    Questi principi sono stati applicati nella Toràh, anche alle leggi dei servi, leggi che possono essere paragonate a quelle moderne dei lavoratori e sono addirittura superiori ad esse mentre, al contrario, nell’oriente antico erano normali la schiavitù e l’oppressione.
     
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    Il Diritto delle minoranze


    Alle norme morali è riservato un posto centrale nel Tanakh. In esso è sottolineato che gli obblighi morali valgono per tutti i popoli e al Popolo di Israel furono aggiunte altre norme, soprattutto di carattere cultuale.
    Il principio di questa parità è ben evidente nell’ordinamento sociale dello straniero che vive in seno allo Stato ebraico.
    La riforma giuridica dello Stato di Israel del 1980 ha emesso il verdetto di adottare il diritto ebraico come diritto nazionale:

    מתוך עקרון אהבת האדם ושוויונו, בא פסק הדין לדון בעמדתה של מורשת ישראל ויחסה כלפי מיעוט לאומי או דתי המתגורר בחסותו של שלטון יהודי

    Traduzione:
    “Nel principio dell’altruismo e dell’uguaglianza, la sentenza viene a discutere della posizione del patrimonio culturale di Israel e la sua relazione con la minoranza popolare o religiosa che risiede sotto la protezione del governo ebraico”. (Menachem Elon; HaMishpat ha’Ivri, pag. 1561)

    Nel linguaggio comune, גר (Gher) è colui che abita un paese straniero, un immigrato. Nel linguaggio legale, è invece uno straniero che entra a far parte del popolo di Israel e si sottomette alle sue leggi.

    Gli ebrei erano gherim in terra d’Egitto e anche coloro che venivano ad abitare la Terra di Israel erano definiti gherim.

    וכי יגור אתך גר בארצכם לא תונו אתו כאזרח מכם יהיה לכם הגר הגר אתכם ואהבת לו כמוך כי גרים הייתם בארץ מצרים:

    Traduzione:
    “Quando abiterà, nella vostra terra, con te, un gher, non lo ingannerai, sarà considerato un cittadino come voi il gher che abita con voi e amerai (desidererai) per lui come per te, perché gherim eravate nella terra d’Egitto”.
    (Waykrà. 19,33-34)

    וגר לא תונה ולא תלחצנו כי גרים הייתם בארץ מצרים כל אלמנה ויתום לא תענון אם ענה תענה אתו כי אם צעק יצעק אלי שמע אשמע צעקתו וחרה אפי והרגתי אתכם בחרב והיו נשיכם אלמנות ובניכם יתמים

    Traduzione:
    “Non ingannerai il gher e non lo opprimerai, perché eravate gherim in terra d’Egitto. Non angariate ogni orfano o vedova. Se lo opprimerai con angherie ed egli griderà forte a me Io ascolterò molto attentamente il suo grido, tale da accendersi la mia ira che vi ucciderò con la spada, le vostre donne saranno vedove e i vostri figli orfani.”
    (Shemot 22,20-23)

    Il גר תושב (Gher Toshav), secondo Rav Meir, è colui che si è impegnato a non praticare il culto straniero.
    I Saggi invece, affermano che è colui che ha accettato di osservare tutte le mizwot della legge noachide.

    Egli appartiene ai “חסידי אומות העולם” (hasidè ummot ha’olam) e anche se non è circonciso viene accettato davanti ad un Bet Din di tre rabbini.
    (Rambam, issurè bià 14,7)
    E’ colui che riconosce che le mizwot noachidi erano già in vigore ancor prima del Matan Toràh ed in forza di questo fatto egli vi si sottomette.
    Chi invece decide di abitare insieme al popolo di Israel per ottenere qualche vantaggio, è semplicemente considerato un saggio dei goym.
    Egli si chiama gher toshav (da “ישב = risiedere), perché è permesso al Bet Din di autorizzarlo a risiedere presso il popolo di Israel.
    Anche per gli Ishmaeliti vale lo statuto di gher toshav, poiché è noto che non sono idolatri.
    E’ una mizwàh far risiedere il gher toshav dove egli ritenga vi sia un buon posto per lui, soprattutto laddove possa trovare un buon lavoro.
    E’ proibito farlo risiedere in periferia: egli dovrà ottenere una buona residenza all’interno (בקרבך) delle città, tranne che a Gerusalemme, la quale è riservata al Popolo per ragioni di sacralità. Si pensi, ad esempio, alle tre “regalim”, durante le quali la città è particolarmente affollata, per l’arrivo di ebrei provenienti da tutto Eretz Israel per i festeggiamenti (ai quali il gher toshav non è obbligato).

    Altra motivazione sta nel fatto che, che risiedendo in periferia, potrebbe allearsi con il nemico ed attaccare la città.
    Egli dovrà abitare insieme con il popolo di Israel ma non potrà costruire città proprie.
    Dovrà essere aiutato, affinché trovi il posto migliore per lui, in buona salute e con una buona פרנסה (parnassàh: sostentamento).

    E’ obbligo per ogni ebreo aiutare il gher toshav “לחיותו” (affinché egli viva), in ogni situazione di degrado o pericolo, alla pari di un cittadino ebreo.

    Se è malato dovrà essere aiutato, affinché riceva le dovute cure, come è scritto:

    וכי-ימוך אחיך ומטה ידו עמך והחזקת בו גר ותושב וחי עמך


    Traduzione:
    “Se il tuo fratello si impoverirà e la sua forza verrà meno, chi è con te, lo sosterrai, straniero o risiedente che vive con te”.
    (Waykrà 25,35)

    E’ un comandamento procurargli le cure gratuitamente ed è permesso trasgredire lo Shabbath per far nascere i suoi figli.
    Secondo Ramban questo è un comandamento positivo (Sefer haMizwot, 16).

    Tutto ciò che non è kasher per l’ebreo ed è kasher per il gher toshav, potrà da questi essere ricevuto in regalo.

    Secondo la Toràh, al gher toshav è permesso consumare carne non kasher, come è scritto:

    לא תאכלו כל נבלה לגר אשר בשעריך תתננה ואכלה או מכר לנכרי


    Traduzione:
    “Non mangerete animali non kasher, li donerai al gher che sta nelle tue città e li mangerà, oppure la venderai al nokrì”
    (Devarim 14,21)

    Non è permesso quindi vendere al gher toshav ma si potrà vendere al commerciante straniero di passaggio.
    Quando si presenta l’occasione di vendere il prodotto della terra ad un commerciante straniero di passaggio e vi è anche un gher toshav che lo richieda, questi ha la precedenza e non si potrà vendere a lui il prodotto, ma dovrà riceverlo in dono.
    E’ permesso vendere beni immobili al gher toshav e ci si dovrà comportare con lui con rispetto e gentilezza, come nei confronti dell’ebreo.

    La tzedaqàh offerta dal gher toshav appartiene ai poveri di Israel, dato che egli trae il suo nutrimento da Israel e dato che l’ebreo ha degli obblighi verso di lui.
    (Rambam, melachim, 10,12).

    E’ proibito abusare economicamente del gher toshav, anche nel caso che si tratti di un servo fuggito dal suo padrone. Colui che ne abusa trasgredisce il principio “lo tonennu” ( non lo ingannerai):

    עמך ישב בקרבך במקום אשר יבחר באחד שעריך בטוב לו לא תוננו


    Traduzione:
    “Con te risiederà, vicino a te, nel posto che sceglierà all’interno di una delle tue città, in modo che egli sia soddisfatto, non lo ingannerai”.
    (Devarim 23,17)

    Chi trattiene il salario del gher toshav contravviene all’obbligo di “lo ta’ashok”:

    לא תעשק שכיר עני ואביון מאחיך או מגרך אשר בארצך בשעריך ביומו תתן שכרו ולא תבוא עליו השמש כי עני הוא ואליו הוא נשא את נפשו ולא יקרא עליך אל ה׳ והיה בך חטא

    Traduzione:
    “Non deprederai il salariato povero e il nullatenente dei tuoi fratelli o dei residenti stranieri che abitano nel tuo paese, all’interno delle tue città. In giornata gli darai il suo salario, prima che tramonti il sole, perché egli, essendo povero, aspetta questo per mantenersi. Che non gridi ad HaShem contro di te e ti sia attribuita una trasgressione”.
    (Devarim 24,14)

    Il Tribunale ebraico ha l’obbligo di costituire dei Giudici che abbiano l’incarico speciale di giudicare secondo le sette mizwot di Noah, in quanto il gher toshav appartiene ad un’altra giurisdizione e richiede un’adeguata competenza. E’ possibile che tali Giudici appartengano alla classe del gher toshav, oppure che siano individui nominati dal Tribunale ebraico, specializzati su questa differente legislazione.
    (Rambam, Melachim 10,11).

    La costituzione di un Tribunale con la competenza della legge noachide è un obbligo primario della classe del gher toshav e, solo nel caso che questa non abbia la sufficiente capacità e competenza, interverrà il Tribunale ebraico per aiutare a raggiungere tale scopo.
    Si tratta di un concetto estremamente rivoluzionario, nell’ambito giuridico, che non trova riscontro neanche oggi, come allora, in nessun altro sistema giuridico al mondo. Nessuna nazione e nessuno stato permetterebbero, nei propri domini, la presenza di forme di giudizio, gestite da giudici e tribunali, altri che quelli istituzionali del paese sovrano.

    Nel caso vi sia una contesa fra un ebreo ed un gher toshav, il Tribunale di competenza è sempre quello del gher toshav. (Rambam, Melachim 10,12).

    Il servo ebreo non può vendersi al gher toshav, egli può vendersi ad un altro ebreo o al גר צדק (gher tzedeq), come è scritto:

    וכי ימוך אחיך עמך ונמכר לך לא תעבד בו עבדת עבד


    Traduzione:
    “Se il tuo fratello che è con te si impoverisce e si venderà a te, non gli farai fare lavori da servo”.
    (Waykrà 25,39)

    L’anno sabbatico non è in vigore per il gher toshav come non lo è per i goym in generale.

    מקץ שבע שנים תעשה שמטה וזה דבר השמטה שמוט כל בעל משה ידו אשר ישה ברעהו לא יגש את רעהו ואת אחיו כי קרא שמטה לה׳ את הנכרי תגש ואשר יהיה לך את אחיך תשמט ידך

    Traduzione:
    Alla fine di sette anni farai shemitàh. Questa è la shemitàh:
    ogni creditore che denuncia il pagamento del debito al suo prossimo, che vi rinunci e non obblighi il suo prossimo, perché egli è come suo fratello, dato che fu proclamato l’anno della shemità. Il Nokrì potrai obbligarlo, ma dovrai rinunciare a tutti gli obblighi verso il tuo fratello.
    (Devarim 15,1-3)

    Il gher toshav non ha l’obbligo di mangiare il Qorban Pesah ed è dunque proibito offrirglielo come è scritto:

    תושב ושכיר לא יאכל בו


    Traduzione:
    “Il residente e il commerciante non lo mangeranno”
    (Shemot 12,45)

    L’avvertimento di non consumare il Pesah è rivolto all’ebreo, affinché questi non inviti il gher a mangiarlo.
    Tale avvertimento non è affatto rivolto al gher toshav e se egli vuole mangiarlo, dovrà farsi circoncidere:

    וכי יגור אתך גר ועשה פסח לה׳ המול לו כל זכר ואז יקרב לעשתו והיה כאזרח הארץ


    Traduzione:
    “Quando uno straniero abiterà con te e farà il Pesah ad HaShem si circonciderà ogni maschio ed allora si avvicinerà a farlo e sarà considerato come un cittadino del Paese”.
    (Shemot 12,48)

    Divenendo così un “גר צדק” (Gher Tzedeq) e acquistando il diritto di cittadinanza.

    Il Din del Gher Toshav è a tutti gli effetti come il din del nokrì.
    Secondo l’halachàh, il gher toshav non ha l’obbligo di osservare lo Shabbat.
     
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    L’orfano e la vedova


    La Toràh giudica con severità l’umiliazione ed il maltrattamento dei deboli e, in particolare modo, degli orfani e delle vedove, i quali non hanno l’appoggio familiare che garantisca le loro difese. Infatti, Essa si esprime a tale riguardo con le seguenti parole:

    כל אלמנה ויתום לא תענון אם ענה תענה אתו כי אם צעק יצעק אלי שמע אשמע צעקתו וחרה אפי והרגתי אתכם בחרב והיו נשיכם אלמנות ובניכם יתמים

    Traduzione:
    “Non angariate ogni orfano o vedova. Se lo opprimerai con angherie ed egli griderà forte a Me, Io ascolterò molto attentamente il suo grido, che la mia ira si accenderà in maniera tale che vi ucciderò con la spada, le vostre donne saranno vedove e i vostri figli orfani”.
    (Shemot 22, 20-23)

    E ancora il cantore di Israel sottolinea questa centralità ove l’orfano e la vedova, insieme con il gher, sono quelli che hanno bisogno di maggior assistenza, perché facili da ingannare. Opprimere il popolo non significa opprimere il potente o il ricco, ma opprimere le categorie più deboli: sono esse la vera essenza del popolo:

    עמך ה׳ ידכאו ונחלתך יענו
    אלמנה וגר יהרגו ויתומים ירצחו


    Traduzione:
    “Opprimono Il tuo popolo, HaShem, e la Tua eredità angariano.
    La vedova e il gher uccidono e gli orfani assassinano”.
    (Tehillim 94,5-6)

    La Toràh avverte di non angariare la vedova, perché l’animo delle vedove è umile e depresso, anche se vivono una vita agiata. A loro bisogna rivolgersi con dolcezza, comprensione ed onore. E’ proibito dare alla vedova un lavoro particolarmente duro, perché ella ne potrebbe soffrire e il datore di lavoro potrebbe incorrere nella violazione del comandamento di “לא תענון”.
    Bisogna anche fare molta attenzione a non ferire l’animo della vedova, evitando di parlare di argomenti troppo delicati.
    E’ un comandamento proteggere i beni della vedova, ancor più dei beni propri.
    E’ proibito prendere pegno da una vedova e chi trasgredisce e l’avesse preso per errore, dovrà restituirlo immediatamente. Se non lo farà, le autorità provvederanno a farlo restituire con forza. Se il pegno è andato perduto o distrutto, il responsabile sarà punito con le frustate:

    א אלמנה--בין שהיא ענייה בין שהיא עשירה, אין ממשכנין אותה, לא בשעת הלוואה ולא שלא בשעת הלוואה, ולא על פי בית דין: שנאמר "ולא תחבול, בגד אלמנה" (דברים כד,יז). ואם חבל, מחזירין ממנו בעל כורחו. ואם תודה לו, תשלם; ואם תכפור, תישבע. אבד המשכון, או נשרף, קודם שיחזיר--לוקה.

    Traduzione:
    “Dalla vedova, sia povera che ricca non si prende pegno, né quando prende un prestito, né in altra occasione e nemmeno secondo una decisione del Tribunale. Come fu detto: ”Non prenderai in pegno l’abito della vedova” (Devarim 24,17) e se fu preso un pegno, lo si farà restituire contro la sua volontà. Se invece lei è d’accordo con lui, allora gli pagherà il debito, se invece nega, lei giurerà. Se si è perso il pegno o si è bruciato prima di essere restituito, sarà punito con le frustate.
    (Rambam, Hilchot Malvèh 3,1)

    La Vedova non eredita dal marito, essa però riceve il sussidio dagli eredi fino a quando non si risposa e, se ha figli, sono questi gli eredi. Se non ha figli, possono essere i genitori o i parenti più stretti. Nel caso che gli eredi si rifiutassero di pagare il sussidio, sarà un verdetto del Bet Din ad obbligarli al pagamento.

    Il Bet Din funge da padre degli orfani (Ghittin 37a) e i Giudici hanno la delega di gestire i loro beni.
    Essi nominano un tutore, detto “apotropos”, per l’orfano, fino all’età adulta. Egli è considerato come suo padre e gli altri familiari non hanno la facoltà di opporsi, né di vantare alcuna pretesa su di lui.

    L’apotropos viene nominato qualora il Bet Din non possa occuparsi direttamente degli orfani. Nel caso in cui invece possa farsene carico, è considerato più onorevole che il Bet Din stesso se ne occupi direttamente, come ad esempio, nel caso che gli orfani possiedano denaro e vogliano investirlo. In tal caso sarà il Bet Din ad aiutarli a tale scopo. Qualora il padre dell’orfano, prima del suo decesso, abbia disposto per il figlio un apotropos e questo non adempia ai suoi obblighi correttamente, il Bet Din non potrà esimersi dall’intervenire, assumendo la patria potestà, nonostante le disposizioni diversamente stabilite dal genitore . (Ghittin 52a)
    Il Bet Din ha anche il potere di decidere di sostituire l’apotropos, qualora ritenga di aver trovato un soggetto più adatto e di maggiori capacità.
    (Shut haRadbazh (R. David Ben Shlomo Ibn Zimrah) parte 3, par. 891)

    L’orfano non ha l’obbligo della tzedaqàh, anche nel caso sia molto agiato.

    אין פוסקין צדקה על היתומים, ואפילו לפדיון שבויים, ואף על פי שיש להם ממון הרבה; ואם פסק הדיין עליהם כדי לשום להן שם, מותר.

    Traduzione:
    “Non vi è imposizione di Tzedaqàh agli orfani, persino nel riscatto dei prigionieri e anche se hanno molto denaro e se il Giudice ha emesso un verdetto in favore (in onore) del loro nome, allora ciò è permesso”.
    (Rambam, Mishnèh Torah, Matanot ‘Aniim 7,12)

    Il principio si basa sul fatto che la tzedaqàh non costituisce un obbligo secondo percentuale e l’orfano, considerando lo stato emotivo di chi è rimasto solo e la sua inesperienza e dato l’elevato numero di indigenti nella popolazione, potrebbe correre il rischio di esagerare, fino al punto di rimanere senza risorse. (Rashì Ghittin 52a).

    Per ogni obbligo, per il quale non si sia stabilita una somma fissa o una percentuale, vige l’esenzione per l’orfano, in base al suddetto principio.
     
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