Morte di un ebreo

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  1. Ayalon
     
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    אילון

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    insistenza, in perfetto accordo. Ma poiché la loro testimonianza è di accusa, è interessata e passionale, è una testimonianza indiretta e tardiva, è impossibile, onestamente parlando, di accettarla senza riserve.
    Ma è poi giusto dire « i quattro»? Questo numero ha un significato soltanto se si ha il diritto di considerare le quattro testimonianze del tutto indipendenti l'una dall'altra. Chi oserebbe affermarlo? L'opinione contraria s'appoggia su probabilità assai più forti. È molto probabile che Matteo, Luca, e lo stesso Giovanni abbiano conosciuto il racconto di Marco che è il più antico e al quale si sono più o meno ispirati. Ciò salta agli occhi per quanto riguarda il primo Vangelo: Matteo segue quasi letteralmente il testo di Marco, con alcuni ritocchi ed alcune aggiunte tendenti, il più delle volte, ad aggravare le responsabilità ebraiche o a dimostrare il compimento delle Scritture (ebraiche). Il P. Lagrange riconosce la dipendenza del Matteo greco (il solo che conosciamo) da Marco e che « l'accordo dei due evangelisti è al massimo nel racconto della Passione ». Aggiunge: «È verosimile che un racconto della Passione sia stato redatto molto per tempo a Gerusalemme e che abbia fatto testo». Pura ipotesi, che non ha alcun appoggio. Matteo ha seguito Marco molto da vicino: ecco il fatto. Per quanto riguarda Luca e Giovanni, tutto denota che hanno egualmente conosciuto il testo marciano; se essi lo han seguito meno fedelmente, meno esclusivamente, se hanno attinto anche ad altre fonti, non sono per questo meno tributari di Marco. Dopo queste constatazioni, l'accordo dei quattro evangelisti colpisce meno fortemente. Volendolo esprimere in cifre, potremmo dire 4 = 1 + 1/20 + 1/2 + 1/2, non molto di più.
    L'accordo non esiste che sul tema fondamentale. Partendo dal racconto di Marco ognuno dei quattro evangelisti ha seguito la propria natura, le proprie tendenze, le proprie preoccupazioni e le proprie informazioni. Ne derivano divergenze molteplici, come già accennato, e non sembrano tutte di secondaria o minima importanza.
    Esempio: la folla, questa folla indispensabile per formulare l'accusa al popolo ebraico tutto quanto, è messa in evidenza da Marco, XV, 8, da Matteo, XXVII, 17, da Luca, XXIII, 13; è totalmente assente in Giovanni, dove entrano in scena solo «i sommi sacerdoti e le guardie» (XIX, 6); assenza imbarazzante per la tesi della responsabilità collettiva. L'apologetica non ne parlerà.

    Altro esempio: Marco, XV, 6, Matteo, XXVII, 15, Giovanni, XVIII, 39 ricordano esplicitamente l'usanza secondo la quale, ad ogni festa dì.Pasqua, il governatore romano doveva accordare agli Ebrei la liberazione d'un prigioniero. Si è sorpresi di vedere come Luca, dopo aver assunto le 'proprie informazioni, non abbia creduto opportuno di ricordarla; la sorpresa è stata provata fin dai tempi più remoti, da certi copisti dei manoscritti, che han preso essi stessi l'iniziativa di colmare la lacuna introducendo nel testo un versetto (XXIII, 17), che vi risulta evidentemente interpolato.
    Secondo Marco, XVI, 15 con Matteo, XXVII, 26, dopo aver liberato Barabba, Pilato fa flagellare Gesù, com'era d'uso nei riguardi dei condannati al supplizio della croce: la flagellazione appare dunque qui come il supplizio che precede la crocifissione. Secondo Luca, XXIII, 16, Pilato propone agli Ebrei di liberare Gesù dopo averlo fatto flagellare, ma nel seguito del racconto, non appare che Gesù lo sia stato. Secondo Giovanni, XIX, 1, Pilato ha eseguito ciò che nel terzo Vangelo egli aveva proposto: egli ha fatto flagellare Gesù nella speranza che tale castigo fosse sufficiente a disarmare l'ostilità degli « Ebrei », cioè dei sommi sacerdoti e delle loro guardie. La flagellazione nel Vangelo di Giovanni è dunque indipendente dalla crocifissione; su tale punto l'opposizione è chiara, irriducibile: un fatto esclude l'altro.
    Così pure è irriducibile l'opposizione fra le varie testimonianze circa l'ora della Passione: il ritmo di essa sarebbe stato secondo Marco, XV, 25, singolarmente rapido, perché quando avvenne la Crocifissione era «l'ora terza» (= le nove del mattino); meno rapido secondo Giovanni, XIX, 14, perché « era circa l'ora sesta (= mezzogiorno) » quando fu eseguito il supplizio.
    Matteo, XXVIII, 24-25 è il solo a sapere e a dire che il procuratore romano Pilato si è lavate le mani, solennemente, secondo l'usanza ebraica, per scaricarsi della responsabilità del sangue innocente che doveva versare. Solo egualmente a rilevare che «tutto il popolo gridò: "Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli! " ». Marco, Luca, Giovanni non sanno nulla, non dicono nulla; né della famosa lavanda delle mani, né del tremendo grido della folla. (Torneremo su questo punto, ma fin da ora constatiamo che Giustino Martire, quando scrive sull'argomento verso la metà del II secolo, non fa nessuna allusione a quegli episodi nella sua polemica antiebraica, il che è per lo meno strano, se egli ha utilizzato, come generalmente si ammette, il primo Vangelo).
    Matteo, XXVII, 19, è parimenti il solo a sapere che Pilato, mentre sedeva in tribunale, aveva ricevuto un messaggio dalla moglie in favore di Gesù. Per lo meno egli è il solo degli evangelisti
    canonici, perché gli apocrifi riprendono l'episodio, lo completano e ci fanno sapere che la moglie di Pilato si chiamava Pròcula e che era una prosèlita ebrea, fattasi poi cristiana (la Chiesa Greca l'annovera fra i santi). Ma, ammette L. Cl. Fillion, « il libro apocrifo degli Acta Pilati (o Vangelo di Nicodemo) non è per noi un testo autorevole ». Speriamo che sia cosi.

    Secondo Marco, XV, 17, Barabba avrebbe partecipato ad una sommossa nel corso della quale vi era stata l'uccisione d'un uomo. Matteo, XXVII, 16, dice che era « un prigioniero famoso »; Luca, XXIII, 19, rinforzando Marco, lo accusa di sedizione e di omicidio. Ecco dunque il Barabba dei Sinottici: un noto agitatore, «una specie di eroe nazionale », dice il P. Lagrange. Ma resta il quarto Vangelo, Giovanni, XVIII, 40: «E Barabba era un brigante ». Restano anche gli apocrifi, gli Acta Pilati: «lo ho in prigione (dice Pilato) un famoso assassino che si chiama Barabba ». Inutile dire a chi vanno le preferenze dei commentatori zelanti: «Tutta la storia d'Israele, insegna il gruppo protestante della Brigade Missionnaire, non è che la ripetizione di quello scandalo, l'adorazione del vitello d'oro, scandalo che raggiunge il suo parossismo quando il popolo ebraico, rinnegando il figlio della propria razza, il suo Messia, il suo Dio, gli antepone un brigante, Barabba ».

    Daniel Rops presenta fra virgolette, come citazione testuale della Scrittura, questo miscuglio di testi canonici ed apocrifi: «Ora avvenne che in prigione ci fosse un famoso bandito, di nome Barabba, colpevole di assassinio nel corso di una rivolta».

    Henri Guillemin è un letterato, non scrive storia sacra; può permettersi ogni cosa: «Era un bandito, Barabba, un assassino, un vero terrore ».
    La gradazione suggestiva, osservata nella prima fase del processo, si riscontra anche nella seguente. gradazione già molto sensibile da Marco a Matteo, XXVII, 24-25, secondo il quale Pilato, lavandosi le mani, si libera dalla sua responsabilità e « il popolo ebraico» per contro l'assume, quasi compiaciuto. In Luca, per ben tre volte, Pilato dichiara Gesù innocente e manifesta l'intenzione di lasciarlo libero (XXIII, 14-16, 20, 22). Giovanni va ancora oltre; non esita a prolungare lo strano andirivieni del procuratore dall'interno del pretorio all'esterno; dopo l'intermezzo della flagellazione, arriva la pietosa esibizione: «Ecco l'uomo! »; nuovo dialogo tra Pilato e Gesù; nuovo tentativo del procuratore per liberare Gesù; ricatto degli Ebrei: «Se lo liberi, non sei amico di Cesare» (Giovanni, XIX, 12); il tentennante procuratore cede finalmente: «Allora lo consegnò loro perché fosse crocifisso »,

    Una gara vera e propria per rendere gli Ebrei maggiormente odiosi. Ma per quanto vario, abbondante e patetico sia il redattore del quarto Vangelo, la palma va data a Matteo - o almeno al redattore del versetto XXVII, 25: con mano sicura egli ha lanciato la freccia avvelenata, che non potrà più essere estratta.


    Che cosa non si potrebbe dire, che cosa non è stato detto, quando ci si ponga sul terreno della verosimiglianza storica? Ma è un terreno infido, lo so: il vero «può talvolta non essere verosimile ». Per questo mi è facile constatare che, tanto in Matteo come in Giovanni, il personaggio di Ponzio Pilato va oltre i limiti della verosimiglianza: «giudice da commedia» lo definisce A. Loisy.
    Inverosimile questo onnipotente procuratore che, nel suo imbarazzo, chiede agli Ebrei, suoi sudditi, ai sommi sacerdoti, sue creature, che cosa può fare del prigioniero Gesù (Marco, XV, 12; Matteo, XXVII, 22).

    Inverosimile questo massacratore di Ebrei e di Samaritani, colto ad un tratto da scrupoli verso un Ebreo della Galilea, sospetto di agitazione messìanica, che va a mendicare per lui la pietà degli Ebrei: «Che cosa ha fatto dunque di male? » (Marco, XV, 14; Matteo, XXVII, 23).

    Inverosimile questo funzionario romano che, per rifiutare ogni responsabilità - senza dubbio davanti al Dio d'Israele, ricorre al rito simbolico ebraico della lavanda delle mani (Matteo, XXVII, 24).

    Inverosimile questo astuto uomo politico che, proprio in quel giorno, si decide a prendere le difese di un povero diavolo di profeta contro l'oligarchia locale, su cui la tradizione romana suole appoggiarsi e sulla quale infatti egli si appoggia: è con la collaborazione di Anna e Caifa che un Pilato governa la Giudea.
    Inverosimile questo governatore energico, pronto a soffocare nel sangue ogni rivolta, o anche solo una minaccia di rivolta, che, per compiacere alla folla degli Ebrei, consente a mettere in libertà un agitatore « famoso », incarcerato sotto l'accusa di sedizione e di omicidio (e poi, perché la liberazione di Barabba portava di conseguenza che Gesù dovesse essere crocifisso?).

    Inverosimile questo magistrato che stabilisce la legge nella sua provincia e che sembra ignorarla, quando dice ai sommi sacerdoti, suoi interlocutori: «Prendetelo voi e crocifiggetelo» (Giovanni, XIX, 6).

    Inverosimile questo pagano scettico che rimane impressionato dall'accusa che gli Ebrei muovono a Gesù di « essersi fatto Figlio di Dio» (Giovanni, XIX, 7-8); l'accusa, intesa nel senso cristiano, è incomprensibile a tutta prima sia ad un pagano che ad un Ebreo.

    Inverosimile questa giustizia romana, sempre così formalista, che, nel caso del processo a Gesù, sembra aver rinunciato a tutte le forme usuali, a tutte le regole della sua procedura.

    Ma più inverosimile ancora, mille volte più inverosimile, questa folla ebraica, «tutto quanto il popolo» ebraico, questo popolo pio e patriota, invaso all'improvviso da furore contro Gesù, al punto da andare da Pilato, l'odiato Romano, per esigere da lui che il profeta tanto ammirato poco prima, un uomo del popolo, uno dei suoi, sia messo in croce secondo l'usanza romana, da soldati romani.

    Per fare un paragone: riuscite ad immaginare la folla dei francesi a Parigi, nel 1942, davanti al Comando tedesco, mentre urla « Al patibolo, al patibolo! » affinché il Generale von Stiilpnagel dia l'ordine di giustiziare qualche comunista noto, Gabriel Péri, per esempio? Oh certo, si sarebbero trovate alcune centinaia, forse alcune migliaia di francesi per un'operazione del genere ... Sappiamo quali francesi, ma tutto il popolo di Parigi, ma tutto il popolo francese, e laggiù, davanti a Ponzio Pilato, « tutto il popolo» ebraico! Evvia ...

    Spingiamoci oltre. Consideriamo più da vicino i nostri testi, soprattutto i Sinottici, dei quali ho già illustrato la parte che essi attribuiscono alla folla, e, tra essi, specialmente Matteo; abbiamo visto l'uso - l'abuso - che la tradizione e la letteratura cristiana hanno fatto, continuano a fare del sinistro versetto XXVII, 25. Ad ogni passo si urta contro la testimonianza d'una verità storica dubbia; tutto cospira a risvegliare la diffidenza.

    L'usanza di liberare un prigioniero ad ogni festa di Pasqua, quello voluto dalla folla?

    All'infuori che nei Vangeli - di Marco, Matteo e Giovanninon vi si fa allusione da nessun altra parte. Non negli scrittori ebrei, neanche nei numerosi lavori di Giuseppe Flavio, sempre abbondanti nei particolari dei fatti e delle usanze. È da rilevare che, dei tre evangelisti sinottici, Luca, considerato il miglior storico (relativamente), non ne fa menzione; il versetto XXII, 17 è interpolato, come abbiamo detto. L'imbarazzo di Marco e Matteo, quando ne parlano, si rivela nella stessa incertezza della redazione e dà l'impressione d'un'aggiunta maldestra.

    Marco, XV, 6-8: (nei versetti precedenti si è parlato del Sinedrio e dei sommi sacerdoti) «Per la festa egli era solito rilasciare un carcerato a loro richiesta. Un tale chiamato Barabba si trovava in carcere ... La folla, accorsa, cominciò a chiedere ciò che sempre egli le concedeva».

    Matteo, XXVII, 15-17: «Il governatore era solito, per ciascuna festa di Pasqua, rilasciare al popolo un prigioniero, a loro scelta. Avevano in quel tempo un prigioniero famoso, detto Barabba. Quindi, mentre si trovavano riuniti, Pilato disse loro ... ».
    Inutile inoltrarci nell'interminabile (e vana) controversia d'ordine giuridico per saper se Pilato si è valso dell' abolitio privata o dell'indulgentia; gli uni, come il P. Lagrange propendono per l'abotitio, altri per l'indulgentia, ma nessuno può stabilire con certezza se il procuratore della Giudea disponesse allora di quei diritti sovrani.

    In appoggio alle narrazioni evangeliche, s'invoca oggi soprattutto un papiro greco-egiziano che risale agli anni 86-88 e che è perciò abbastanza vicino alla Passione. Si tratta del processo verbale di un'udienza di C. Settimio Vegeto, prefetto di Egitto, nel corso della quale egli dice ad un tale di nome Fibione: «Tu meriti di essere flagellato, ma ti faccio grazia in favore della folla ». «È una sentenza piuttosto enigmatica », osserva il P. Lagrange « ma la remissione della pena per compiacere alla folla sembra cosa sicura». Si, l'analogia è abbastanza impressionante, almeno apparentemente. Ma nulla indica, in questo caso, se si tratta di un'usanza, di un diritto riconosciuto della folla, d'un diritto tale per cui il magistrato romano possa vedersi costretto a liberare suo malgrado un prigioniero incolpato di sommossa e di omicidio. Esiste una gran differenza tra questo Fibione dei papiri grecoegiziani e il Barabba dei Vangeli.

    Barabba?

    È tempo di far comparire questo illustre sconosciuto, agitatore famoso secondo i Sinottici, brigante secondo il quarto Vangelo; «infame brigante e assassino », rincara una tradizione secolare. « Infame », non ne sappiamo niente. Ma, ancor più strano di quanto si pensi, personaggio avviluppato di un tale mistero, che vien da chiedersi se egli sia mai esistito.

    Quanti, fra gli stessi lettori più assidui della Bibbia, conoscono questo fatto curioso (coincidenza che rende perplessi) che Barabba, secondo l'evangelista Matteo, o almeno secondo diversi manoscritti di Matteo, si chiamava anche Gesù? «Chi dei due volete che vi rilasci? Gesù Barabba o Gesù detto il Cristo? » (Matteo, XXVII, 17).

    Senza avere l'ardire d'introdurre nel testo evangelico la dizione «Gesù Barabba », il P. Lagrange non può esimersi dal credere alla sua autenticità. « Non è possibile credere », egli scrive, «che una lezione cosi particolare sia dovuta all'errore di un copista: o il nome è stato introdotto nei manoscritti di Matteo dagli apocrifi, o è autentico». Fin dalla prima metà del III secolo, Origene si meravigliava di leggere in numerosi manoscritti « Gesù Barabba» e formulava l'ipotesi che si trattasse forse di un'aggiunta in mala fede. Ma l'ipotesi sembra senza fondamento e vale piuttosto per il caso della soppressione. Resta dunque l'autenticità.

    Ma questo non è tutto. Lo stesso nome di Barabba presenta una strana risonanza. Talvolta viene scritto Bar-Rabba che si modifica in certi autori in Bar-Rabban e significa «figlio del Rabbi », «figlio del maestro ». Ma questa trascrizione arbitraria, che si appoggia soltanto ad un'allusione di S. Girolamo al Vangelo (apocrifo) degli Ebrei 45, ha soprattutto il vantaggio di evitare la trascrizione e la traduzione normali (anch'esse imbarazzanti). Infatti Barabbas o Barabba - figlio di Abba - può portare anche al significato di figlio del Padre, Abba essendo impiegato sia come nome proprio, sia come comune con significato di padre. Il nome di Bar-Abba sembra essere stato abbastanza frequente tra gli Ebrei. Il che non impedisce, nel caso attuale, che il suo apparire, col significato che evoca inevitabilmente, sia ancora una coincidenza che sorprende e che turba. Come! Quest'uomo di cui la folla ebraica reclama a gran voce la liberazione, quest'uomo si chiamava, secondo il primo Vangelo (forse anche, azzardiamo l'ipotesi secondo quello di Marco), quest'uomo, ripeto, si chiamava «Gesù, figlio del Padre»!

    Lascio immaginare tutte le congetture, tutte le teorie, più o meno ingegnose (e avventurose) che sono state escogitate, e continuano ad esserlo, per una tale coincidenza. Esse non sono, né possono essere altro, che un passatempo cerebrale e non meritano la nostra attenzione. Ci limiteremo a constatare la stranezza del mistero nel quale siamo avvolti; ciò è dovuto verosimilmente al fatto che la tradizione cristiana ha dovuto assai presto sottostare alle esigenze della catechesi, dell'apologetica e della polemica antiebraica; ne deriva una mescolanza di notizie, in cui, per mancanza di altre fonti, la verità storica, per quanto riguarda la Passione, è assolutamente irraggiungibile. Ma perché dovrei tacere il sospetto che, quasi mio malgrado, s'impone alla mia mente ed al mio cuore lasciandomi intravedere (quasi un muro antico che affiori in uno scavo) qualche arcaica tradizione secondo la quale era proprio Gesù, il vero, l'unico del quale la moltitudine ebraica implorava ansiosamente la grazia?

    Questo fuggitivo bagliore non ha valore forse che per me solo; non mi faccio nessuna illusione a questo proposito e mi astengo dall'attribuirgli un potere illuminante che non possiede. Tuttavia lo preferisco ancora al meccanismo complicato e laborioso della spiegazione tentata da qualcuno - tra cui S. Reinach e A. Loisy - spiegazione tendenziosa quasi quanto la narrazione evangelica di cui pretende dare la chiave. Si tratta dell'accostamento che da tempo si è fatto, fra l'episodio del Barabba dei Vangeli e la storia del povero pazzo, Karabas, raccontata da Filone, In Flaccum, VI: «Vi era in Alessandria un pazzo che si chiamava Karabas ... Si trascinò questo disgraziato alla palestra e là venne fatto salire sopra un palco ben alto perché tutti potessero vederlo. A guisa di corona gli misero sul capo un cesto sfondato e sulle spalle, come mantello, un ruvido tappeto; poi un tale, vedendo un giunco lungo la strada, lo strappò e glielo mise in mano a guisa di scettro. Dopo averlo cosi decorato con le insegne della regalità, come se fosse un buffone da teatro, alcuni giovani coi bastoni in ispalla formarono intorno a lui la guardia del corpo, mentre altri venivano ad inchinarsi davanti a lui, a chiedergli giustizia, a consultarlo sugli affari pubblici ». Scena di derisione, organizzata dai Greci per beffeggiare il re ebreo Agrippa allora di passaggio per Alessandria. La conclusione che se ne vuole trarre, piuttosto audace, sarebbe che Karabas = Barabba, che Gesù sarebbe stato trattato da Pilato come un «Barabba », cioè come un re da commedia, e che il racconto evangelico sarebbe una semplice imitazione di quel fatto anteriore; il rito sarebbe diventato mito.

    I Romani hanno trattato Gesù come un re da commedia, ciò è indiscutibile; esiste perciò una parentela visibile tra i racconti evangelici e quello di Filone, come con altri che ricordano simili mascherate, i Saci presso i Persiani, i Saturnali a Roma. Ma tutto questo non significa che Karabas equivalga a Barabba né che Barabba impersoni un re da commedia.

    E che dire della ben nota scena che oppone alla lavanda delle mani di Pilato il grido di tutto «il popolo ebraico»: «Il suo sangue ricada su noi e sui nostri figli »?

    Ne abbiamo già parlato, ma non abbastanza se pensiamo a tutto il male che ne è derivato.
    Quei versetti troppo celebri, troppo ben concepiti per colpire l'immaginazione popolare, si trovano in Matteo, XXVII, 24-25, in Matteo soltanto, esc1usi Marco, « l'inteprete di Pietro », Luca, « il più storico» degli evangelisti secondo il P. Lagrange, e Giovanni il cui racconto della Passione s'ispira, da quanto ci viene assicurato, a ricordi personali. Per questo episodio, come per quello del messaggio inviato a Pilato dalla moglie, Matteo si trova collegato solo ai Vangeli apocrifi; ha diritto di essere accettato come questi o di essere rifiutato. Come spiegare il silenzio degli altri evangelisti? Non abbiamo diritto di ripetere a questo proposito ciò che abbiamo detto in precedenza del bacio di Giuda? Non è lecito credere che se avvenimenti come quelli, in un giorno come quello, avessero avuto luogo realmente, proprio realmente, essi si sarebbero profondamente impressi nella memoria di tutti? E il loro ricordo si sarebbe imposto ad ogni narratore?

    Abbiamo sottolineato già prima l'inverosimiglianza del gesto di Pilato. Duplice inverosimiglianza, non solo per la strana preoccupazione di volersi scaricare della propria 'responsabilità, ma per il ricorso ancora più strano ad un rito essenzialmente ebraico. Che cosa si deve pensare di questo procuratore romano che si esprime e si comporta come un sacrificatore o un rabbi ebreo, come se l'Antico Testamento gli fosse familiare, così come lo era all'evangelista Matteo?
    Deuteronomio, XXI (espiazione di un'uccisione il cui autore è ignoto): «Tutti gli anziani della città più vicina... si laveranno le mani sulla giovenca a cui sarà stata spezzata la nuca nel torrente. Poi diranno: Le nostre mani non hanno sparso questo sangue... Perdona al tuo popolo, Signore ... non permettere che sangue innocente sia versato in mezzo al tuo popolo».
    Non manca che la giovenca. «lo sono innocente di questo sangue », dice Pilato lavandosi le mani.
    « Sono innocente ... del sangue di Abner figlio di Der» dice il re Davide (II Samuele, III, 28). E aggiunge: «Che il suo sangue ricada sulla testa di Ioab e su tutta la casa di suo padre (29).
    « Lavarsi le mani nell'innocenza» è una formula tipicamente ebraica che si ritrova nei Salmi, XXVI, 6; LXXIII, 13, cosi come la replica: «Il suo sangue ricada ... ».
    « Davide gridò a lui: "Il tuo sangue ricada sul tuo capo" (II Samuele, I, 16). " ... La colpa cada su di me e sulla casa di mio padre" (II Samuele, XIV, 9). "Il mio sangue sugli abitanti della Caldea! " dice Gerusalemme» (Geremia, LI, 35).
    Ecco i testi che hanno ispirato l'evangelista che, a parere unanime, è il più imbevuto dell' Antico Testamento, i testi dai quali sono derivati i versetti XXVII, 24-25.

    Invano il P. Lagrange, per dissipare la sua visibile preoccupazione, afferma che i pagani - Greci e Romani - conoscevano anche queste proteste d'innocenza: essi conoscevano la purificazione delle mani dopo un assassinio, ciò che non è affatto la stessa cosa. Onestamente il colto esegeta cita Origene il quale con una grande franchezza (non poco imbarazzante) ammette che « Pilato ha seguito un'usanza ebraica, non ha agito, cosi facendo, alla maniera romana ». Segue un tentativo di spiegazione che rivela un po' d'imbarazzo: «Origene aveva ragione di dire che un gesto simile era assolutamente contrario alla procedura dei tribunali romani nei quali il magistrato assumeva la responsabilità dei suoi atti ». Chiara ammissione. «Pilato ha creduto di potersi permettere ciò che il suo terrore superstizioso (?) gli suggeriva, non certo per conformarsi alle usanze degli Ebrei che egli disprezzava, ma perché essi dovevano capire facilmente un atto simbolico cosi chiaro, sperando così che essi venissero in aiuto alla sua coscienza turbata e prendessero su di sé ogni responsabilità. Qui forma e sostanza sono meno chiare. Questa diagnosi da psichiatra non mi dice nulla che valga.

    Ma io mi fermo sulla constatazione che il gesto di Pilato era «assolutamente contrario alla procedura dei tribunali romani »; mi basta e mi dà il diritto di conc1udere che, secondo ogni verosimiglianza, quel gesto non fu mai compiuto. Tutta quella messa in scena è degna degli apocrifi, nei quali infatti la ritroviamo spinta fino all'assurdo.

    La replica degli Ebrei « Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli» è meno paradossale certamente, essa si ricollega infatti alle antiche tradizioni e formule ebraiche. Essa rimane pur sempre inverosimile per la sua stessa atrocità e per il furore che vuole esprimere. « Vi sono esempi di giuramento », dice il P. Lagrange, sul capo delle persone più care; ma è cosa ben diversa sollecitare una condanna che coinvolge i propri figli. Se ne troveranno degli esempi? Questo episodio si può comprendere soltanto se si pensa che gli Ebrei erano persuasi che Gesù avesse bestemmiato proclamandosi Figlio di Dio, per cui erano convinti di non aver nulla da temere invocando la vendetta celeste» so. Il che equivale a dire - e bisogna che sia detto esplicitamente che gli Ebrei, quelli almeno che avevano emesso quel grido terribile, credevano alla realtà, all'enormità della bestemmia, e che perciò hanno peccato per ignoranza, così come lo dichiara l'apo stolo Pietro in Atti, III, 17; e non solo la folla degli Ebrei, ma anche i loro capi «perché se l'avessero conosciuta (la sapienza divina) non avrebbero crocifisso il Signore della gloria» (I Corinzi, II, 8).
    Ma, riflettete: esclusi i sommi sacerdoti, i capi e qualche membro del Sinedrio, quanti Ebrei potevano conoscere esattamente la natura della bestemmia incriminata, della quale, come si è visto, non si è sicuri che consistesse nella Filialità proclamata in un senso inaudito e, lo ripeto, quasi inaccessibile da prima allo spirito umano, comunque allo spirito ebraico? Allora da che cosa poteva provenire l'accanimento, la rabbia, la sete di sangue di quegli Ebrei che arrivavano al punto di coinvolgere, senza nessun bisogno, il capo delle loro creature, «le teste più care », quelle dei propri figli? Tutto ciò è incomprensibile, inverosimile, fuori della realtà.
    Del resto quel grido atroce non è che una risposta, e cade perciò automaticamente nel nulla, con la lavanda delle mani e la protesta d'innocenza di Pilato alle quali il grido voleva rispondere. Ma in verità a ben altro risponde, alla preoccupazione dominante del redattore che è, secondo l'eccellente espressione del P. Lagrange, « di far vedere come il popolo ebraico aveva assunto in pieno la responsabilità della morte del suo Cristo».
    Mai carattere tendenzioso di una narrazione, mai preoccupazione «dimostrativa» è apparsa con maggiore evidenza, un'evidenza che si manifesta e culmina nei famosi versetti 24-25, e, in ogni spirito libero, genera la seguente convinzione:

    No, Pilato non si è lavato le mani secondo l'usanza degli Ebrei; No, Pilato non ha protestato la sua innocenza;

    No, la folla ebraica non ha gridato: «Il suo sangue ricada su noi e sui nostri figli! ».

    L'evangelista Luca ci fa sapere in Atti, V, 28, che il sommo sacerdote, rivolgendosi agli apostoli davanti al Sinedrio, si sarebbe espresso così: «Ecco, voi avete invaso Gerusalemme con la vostra dottrina e volete far ricadere su di noi il sangue di quell'uomo! ».
    Ma come? Questo sommo sacerdote, questi membri del Sinedrio non sono forse gli stessi che poco tempo prima, davanti a Pilato, gridavano e incitavano la folla a gridare: «Crocifiggilo! » ... «Che il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli! »? Essi avevano dunque la memoria corta, oppure Luca, su questo punto come in altri, contraddice Matteo e sembra ispirarsi ad una tradizione secondo la quale le stesse autorità ebraiche declinavano ogni responsabilità nella Crocifissione.
    Ma a che pro insistere ancora? La causa è risolta. Lo è per tutti gli uomini di buona fede. Oserò dire: lo è anche di fronte a Dio. È necessario rammentare con quale vigore, ribellandosi a certe barbare tendenze del primitivo culto divino, i profeti Geremia, e soprattutto Ezechiele, portavoce di Dio, avevano affermato che la responsabilità del peccato o del delitto non si trasmette da una generazione all'altra?


    «Mi fu rivolta questa parola del Signore: "Perché andate ripetendo questo proverbio sul paese d'Israele "I padri han mangiato l'uva acerba e i denti dei figli si sono allegati?". Com'è vero ch'io vivo, dice il Signore Dio, voi non ripeterete più questo proverbio in Israele. Ecco, tutte le vite sono mie; la vita del padre e quella del figlio è mia; chi pecca morirà ... Colui che ha peccato e non altri deve morire; il figlio non sconta l'iniquità del padre, né il padre l'iniquità del figlio ... Perciò, o Israeliti, io giudicherò ognuno di voi secondo la sua condotta» (Ezechiele, XVIII, 1-4, 20, 30).
    Un certo insegnamento, una certa tradizione rifiuta d'inchinarsi perfino davanti a Dio; ne abbiamo già rivelato qualche esempio. Non si vuole che « le sante dichiarazioni di Ezechiele» annullino «la realtà del mistero delle colpe collettive» proclamata nel Deuteronomio, V, 9 (dopo il comandamento del Decalogo che proibisce di prostrarsi davanti alle sculture):
    «lo il Signore tuo Dio sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione per quanti mi odiano, ma usa misericordia fino a mille generazioni verso coloro che mi amano e osservano i miei comandamenti ».
    Come conciliare queste due « rivelazioni »? (Appare già nella seconda come al castigo limitato per i nemici di Dio si contrappone la misericordia infinita per i suoi fedeli).
    Esse « non sono inconciliabili» spiega l'abate Journet, « perché, da un lato, la colpa degli antichi capi o agitatori può ben preparare, per gli uomini del loro tempo e per i posteri, un insieme di sollecitazioni e di condizioni di vita sfavorevoli, perniciose per la religione e per la morale, sia pubblica, sia privata; ma, d'altra parte, quelle sollecitazioni, quelle condizioni di vita non si trasformano in colpe se non nell'esatta misura in cui, non essendo proprio determinanti, cioè causa d'un errore moralmente invincibile, esse sono tuttavia accettate interiormente dalla coscienza di ogni individuo». Chiarissimo, non è vero? Ed ecco perché
    «la prevaricazione collettiva d'Israele... produrrà i suoi frutti universali e fatali ». Detto in altre parole: noi non c'entriamo per niente. Noi cristiani, «ci laviamo le mani nell'innocenza».
    Ma tutto non è ancora detto, anzi rimane da dire l'essenziale. In Matteo, XXVII, 25 si trovano le parole « tutto il popolo» che hanno fatto presa nella tradizione cristiana antiebraica, e in conseguenza meritano di essere esaminate. In Marco, XV, 8-15, troviamo il vocabolo «folla », in Luca, XXIII, 13, «popolo ». In Giovanni non si parla né di popolo, né di folla.
    In ultima analisi, giunti alla tappa finale di questo lungo cammino, eccoci condotti a formulare la domanda più importante: si ha il diritto di dire, di insegnare, di proclamare in ogni occasione (come si fa), che il popolo ebraico nella sua totalità si è associato ai suoi capi; che esso, con grido unanime, ha reclamato la morte di Gesù, ha obbligato Ponzio Pilato a pronunziare la condanna; che in tal modo ha partecipato al Crimine supremo e che, nella sua totalità, è pienamente responsabile della crocifissione?
    Tuttavia è ben noto, attraverso le citazioni che abbiamo presentate, semplici campioni di una letteratura abbondantissima, che la domanda non si pone per l'immensa maggioranza degli esegeti, dei teologi e degli scrittori cristiani, cattolici o protestanti. «Che gli Ebrei non dicano, non abbiamo ucciso il Cristo» (Officio della notte del Venerdì Santo). Matteo, XXVII, 25, ha scritto: «Tutto il popolo» = Pas o laàs. Questo è più che sufficiente.
    Lo testimonia il commento dell'esegeta cattolico più autorevole, il P. Lagrange: «Fino a questo momento non si è trattato che della folla o dei capi. Ora è la nazione, o laàs, che parlerà, quel popolo che Gesù doveva salvare (I, 21: «Tu lo chiamerai Gesù, perché egli salverà il suo popolo dai suoi peccati »), del quale aveva guarito i malati (II, 23). È la sola volta che il popolo entra in scena come protagonista».
    Sarebbe facile rispondere: la sola volta in Matteo, perché è scritto in Luca, XIX, 48: «Tutto il popolo = o laòs apas, era sospeso alle sue labbra ».
    Ma come? Ma dove siamo? Interamente fuori della realtà.

    Perché se la folla, ricordata in Matteo, XXVII, 20, diventa con un colpo di bacchetta magica tutto il popolo (nel senso di tutta la nazione, il popolo intero) in XXVII, 25, non siamo più evidentemente nella realtà, ma in piena astrazione, nell'immaginazione del redattore che obbedisce ad un suo sentimento profondo. A. Reville lo ha notato perfettamente.
    E l'immaginazione dei vari commentatori, obbedendo alle stesse tendenze, lavorando su questo tema immaginario per venti secoli, ha fatto perdere letteralmente il senso della realtà agli spiriti plasmati da una così lunga e proficua e aflascinante tradizione.
    Non è un tema storico che dobbiamo ora esaminare, ma un disegno su un'invetriata. Difficile impresa. Indispensabile tuttavia, qualunque sia lo spessore della crosta di leggenda da raschiare per raggiungere quel che solo importa: la verità.
    Una prima osservazione si impone; l'abbiamo già fatta, ma è bene insistervi: i racconti degli evangelisti non concordano.
    Vi è un fatto importante da notare: nel quarto Vangelo non si parla né di «popolo» né di «folla ». «Non si tratta di popolo », osserva il P. Lagrange, « ma di gente di parte, chiamata o pagata», esattamente degli yperètai - i subalterni o agenti dei sommi sacerdoti. Sono loro che, intorno ai sommi sacerdoti, manifestano davanti al pretorio, come poliziotti bene ammaestrati, e che gridano: «Crocifiggilo, crocifiggilo! » (Giovanni, XIX, 6). Ora il quarto evangelista ha scritto molto tempo dopo gli altri; conosce gli altri; se si è allontanato da loro su questo punto, non è forse senza ragione: «I sommi sacerdoti e le guardie », battezzati «i Giudei », gli sembravano personaggi sufficienti a rappresentare l'ebraismo ufficiale.
    Fra i tre Sinottici stessi non vi è concordanza perfetta. In Luca, XXIII, 13, è Pilato a prendere l'iniziativa di « convocare i sommi sacerdoti, i capi ed il popolo », dopo che Erode gli ha rimandato Gesù; gli altri evangelisti non ne fanno cenno, ed il meno che si possa dire è che la cosa appare strana, perché « Pilato non aveva bisogno di consultare il popolo, ma solo il suo Consiglio (l'autore vuol dire il Sinedrio, che non è il Consiglio del popolo) prima di pronunciare la condanna a morte». Evidentemente il popolo è citato solo per la forma, o allo scopo di fargli assumere la responsabilità che si desidera. Altrimenti come spiegare il discorso di Pilato al versetto seguente: «Mi avete portato quest'uomo come sobillatore del popolo» (Luca, XXIII, 14)? Tale discorso non è rivolto al popolo evidentemente.
    Restano i racconti paralleli di Marco-Matteo, dei quali abbiamo rilevato la redazione incerta e maldestra, come d'un innesto non riuscito. In Marco, XV, 8, «la folla» sale spontaneamente al pretorio, senza convocazione, e da sola, secondo l'usanza (XV, 6) reclama dal, procuratore la liberazione d'un prigioniero. Osserva
    giustamente il P. Lagrange: «se essa non avesse pensato alla liberazione di Gesù, perché sarebbe intervenuta proprio in quel particolare momento» (in cui era in gioco la sorte di Gesù) e a quell'ora mattutina? «Sembra dunque che il suo moto spontaneo fosse a favore del Galileo ».

    In Matteo, XXVII, 17, la folla si accalca senza che venga precisato se è andata di sua spontanea volontà, se è stata convocata o trascinata dai sommi sacerdoti; la parola stessa di « folla» non è pronunziata (lo sarà in XXVII, 15): «Mentre si trovavano riuniti », si legge, Pilato disse loro :« Chi volete che vi rilasci, Gesù Barabba o Gesù chiamato il Cristo? ». Nell'uno e nell'altro Vangelo, « i sommi sacerdoti» secondo Marco, XV, 11, « i sommi sacerdoti e gli anziani» secondo Matteo, XXVII, 20, fanno propaganda tra la folla, la eccitano contro Gesù, la spingono a reclamare la libertà per Barabba: tutto questo evidentemente lascia supporre che non si trattasse di una folla enorme. Docilmente « la folla », « le folle» reclamano Barabba e cominciano a richiedere clamorosamente che Gesù sia crocifisso., Infine, secondo Matteo, XXVII, 15, è « tutto il popolo» che grida: «Il suo sangue ricada sul nostro capo e su quello dei nostri figli! »,

    Complessivamente dunque, delle quattro versioni, tre su quattro vanno d'accordo con difficoltà. Non ve ne sono che due, quelle di Marco e Matteo, nelle quali la parte della folla è descritta e sottolineata in forma abbastanza maldestra; ma in realtà vi è una versione sola, quella di Marco, dalla quale Matteo deriva strettamente. E in questa unica testimonianza la parte attribuita alla folla appare di una verità storica altrettanto dubbia quanto l'usanza pasquale per cui l'evangelista la fa entrare in scena.

    Secondo la logica ed il metodo storico, non è possibile accettare tutte insieme quattro testimonianze discordanti (salvo ad « armonizzarle» cioè accordarle per forza). Bisogna scegliere; scegliere in particolare fra la testimonianza di Marco, i sommi sacerdoti e la folla che, ad un dato momento, per la circostanza (e per il maggior profitto della teologia ortodossa) Matteo definisce come « tutto il popolo », e la testimonianza di Giovanni, i sommi sacerdoti soltanto ed i loro subalterni.

    Se si tiene conto del rapidissimo svolgersi degli avvenimenti, dei sentimenti popolari favorevoli a Gesù fino a quel momento, su questo punto preciso Giovanni merita la preferenza. Ci sono le migliori ragioni per credere che tutto si sia svolto in accordo perfetto fra il procuratore romano e i sommi sacerdoti ebrei sue creature - Pilato, Anna, Caifa, sinistro terzetto - senza che sia possibile discernere da qual parte sia sorta l'iniziativa, dalla parte ebraica o dalla parte romana. Il che, secondo il nostro umile punto di vista, poco importa.


    Ma diamo tutti i vantaggi all'ortodossia e alla ricerca delle concordanze.
    Ammettiamo l'inverosimile.

    Ammettiamo che questo singolare procuratore romano - anche lui trasformato per un colpo di bacchetta magica - fosse disposto a liberare l'ebreo Gesù, accusato di pretese e di agitazioni messianiche.

    Ammettiamo che in Giudea esistesse questa singolare usanza che ad ogni festa il procuratore liberasse un prigioniero qualunque secondo la richiesta della folla.

    Ammettiamo che ci fosse nelle prigioni romane un ribelle ebreo, di nome Barabba (o Gesù Barabba), incolpato di sedizione e di omicidio.

    Ammettiamo che, essendosi accalcata una gran folla, intorno ai sommi sacerdoti, davanti al pretorio, Ponzio Pilato le abbia dato facoltà di scegliere fra Barabba e Gesù (di Nazareth), sperando che la scelta cadesse sul Nazareno e non sull'altro.

    Ammettiamo che l'ottimo Pilato abbia subito acconsentito a liberare Barabba, un ribelle e forse anche un assassino.

    Ammettiamo che dopo egli abbia chiesto alla folla degli Ebrei che cosa dovesse fare, lui il procuratore romano, di Gesù, accusato di essersi proclamato Messia e Re.
    Ammettiamo che la folla si sia messa a urlare: «Crocifiggilo! Crocifiggilo! »,

    Ammettiamo tutto, senza la minima riserva. Ammettiamo con Matteo che Pilato « si sia lavato le mani nell'innocenza », secondo il rito ebraico e la formula del salmista, e ammettiamo ancora, con Matteo, che in risposta «tutto il popolo» abbia avuto la ferocia, la cecità di gridare: «Il suo sangue ricada su noi e sui nostri figli! ».

    Ammettiamo con Giovanni che lo spettacolo di Gesù, contuso e sanguinante dopo la flagellazione, camuffato (dai soldati romani) con la corona di spine ed il mantello di porpora, che questo spettacolo pietoso, insostenibile, non abbia fatto altro che ravvivare, eccitare, portare al parossismo il furore popolare. Si, ammettiamo tutto, fino alla conclusione: Pilato cede agli Ebrei in delirio e manda Gesù alla morte, alla croce in seguito al loro ricatto minaccioso ...

    È impossibile spingersi oltre sulla via delle concessioni, abdicando a ogni spirito critico.

    Ebbene, concesso tutto questo, ammesse tutte le contraddizioni, elevato l'inverosimile al rango di verità storica, io affermo che tutto ciò, che la piena accettazione della tradizione non dà il diritto di concludere per il crimine d'Israele, per la piena responsabilità del popolo ebraico (né di proclamarla in ogni occasione davanti al popolo cristiano, né d'insegnarla ai bambini nel catechismo) 59.
    Lo affermo e lo provo.

    Anzitutto, e in vista della nostra dimostrazione, riportiamoci ai commenti dell'esegesi più ortodossa. Tutti i suoi sforzi di chiarimento sono orientati in un unico senso: trovare una soluzione a quello che le appare il problema, la difficoltà principale, «il mutamento nella folla », di quella folla ebraica che fino alla vigilia di quel giorno era entusiasta del suo profeta, di quella folla che, ascoltandolo, «pendeva dalle sue labbra »,

    C'è chi spiega, senza portare la minima prova, che quel mutamento si preparava da un certo tempo in qua; un'evoluzione si era prodotta nello spirito delle masse popolari: «Sotto l'influenza dei suoi capi, la popolazione negli ultimi giorni era diventata nettamente ostile a Gesù» - nettamente! - « almeno fra gli elementi turbolenti che a Gerusalemme avevano la supremazia ». E chi erano? «Fu questa plebaglia che, per dissipare gli scrupoli di Pilato, accettò di addossarsi il sangue del giusto crocifisso».

    Un altro, mettendo accuratamente da parte la testimonianza dei Sinottici, si riferisce ad alcuni passi di Giovanni per affermare che da molto tempo il popolo era diviso «tra l'influenza dei farisei e quella del nuovo profeta»; che «l'ingresso delle Palme » era stato « un trionfo senza seguito »; che, infine, « le scene della notte e del mattino avevano finito col distruggere la popolarità di Gesù ». «Da quel momento, se non è più il Messia sognato, che cosa potrebbe essere se non il seduttore che i capi del popolo hanno sempre denunziato? Questo scacco, questi rancori basterebbero da soli a giustificare il mutamento della folla; in certe persone senza dubbio la paura fa presa ancora maggiore; decisamente i farisei hanno il sopravvento; sappiamo la violenza del loro odio; gli apostoli stessi non osano esporvisi» - già, è vero, dove sono? - « chi, tra i discepoli effimeri di Gesù, avrebbe il coraggio di sfidarli? E allora, per farsi perdonare le loro acclamazioni del giorno prima, raddoppiano le loro maledizioni».

    Il P. Lagrange conosce troppo bene tanto i fatti quanto i testi per non provare un certo imbarazzo, visibile soprattutto nel suo primo commento, quello di Marco, p. 410: È strano ... che quella moltitudine, fino a quel giorno cosi favorevole a Gesù, abbia cambiato di punto in bianco il suo atteggiamento. Il fatto non è tuttavia privo d'esempi ». (Qui l'esegeta ricorda il caso del generale Boulanger la cui popolarità fu quasi di colpo rovinata per la sua fuga in Belgio. Ma si può immaginare il popolo francese che da un giorno all'altro ne reclama la testa?). « In certe situazioni, o si è tutto, o non si è niente. Il Messia incatenato davanti ad un procuratore romano rappresentava, agli occhi degli Ebrei, un'immagine cosi grottesca che coloro stessi che avevano sperato in Gesù, dovettero subire una delusione tale da trasformarsi in collera. Forse, a coloro che lo compiangevano si fece capire che egli se la sarebbe cavata in un altro modo, mentre Barabba, un eroe dell'indipendenza, e cosi gravemente compromesso! Per dirla in breve, noi non conosciamo tutti i mezzi che furono escogitati... »,

    Qualche anno dopo, commentando il Vangelo di Matteo 62, il P. Lagrange si è evoluto; egli trova «del tutto naturale » il brusco cambiamento che altre volte gli pareva cosi strano: «La folla cambiò parere quando le venne suggerito di chiedere la liberazione di Barabba. La cosa è tanto naturale - retto istinto popolare rapidamente pervertito, intervento inspiegabile ecc. che non si penserebbe neppure di discutere l'autenticità dei fatti ». È noto che il P. Lagrange si esprime malamente quando non si sente a suo agio. lo dirò tutto il contrario: tutto questo è cosi poco naturale che ci si trova costretti a discutere l'autenticità dei fatti. Le esitazioni, le contraddizioni (per non dire i balbettii) d'un galantuomo hanno anch'esse la loro eloquenza.

    lo chiedo perdono a quesi rispettabili autori, che io pure rispetto: in questo caso particolare (dell'intervento della folla, del «popolo ebraico»), le loro argomentazioni - diverse, ondeggianti - sono estremamente deboli. Com'è difficile difendere una cattiva causa! Tutto questo grande sforzo di spiegare non spiega nulla e non conc1ude nulla.

    Non spiega nulla, perché non basta ricordare quel che tutti sanno, che le folle sono volubili, oppure, il che è possibile, che l'arresto di Gesù ha distrutto il suo prestigio; bisogna andare oltre, trovare qualche motivo accettabile che spieghi quell'inaudito accanirsi, senza precedenti, quel parossismo di furore omicida, quella scomparsa improvvisa del senso nazionale in un popolo « nazionalista fanatico ». Ma il motivo non si trova, non viene dato, non c'è altro che «l'intenzione di mostrare come il popolo ebraico ... ha pienamente assunto la responsabilità della morte del suo Cristo» (Lagrange dixit).
    Ma poi, e soprattutto, questa spiegazione posa sul falso perché è assolutamente fuori della realtà. Ed è questa realtà cadaverica, sommersa in un oceano di miti e di leggende, che noi vorremmo tentare di afferrare, di rianimare, di ricondurre dalla profondità in cui essa giace alla superficie della storia.
    Pasqua a Gerusalemme. Primavera in Palestina.
    Per favore, non aspettatevi da me la solita tirata romantica, l'evocazione della città in festa sotto il sole ardente dell'Asia. Ad altri il colore locale, l'orientalismo dei bazar, o il superficiale scenario archeologico. La realtà che vogliamo raggiungere non è costituita da corpi, da scenari, ma da fatti, da cifre e da anime, è una realtà pragmatica, aritmetica e psicologica ad un tempo.
    Pasqua a Gerusalemme. Pasqua dell'anno 29 o 30. Nell'ora in cui scrivo queste righe sono trascorsi esattamente mille novecento sedici o diciassette anni, quasi due millenni. E a me sembra ieri, « tanto è semplice », caro Péguy, tanto è chiaro. Le grandi distanze nel tempo, quali illusioni ottiche! Il tuo popolo, Signore, « il popolo dei tuoi primi servitori », il popolo testimone, non è ancora e sempre qui, trascinato di martirio in martirio verso il misterioso destino che gli è stato assegnato? E la plebaglia che grida: «A morte! » non è sempre qui? E Caifa, nato collaboratore per la difesa dell'ordine morale? E Ponzio Pilato, non un Ponzio Pilato da leggenda, che « si lava le mani nell'innocenza », ma il vero, l'autentico, l'eterno Pilato, che si lava con giubilo le mani nel sangue
    - Schadenfreude -.
    Pasqua a Gerusalemme. Pasqua dell'anno 29 o 30. Dall'alto della torre Antonia i soldati romani sorvegliano i cortili del Tempio. Dolore e vergogna, disonore e profanazione: tutta la Giudea è occupata dai Romani; il pagano, l'idolatra comanda e regna nella capitale di Davide. Dio sa quanto, una volta, Gerusalemme esecrava Erode, il tiranno idumeo; ma l'uomo che oggi occupa l'antico palazzo di Erode, questo procuratore Ponzio Pilato, venuto espressamente dalla sua residenza di Cesarea per sorvegliare la città in festa e l'enorme folla che vi si accalca, è mille volte più detestato ed esecrato di Erode! Chi non conosce la sua brutalità, il suo disprezzo insolente per tutto ciò che è ebraico, uomini, costumi, credenze, soprattutto credenze, per quella fede esclusiva,
    aggressiva in un Dio paradossale che non ha nel suo Tempio neppure una statua!
    Pasqua a Gerusalemme. Pasqua dell'anno 29 o 30. In quei giorni santi, nella città santa, l'ardente fervore degli Ebrei si esaspera fino al parossismo per la presenza, visibile o invisibile, del vincitore indegno, indegno davanti a Dio. Ricordi intollerabili - di violenze, di sangue, di supplizi - tormentano gli animi, opprimono i cuori. Eccettuati i giovani, chi non ricorda lo spettacolo orrendo: duemila Ebrei messi in croèe per ordine del governatore della Siria, Varo, duemila Ebrei crocifissi alle porte di Gerusalemme?. Duemila. Come immaginare un simile spettacolo? Quei Francesi che a Tulle, il 9 giugno 1944, hanno visto centoventi dei loro connazionali impiccati, alle terrazze, ai lampioni del Viale della Stazione, per una lunghezza di cinquecento metri, avranno, dopo trent'anni, dimenticato quello spettacolo? E duemila uomini in croce, duemila corpi orribilmente straziati, con la loro lenta e rantolante agonia sotto il sole della Giudea, alla distanza di due metri, quattro chilometri d'una visione che solo un Goya potrebbe evocare, dopo trent'anni, potrebbero gli Ebrei, i cuori ardenti di patriottismo degli Ebrei, averli dimenticati?
    Almeno Varo e le sue legioni avevano espiato nelle foreste germaniche, così com'è scritto: « Il Signore disse ad Abramo: "lo maledirò coloro che ti malediranno" » (Genesi, XII, 1-3).
    Pasqua a Gerusalemme. Primo giorno o vigilia di Pasqua.

    Poco importa, che fosse prima o dopo il Seder - il pranzo pasquale, con i pani azzimi; l'agnello, le erbe amare, la rossa marmellata del Charoseth, le quattro coppe di vino ed i canti di Hallel -, un giorno o l'altro, entrambi giorni di purificazione, di consacrazione a Dio. Giorni di festa e giorni di gioia. Festa e gioia della primavera. Festa e gioia della grande liberazione, l'esodo dopo la persecuzione d'Egitto. Ma gioia offuscata sempre dalla paura e dall'angoscia, com'è inevitabile per il cuore tormentato d'Israele, com'è inevitabile per un popolo destinato da Dio ad una missione che lo sovrasta. Il 14 del mese di Nisan, vigilia di Pasqua, mentre le donne sono indaffarate a cuocere la provvista di pani azzimi necessaria per la durata della festa, mentre il capofamiglia sorveglia la minuziosa preparazione del pasto rituale, il figlio maggiore osserva il digiuno per redimersi davanti al Signore, perché bisogna pagare il prezzo dell'Esodo a Colui che sterminò i primogeniti di Egitto: come la tua destra è terribile, Onnipotente!
    Pasqua a Gerusalemme. Pasqua dell'anno 29 o 30. O Signore, ciò che hai fatto al Faraone, ciò che hai fatto ad Antioco, non lo farai a questa Lupa cupida, insaziabile, feroce? In questo giorno
    di festa (o di preparazione alla festa), quanti sono i pii Israeliti, emuli di Zaccaria, il cui cuore arde nella speranza di « un Salvatore che liberi Israele dai suoi nemici e dalle mani di quelli che lo odiano »? (Luca, I, 71). Non sono certo gli Anna ed i Caifa, pronti ad ogni occasione alle collaborazioni vantaggiose; sono gl'innumerevoli resistenti d'un popolo che non accetta la servitù, perché accettarla vorrebbe dire rinnegare Dio. Gli uni sono uomini d'azione, pronti ad estrarre il pugnale, - si chiamino essi «Zeloti» o « sicari », « assassini » o « terroristi » - e forse tra essi si potrebbe annoverare Gesù Barabba e quello dei dodici che ha nome di Simone lo Zelota. Gli altri, che condannano egualmente la violenza sanguinaria e la vile sottomissione, pacifici ma risoluti, sperano soltanto in Dio e nella sua onnipotenza, simili a quei Farisei che, qualche tempo dopo, si dichiareranno pronti ad affrontare la morte piuttosto che trasgredire la Legge, simili a quegli Esseni che non si lasceranno piegare da nessuna tortura pur di non venir meno alla fedeltà verso i santi comandamenti. E ad essi, non è forse giusto aggiungere gli Undici, gli stessi apostoli, di cui la prima domanda a Gesù risorto sarà: «Signore, è in questo tempo che ristabilirai il regno d'Israele? » (Atti, I, 6).
    Pasqua dell'anno 29 o 30. Pasqua a Gerusalemme. Miracolo che ogni anno si rinnova: l'Universo a Gerusalemme. Tutti i popoli vi affluiscono, si sentono parlare tutte le lingue. La folla invade ogni luogo, sommerge ogni cosa. Parlando dell'anno, Giuseppe Flavio valuta due milioni e mezzo o tre milioni i pellegrini venuti da ogni parte del mondo per festeggiare la Pasqua nella Città santa. Abitualmente egli esagera, ma non v'è dubbio che i pellegrini si contano a decine, a centinaia di migliaia; Filone ce l'assicura; la popolazione normale della città, un centomila anime, dev'essere triplicata, quadruplicata, fors'anche decuplicata. Alla città di pietre si aggiunge nella campagna circostante un'altra città di tende. Questa è la realtà più importante di cui lo storico deve tener conto: la folla di Pasqua, una densità di folla tale che la parola di Gesù non ha certo potuto penetrare. « Chi è costui? » domandavano a Gerusalemme, vedendo passare il Maestro su un asinello, seguito dal corteo dei suoi discepoli (Matteo, XXI, 10).
    E sarebbe « tutto questo popolo », tutto il popolo di Gerusalemme, aumentato dall'enorme afflusso dei pellegrini, gli uni e gli altri improvvisamente mobilitati, all'alba, un 14 o 15 Nisan vigilia o primo giorno di Pasqua, strappati al sonno, distolti dalle loro preghiere, e più ancora dai loro sentimenti più profondi, più tenaci; mutati d'animo oserei dire, che si sarebbero trasformati in questa « tigre assetata di sangue» - di sangue ebraico - di cui parla un membro eminente della Chiesa del Cristo, per precipitarsi fino al tribunale del magistrato romano, levando grida di morte, strappando a Pilato la condanna alla crocifissione (eseguita dai soldati romani) di quell'ebreo che soltanto il giorno prima alcuni di essi seguivano, ammiravano, esaltavano come un profeta, se non proprio come il Messia!

    Io affermo che tutto questo è non solo inverosimile, ma inconcepibile; e non solo inconcepibile, ma impossibile, d'una impossibilità assoluta.

    Quando Léon Bloy ci mostra « al momento culminante della Passione, centomila Ebrei che al colmo dell'esasperazione gridano che si crocifigga Gesù », questi centomila Ebrei esistono soltanto nel delirio d'un'immaginazione malata. Ebrei immaginati per un quadro, non rispondenti ad una verità simbolica o storica, Ebrei che vivono non secondo una realtà storica o simbolica, ma solo secondo un'intenzione chiaramente voluta dall'autore: per la bellezza, per la legittimità della sua tesi, è assolutamente necessario che «centomila Ebrei esasperati» abbiano lanciato l'ignominioso grido di morte.
    Essi sono necessari, dunque esistono.
    Parimenti, quando l'evangelista Matteo (XXVII, 25) racconta: «E in risposta (a Pilato) tutto il popolo gridò: "Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli" », quando i più seri commentatori, cattolici, protestanti, "centomila cristiani" (che sarebbe esagerato definire "al colmo dell'esasperazione", riprendono in coro, devotamente, aspramente: "Tutto il popolo, tutta la nazione, tutto Israele! ", un tale racconto, una tale deduzione non rispondono affatto alla realtà storica, esse rispondono solo ad un'intenzione sempre la stessa, quella che il P. Lagrange ha cosi ben definita, « l'intenzione di dimostrare come il popolo ebraico ... ha pienamente assunto su di sé la responsabilità della morte del suo Cristo ». Ciò è necessario, dunque esiste. Verità dottrinale, non simbolica, non reale, ma semplicemente intenzionale.
    Poiché infine, aprite gli occhi, sforzatevi di guardare: se ci fosse davanti al pretorio di Pilato una piazza immensa (come quella della Concorde a Parigi), i vostri quattro o cinquecento mila Ebrei non potrebbero trovarvi posto. E come su una simile marea umana, su una tale massa di popolo, le istigazioni dei sommi sacerdoti ricordate in Marco, XV, 11, e Matteo, XXVII, 20, avrebbero ~otuto far presa? Se in tali racconti per la catechesi sussistono partìcelle di verità, che cosa può rappresentare quella folla sobillata dai sommi sacerdoti davanti al pretorio di Pilato? Qualche centinaio, al massimo qualche migliaio di persone, percentuale minima in confronto alla massa umana presente per Pasqua a Gerusalemme, ancora minore in confronto alla massa intera del popolo ebraico nel mondo antico.

    E allora io mi domando: che bisogno c'è di supporre, e di spiegare, un preteso mutamento della folla ebraica? Perché volere, ad ogni costo, che quella poche centinaia, o anche migliaia, di Ebrei siano gli stessi che il giorno prima «pendevano dalle labbra» di Gesù? E soprattutto, perché volere, ad ogni costo, che essi rappresentino la voce d'Israele?

    Si, perché? Solo per rispondere all'intenzione definita in precedenza.

    È una cosa tanto evidente. «Tutto il popolo» di Matteo, XXVII, 25, non può avere e non ha che un significato soltanto: tutto il popolo che era là, davanti al pretorio. Ed il popolo che era là, davanti al pretorio, non era certo tutto Israele, e neppure tutto il popolo della Palestina, o tutto il popolo dei pellegrini, o anche tutto il popolo di Gerusalemme, e ancor meno una sua delegazione qualificata.

    Delle due cose l'una: o si trattava di una folla qualunque, abbastanza poco numerosa per essere in pochi momenti sobillata dai sacerdoti contro Gesù; oppure, ipotesi infinitamente più verosimile, si trattava di gentaglia raccogliticcia, come nelle grandi città è facile avere, assoldata dalle guardie degli Anna e dei Caifa. Ben si conosce il meccanismo di queste cosiddette manifestazioni spontanee.

    Dio, scrive l'abate Richard in un suo bel libro (Israél et la foi chrétienne) «Dio prende come rappresentanti del suo popolo quei capi accaniti contro il suo Cristo e quegli uomini turbolenti che essi hanno trascinato davanti al palazzo del governatore? ». Non si potrebbe dire meglio: la verità s'impone a chiunque ha il coraggio di ricercarla onestamente. Ma purtroppo la tradizione s'impone essa pure, di modo che, senza preoccuparsi di una evidente contraddizione, lo stesso autore, poche pagine più avanti, scrive: « Gesù deve morire, vittima di quel popolo che, in tal modo, viene respinto fuori dalla propria via».

    A chi si sforza di sviscerare la realtà, di scrutare avvenimenti e testi, appare chiaramente che Gesù non è morto «vittima del suo popolo »; e credo di averlo dimostrato.

    Per sostenere il contrario occorre avere un partito preso ininveterato, irragionevole, oppure una cieca sottomissione ad una tradizione che ben sappiamo non essere « normativa », non da imporre perciò anche al più docile figlio della Chiesa. Ma è una tradizione vigorosa, infinitamente nociva, una tradizione micidiale che può condurre ad Auschwitz - ad Auschwitz e simili luoghi: l'ho detto e lo ripeto.

    Quasi sei milioni di Ebrei assassinati unicamente perché erano Ebrei. Per il disonore non solo del popolo tedesco, ma della cristianità tutta quanta sì.

    Senza i secoli di catechesi, di predicazione e di vituperazione cristiane, la catechesi, la predicazione e la vituperazione hitleriane sarebbero state impossibili.
    Ecco perché lo storico ha il dovere, oggipiù che mai, di affermare categoricamente:

    no, voi non avete il diritto di dire, di scrivere, d'insegnare che « il popolo ebraico si è assunto in pieno la responsabilità della morte del suo Cristo », di quel Cristo sconosciuto alla gran maggioranza degli Ebrei e del quale gli stessi che lo hanno conosciuto ignoravano generalmente la missione, la missione di Cristo.

    Gesù è morto condannato dal procuratore romano Pilato, crocifisso dai soldati romani, per causa di agitazioni messianiche, senza dubbio per istigazione d'un gruppo ebraico di cui i sommi sacerdoti Anna e Caifa sono stati o sembrano essere stati gli elementi responsabili. La storia non sa, non raggiunge e non può dire niente di più.

    Su questo punto preciso, la responsabilità massima, collettiva del popolo ebraico, non saranno le imputazioni calunniose, i commentari tendenziosi, accumulati di secolo in secolo, che potranno, per gli uomini onesti, sostituire l'assenza di valide testimonianze.
    Si potranno chiamare valide testimonianze i testi che ci verranno conrapposti, come ultima difesa, tolti gli uni dalle Epistole di san Paolo, gli altri dagli Atti degli Apostoli?

    Abbiamo già citato questi testi e li abbiamo provvisoriamente scartati. Non chiediamo di meglio che di riesaminarli una seconda ed ultima volta.

    Diciamolo subito: avviene per essi ciò che avviene per i Vangeli, niente può impedire che essi costituiscano delle testimonianze di accusa e che, appunto per questo, siano da prendere con riserva e imputabili di legittima suspicione. Inoltre si contraddicono gli uni gli altri, ispirati come sono meno da un desiderio di esattezza storica che da preoccupazioni di dottrina, di catechesi, di polemica.
    Il più antico di questi testi, che risale forse agli anni 50 o 52, ed al quale ci si riferisce abitualmente, è il testo paolino I T essalonicesi, II, 14-16:
    «Voi, fratelli, siete diventati imitatori delle Chiese di Dio in Gesù Cristo, che sono nella Giudea, perché avete sofferto anche voi da parte dei vostri connazionali come loro da parte dei Giudei, i quali hanno perfino messo a morte il Signore Gesù e i profeti e hanno perseguitato anche noi; essi non piacciono a Dio e sono nemici di tutti gli uomini, impedendo a noi di predicare ai pagani perché possano essere salvati. In tal modo essi colmano la misura dei loro peccati! Ma ormai l'ira è arrivata al colmo sul loro capo».
    Testimonianza o imprecazione? Paolo non aveva troppi riguardi verso coloro che gli attraversavano la strada. Salta subito agli occhi che una simile diatriba non va presa alla lettera; se anche lo fosse, non implica affatto la responsabilità collettiva di Israele nella Crocifissione: «Quegli Ebrei che hanno messo a morte il Signore Gesù ed i profeti» può significare « quella cattiva genia di Ebrei », «quel cattivo gruppo », sempre gli stessi che Gesù denunciava, « i sommi sacerdoti, gli scribi ed i farisei (ipocriti) », che se poi si respinge questa interpretazione limitativa per applicare il testo di san Paolo a tutto quanto il popolo ebraico, allora bisogna risolutamente escludere altri suoi testi, i più importanti, quelli delle grandi Epistole nelle quali l'ispirazione dell'apostolo raggiunge altezze insuperabili. Nella I Corinzi, II, 7-8, parlando della sapienza che egli annunzia t «sapienza divina, misteriosa, che è rimasta nascosta », san Paolo scrive: «Nessuno dei dominatori di questo mondo ha potuto conoscerla; se l'avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria ... » « I dominatori di questo mondo» (quelli cioè che detengono il potere politico, le autorità romane od ebraiche, romane ed ebraiche) sono dunque designati come gli autori responsabili della Croci-
    fissione.
    E non è ancora più significativo il fatto che la grandiosa E pistola ai Romani, nella quale, verso gli anni 56-58, l'apostolo affronta e tratta in tutta la sua ampiezza il problema d'Israele, non contenga una frase, una parola che possa alludere alla responsabilità del popolo ebraico? Non la minima allusione alla sinistra esclamazione di Matteo, XXVII, 25 « Il suo sangue ricada su noi e sui nostri figli! ». Quale argomento questo silenzio che si prolunga, lo abbiamo visto, fino alla metà del II secolo, e forse oltre. A quel silenzio si può opporre soltanto la falsificazione della Scrittura, come fa Léon Bloy, in una pagina «indimenticabile» del libro Sang du Pauvre; là dove san Paolo ha scritto: «A causa della loro caduta la salvezza è giunta ai Gentili », Romani, XI, 11, egli non esita a fargli dire: «Il loro delitto è stato la salvezza delle nazioni ». Ma il delitto è in questa moneta falsa alla quale mi stupisco che gli esegeti di Léon Bloy, Albert Béguin e l'abate Journet, diano senza esitare libero corso.

    Delle Epistole non paoline del Nuovo Testamento, una sola mette in causa gli autori responsabili della Crocifissione: « Ed ora a voi, ricchi; piangete e gridate per le sciagure che vi sovrastano!. .. Avete condannato e ucciso il giusto ed egli non può opporre resistenza» (Giacomo, V, 1-6).

    Perché si mantiene generalmente il silenzio su questo testo?

    Goguel lo omette nell'elenco dei testi neotestamentari relativi alla storia della Passione. L'Epistola di Giacomo fa un po' l'effetto del parente povero nella famiglia del Nuovo Testamento (sarà perché se la prende coi ricchi?); nondimeno essa ne fa parte, per i cattolici e per la maggioranza dei protestanti, anche se Lutero l'ha respinta perché essa urtava con troppa violenza la sua dottrina della salvezza per fede, per sola fede. Essa colpisce per il suo carattere di semplicità e di sincerità e rappresenta una testimonianza che non è forse tra le minori.
    Gli Atti degli Apostoli si ricollegano strettamente al Vangelo di Luca del quale formano il seguito, attribuito allo stesso autore. Per quanto riguarda la Passione, essi non portano una testimonianza nuova, né nuove informazioni, distinte e indipendenti dai Vangeli; provengono dallo stesso testimonio - se si può chiamare cosi il medico Luca - come il terzo Vangelo; non ci si dovrà dunque meravigliare se ne confermano i dati principali e se la loro testimonianza è discussa o rifiutata.

    In Atti, II, 22-23, oppure III, 13-16, Pietro, rivolgendosi al popolo di Gerusalemme, cosi si esprime:

    «Gesù ... voi l'avete inchiodato sulla croce per mano di empi e l'avete ucciso ... Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che avete crocifisso!. .. Avete ucciso l'autore della vita. Ma Dio l'ha risuscitato dai morti... ».

    Il testo segue il racconto della Passione, secondo Luca, ricordando che il popolo, ascoltando i suoi capi, ha fatto pressione su Pilato per ottenere la crocifissione di Gesù. Ma non è accusato di deicidio, bensì di omicidio e di aver peccato per ignoranza:
    « Gesù di Nazareth, uomo accreditato da Dio presso di voi... »,

    «Ora, fratelli, io so che avete agito per ignoranza, cosi come i vostri capi...» (Atti, II, 22; 111,17).
    E appena quegli Ebrei che hanno crocifisso, quelle « tigri assetate di sangue» che secondo Matteo hanno gridato un momento prima con frenesia feroce «il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli », appena hanno ascoltato il discorso di Pietro, ne « hanno il cuore trafitto », si fanno battezzare in numero di tremila e costituiscono quell'ammirevole prima comunità cristiana di Gerusalemme, ammirevole per la sua «comunione fraterna », per la totale accettazione degl'insegnamenti del Cristo (« Tenevano ogni cosa in comune. Chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti») e per la sua assiduità al Tempio (Atti, II, 37, 41, 46).
    Ma è forse anche permesso di pensare che certe espressioni accusatrici non debbano essere qui prese alla lettera e che, quando Pietro esclama « Questo Gesù che voi avete crocifisso », voglia dire esattamente «Questo Gesù che i Romani hanno crocifisso per istigazione non vostra - personale - ma dei vostri, dei nostri », poiché Pietro avrebbe potuto dire altrettanto bene ed anche meglio: «Questo Gesù che noi abbiamo crocifisso ».
    Se in Atti, IV, 27, gli apostoli Pietro e Giovanni ed i loro primi fedeli, tutti Ebrei, « alzando la voce a Dio» gli ricordano che:
    « contro il tuo santo servo Gesù, che tu hai unto come Cristo, Erode e Ponzio Pilato si radunarono con i Gentili e coi popoli d'Israele »,
    ciò vuol dire che, secondo il racconto della passione fatto da Luca, Erode ha tenuto un certo posto, ha preso la sua parte di responsabilità. E ancora, in questa pia preghiera nella quale sarebbe eccessivo cercare una testimonianza storica, Erode e Pilato, Ebrei e pagani, sono posti sullo stesso piano, senza alcuna distinzione.
    Omettiamo Atti, IV, 10; V, 30; VII, 52 nei quali le accuse espresse dagli apostoli e da Stefano si rivolgono solo ai dirigenti ed al Sinedrio.
    Resta il discorso di Pietro a Cesarea, davanti al centurione Cornelio:
    « E noi siamo testimoni di tutte le cose compiute (da Gesù) nella regione dei Giudei e a Gerusalemme; essi lo uccisero appendendolo ad una croce ... » (Atti, X, 39);
    resta il discorso di Paolo nella sinagoga di Antiochia di Pisidia:
    « Gli abitanti di Gerusalemme ed i loro capi non hanno riconosciuto (Gesù), e condannandolo hanno adempiuto le parole dei profeti... e pur non avendo trovato in lui nessun motivo di condanna a morte, chiesero a Pilato che fosse ucciso» (Atti, XIII, 27-29).
    Nel primo caso, l'accusa sembra alludere a tutti gli Ebrei della Palestina, nel secondo caso allude unicamente, esplicitamente agli Ebrei di Gerusalemme.
    Ma qual conto si può fare di queste imputazioni diverse, confuse, discordanti? Le più circoscritte, come l'ultima, non sono altro che generalizzazioni abusive, di cui la storia non può davvero tenere conto. E chi dunque oserebbe garantire l'esattezza letterale di parole riprodotte quarant'anni dopo che esse sono state pronunciate, riprodotte in greco, quando per la maggior parte sono
    state pronunziate in aramaico? .
    « Noi non pretendiamo », scrive un esegeta cattolico, E. jacquier, « che i discorsi degli Atti siano stati riprodotti letteralmente, e cioè assolutamente come sono stati pronunciati. Il fatto, ammesso da tutti, che non abbiamo qui che dei riassunti, sarebbe già una prova che essi non sono stati riprodotti che nella loro sostanza».
    Parimenti A. Puech: «Al giorno d'oggi si è press'a poco d'accordo che quei discorsi sono stati liberamente compilati da Luca ». E l'autore riconosce nella redazione degli Atti la preoccupazione manifesta « di scagionare l'autorità romana» e « di attribuire agli Ebrei le prove più importanti subite dal cristianesimo».
    Sotto questo punto di vista, nessuna distinzione è da fare tra gli Atti ed i Vangeli.
    La responsabilità collettiva del popolo ebraico, della nazione ebraica, d'Israele nella condanna a morte di Gesù, è dunque un prodotto leggendario, senza una solida base storica.
    In verità si tratta di un anacronismo e nient'altro: la trasposizione considerata come opportuna di un altro fatto del tutto diverso e posteriore, il fatto che, dopo un primo slancio di conversioni, e per delle ragioni che qui non abbiamo da considerare, il popolo ebraico nel suo insieme è divenuto refrattario alla predicazione cristiana. Ora è proprio in quel periodo che i racconti della Passione sono stati elaborati. Ma attraverso quei racconti, per quanto tendenziosi essi siano, la realtà storica traspare ancora. E non permette di chiamare in causa il popolo ebraico che non si identifica né con Anna, né con Caifa, né con la plebaglia sobillata dalle loro guardie, neppure col Sinedrio.
    Péguy diceva: «Non sono gli Ebrei che hanno crocifisso Gesù, ma i peccati di tutti noi; e gli Ebrei, che sono stati soltanto uno strumento, attingono come gli altri alla sorgente della salvezza »,
    Ecco quel che mi sembra essere un linguaggio cristiano, una mentalità cristiana. Ecco ciò che pensa, ben lo so, una élite cristiana, cattolica e protestante. Ma una élite assai poco numerosa e poco ascoltata. Frattanto la tradizione infame continua ad essere propagandata nelle anime indifese per opera di teologi abitudinari; di letterati superficiali, preoccupati più dei successi mondani che della verità schietta.
    Quando mai si leveranno delle voci autorevoli per richiamare costoro all'amore della verità e all'amore del prossimo, che non sono disgiunti né l'uno né l'altro dall'amore di Dio?

    Continua (forse, se interessa)
     
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7 replies since 25/1/2010, 18:28   1067 views
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