Morte di un ebreo

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    אילון

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    L'ARRESTO

    Accordo degli evangelisti per attribuire I'iniziativa della persecuzione di Gesù alle autorità ebraiche di Gerusalemme, sommi sacerdoti d'accordo con gli scribi (Marco, XIV, 1; Luca, XX, 19; XXII, 2), gli scribi e gli anziani (Marco, XIV, 43), gli anziani (Matteo, XXVI, 3, 47), i Farisei (Giovanni, XI, 57; XVIII, 3). Gli unici a mettere in causa Caifa sono Matteo (XXVI, .3) e Giovanni (XI, 49). Marco (XIV, 53) e Luca (XXII, 54) parlano del sommo sacerdote in carica, ma sembra che ignorino il suo nome 27.

    Queste autorità esitano solo per paura delle rivolte popolari, dato il favore di cui Gesù godeva tra la folla. Il tradimento di Giuda le decide a non frapporre indugi. Fin qui nessuna divergenza notevole.

    Diversamente avviene per l'arresto, benché sia questo il solo episodio della Passione del quale si possa credere che tutti gli apostoli siano stati testimoni oculari, per lo meno prima della loro fuga.
    E per loro qual ricordo più angoscioso, fin nei minimi particolari, e non solo quel bacio di Giuda, vergognoso tradimento del loro compagno!

    Ora i racconti dei Sinottici e quello di Giovanni differiscono anzitutto su un punto importante: l'entità delle forze di polizia impiegate nell'arresto. Quali sono queste forze? Marco (XIV, 4.3} e Luca (XXII, 47) dicono «una folla »; Matteo (XXVI, 47} «una folla numerosa» armata di «spade e bastoni »; si può supporre che si tratti della polizia ebraica, della guardia del Tempio che era a disposizione del sommo sacerdote; Marco e Matteo dicono esplicitamente che questa truppa è mandata dai sommi sacerdoti, dagli scribi e dagli anziani (Matteo non fa menzione degli scribi); si tratta evidentemente del Sinedrio. Quanto alla presenza, in questa spedizione notturna, dei sommi sacerdoti e degli anziani, ricordata solo da Luca (XXII, 52), « con gli ufficiali del Tempio », essa appare poco verosimile.

    Ma con Giovanni (XVIII, 3) il quadro cambia; qui, e soltanto qui, vediamo apparire accanto alla polizia ebraica una compagnia romana, la « coorte » comandata da un ufficiale di alto
    range, un « chiliarca », un comandante di mille uomini o tribuno.
    Che dei soldati romani, un semplice distaccamento della coorte, e non la coorte intera, partecipassero, sotto il comando di un ufficiale superiore, al colpo dì forza del Gethsemani, era un fatto, si direbbe, che doveva colpire i presenti e incidersi nella loro memoria. Strano perciò che l'apostolo Matteo, se egli è l'autore del primo Vangelo, che l'apostolo Pietro, se Marco autore del secondo Vangelo è stato « il suo interprete », Marco stesso, se era il giovane che se ne fuggiva tutto nudo, strano che tutti questi testimoni oculari abbiano dimenticato l'impressionante intervento dei Romani.
    A meno che non abbiano preferito dimenticarlo, che l'omissione sia volontaria.
    Infatti, se si accetta la versione di Giovanni che dà per certa la presenza della coorte (o di un suo distaccamento) a Gethsemani, ci si deve porre la domanda se l' autorità romana si sia accontentata del modesto ruolo di ausiliaria di Giuda e di Caifa. Domanda imbarazzante. Per lo meno sorgono dubbi. Alcuni esegeti, convinti della storicità dell'intervento romano, deducono che l'arresto di Gesù fu operato dai Romani e da Pilato che agiva di sua iniziativa o d'accordo con le autorità ebraiche.
    E questa una semplice congettura che si oppone alla tradizione accettata, ma questa tradizione, di cui ci è ben noto a quali sentimenti si ispiri, merita le più ampie riserve. Che il procuratore romano, senza dubbio istigato da Caifa; albbia deciso di far arrestare il Galileo a causa delle agitazioni popolari con tendenze messìaniche, è un'ipotesi che ha per lo meno in suo favore il pregio della verosimiglianza.
    Altra divergenza curiosa nella narrazione dell'arresto: l'atteggiamento di Giuda, il «bacio di Giuda».
    Come dimenticare questo bacio di Giuda? Secondo il racconto dei Sinottici, quel bacio era il segnale convenuto con cui il traditore avrebbe fatto conoscere alle guardie che lo seguivano la persona del Maestro:
    Quale anima dovette sentirsi più colpita, più sconvolta di quella di Giovanni, «il figlio del tuono », «il discepolo che Gesù amava », il sensibile e focoso Giovanni?
    Tuttavia il solo degli evangelisti che non abbia ricordato il bacio di Giuda, il solo che lo escluda assolutamente dalla sua narrazione, è proprio Giovanni (XVIII, 3-8):
    Giuda dunque, preso un distaccamento di soldati e delle guardie fornite dai sommi sacerdoti e dai farisei, si recò là con lanterne, torce e armi. Gesù allora, conoscendo tutto quello che gli doveva accadere, sì fece innanzi e disse loro: "Chi cercate?". Gli risposero: "Gesù, il Nazareno". Disse loro Gesù: "Sono io ". Vi era anche là con loro Giuda, il traditore, Appena disse: "Sono io ", indietreggiarono e 'caddero a terra. Nuovamente Gesù domandò loro: "Chi cercate?". Risposero: "Gesù, il Nazareno ", Gesù replicò: "Vi ho detto che sono io ... " »,
    Nessun accenno in questo racconto al segno convenuto, il bacio di Giuda.
    Gesù che si fa conoscere da sé, per due volre di seguito. Ed è strano che Giovanni, testimonio oculare, che conosceva certamente le altre narrazioni evangeliche, sapendo l'importanza che in esse aveva il bacio di Giuda, abbia omesso deliberatamente questo episodio.
    Affrettiamoci a riconoscere l'accordo dei quattro - così raro - circa un altro episodio dell'arresto: il colpo di spada con cui uno dei discepoli stacca l'orecchio di un servo del sommo sacerdote, l'orecchio destro, precisano Luca e Giovanni. Quest'ultimo è il solo a nominare il discepolo, Simon Pietro, e la sua vittima, Marco (XVIII, 10).
    Ma il seguito differisce nelle quattro narrazioni:

    Marco, XIV, 47, racconta brevemente il fatto; non vi aggiunge niente.
    Luca, XXII, 51, aggiunge: Lasciate, basta così l s-, Parola oscura che può intendersi: Fermatevi, non fate altro» o anche “Lasciate, bisogna che le cose arrivino fino a questo punto”.
    Matteo, XXVI, 52-'4, aggiunge: «Allora Gesù gli disse: "Rimetti la spada nel fodero, perché tutti quelli che mettono mano alla spada, periranno di spada. Pensi forse che io non possa pregare il Padre mio che mi darebbe subito più di dodici legioni di angeli? Ma come allora si adempirebbero le Scritture, secondo le quali così deve avvenire?" ».
    Giovanni, XVIII, 11, aggiunge: Gesù allora disse a Pietro: "Rimetti la tua spada nel fodero; non devo forse bere il calice che il Padre mi ha dato?" ».

    Strano, ancora una volta, che Marco, « interprete di Pietro » sia il solo a non ricordare l'ordine che Pietro ha ricevuto. E come accettare contemporaneamente tre versioni diverse? In questo caso la versione più breve è senza dubbio la migliore. La risposta di Gesù in Luca presenta, secondo il P. Lagrange, « un carattere di autenticità per la sua oscurità stessa»; aggiungiamo: e per la sua brevità. Non si può dire altrettanto per il testo di Matteo (principalmente per i versetti 53-54). Se l'uno è autentico, l'altro non lo è.

    GESU’ DAVANTI ALLE AUTORITÀ EBRAICHE


    Ecco una delle fasi principali della Passione: il processo ebraico.
    Che cosa ne sappiamo? Come lo conosciamo?
    Nessuno degli apostoli, nessuno degli evangelisti ha potuto assistervi. Dopo l'arresto del Maestro, tutti i discepoli si sono dati alla fuga (Marco, XVI, 50; Matteo, XXVI, 56). Pietro ha seguito da lontano le guardie o i soldati che conducevano via Gesù ed è riuscito a penetrare nel cortile del palazzo sacerdotale, unico fra gli Undici, secondo i Sinottici (Marco, XIV, 54; Matteo, XXVI, 58; Luca, XXII, 54), insieme con un altro discepolo, secondo Giovanni, XVIII. 15, e il discepolo sarebbe lo stesso Giovanni.
    Poco importa se in quel cortile vi fosse un solo discepolo o ve ne fossero due. Nel cortile Gesù non è stato interrogato e il Sinedrio non si è riunito. Tutt'al più Pietro e Giovanni (o il solo Pietro) poterono essere testimoni di qualche brutalità delle guardie (di cui tutti sanno che gli Ebrei avevano il monopolio). Per tutto il resto, che è quanto importa di più, gli evangelisti parlano soltanto per sentito dire. Come abbiamo già detto: non è impossibile che qualcuno dei membri del Sinedrio li abbia informati. Ed è un'ipotesi; ipotetica anche la presenza di Giuseppe d'Arimatea.
    Le divergenze degli evangelisti, e in conseguenza le incertezze storiche, si moltiplicano stranamente quando si arriva a questo punto di capitale importanza: il processo ebraico. A dare ascolto al biografo accademico e benpensante, è «ora per ora », passo per passo, «che è possibile accompagnare Gesù» nella sua Passione; ma ad ogni passo, ad ogni momento, qualche divergenza ci ferma. (E di esse le principali verranno taciute o dissimulate. Anche questa è una tradizione ricevuta).

    Primo esempio - Dopo l'arresto di Gesù, le guardie dove l'hanno condotto?
    Risposta dei Sinottici: dal sommo sacerdote, quello in carica ovviamente, Caifa (Marco, XIV, 53; Matteo, XXVI, 57; Luca, XXII, 54); Matteo solo ne fa il nome, senza dubbio perché è il solo che lo conosca; strana a questo proposito l'ignoranza di Marco, e ancor più quella di Luca che ha nominato Caifa in III, 2 32. E nel cortile del palazzo di Caifa che Pietro rinnega Gesù per tre volte.
    Risposta del quarto evangelista: dapprima presso il suocero di Caifa, Anna, già sommo sacerdote (Giovanni, XVIII, 13). È dunque nel cortile del palazzo di Anna che Pietro rinnegherebbe Gesù la prima volta (Giovanni, XVIII, 17). Poi Gesù, legato, viene condotto da Caifa (Giovanni, XVIII, 24) e qui Pietro, che lo ha seguito, lo rinnega due volte ancora Giovanni, XVIII, 25-27).
    Da molto tempo si è cercato di «armonizzare» Giovanni e gli evangelisti sinottici. La divergenza (di rninore interesse) si attenua se si sposta il versetto 24 di Giovanni «Anna lo mandò legato da Caifa, il-sommo sacerdote ») per inserirlo subito dopo il versetto 13 (« Essi lo condussero prima da Anna). Tale versione appare in uno dei manoscritti più antichi dei Vangeli, il Syrus Sinaiticus. Ma per quanto sia accettabile, essa è eccezionale e non appare in nessuno dei manoscritti che hanno autorità. « Ci si può domandare », osserva il P. Lebreton, « se non è precisamente il desiderio di mettere d'accordo le varie narrazioni che ha provocato questa correzione nel testo di Giovanni ». Il P. Lagrange ammette che il Syrus Sinaiticus « è stato fortemente armonizzato », cioè ha subito ritocchi destinati a cancellare certe divergenze; e questo conferma una delle nostre precedenti esservazioni ».

    Secondo esempio - Secondo punto, di maggiore importanza ..
    Davanti a chi è comparso Gesù?
    Risposta di Marco-Matteo, i cui racconti più ancora che paralleli, sono addirittura gemelli e talvolta identici nei termini: Gesù è comparso davanti al Sinedrio due volte: una prima durante la notte, quasi subito dopo l'arresto, presso Caifa, dal quale si sono ritrovati sommi sacerdoti, anziani e scribi (Marco, XIV, 53; Matteo, XXVI, 57). I due evangelisti dicono esplicitamente: tutto il Sinedrio » (Marco, XIV, 55; Matteo, XXVI, 59). Il P. La grange non ritiene necessario prendere alla lettera il testo evangelico; per lui questa riunione notturna non aveva « niente di ufficiale », perché «la consuetudine codificata oralmente dai dottori non permetteva di tenere durante la notte delle assemblee che portassero ad una condanna a morte»; si tratterebbe piuttosto di « una commissione di membri di buona volontà del Sinedrio, per mettere le cose a posto ». Dei membri di buona volontà? Allora Caifa ha dovuto scegliere quelli sui quali era sicuro di poter contare per sbarazzarsi di Gesù, non gli altri, gl'incerti, i simpatizzanti, quelli come Giuseppe d'Arimatea. Seconda riunione del Sinedrio all'alba (Marco, XV, 1; Matteo, XXII, 1): sono presenti « i sommi sacerdoti, gli anziani, gli scribi e tutto il Sinedrio », dice Marco; «i sommi sacerdoti e gli anziani », dice Matteo, possibile, ma non è certo che questa seconda riunione sia stata plenaria.
    Risposta di Luca. Questi afferma di aver condotto un'inchiesta, « di essersi informato diligentemente di tutti i particolari» (Luca, 1,3). Luca ha senza dubbio conosciuto il racconto di Marco, al quale attinge sovente. Nel caso presente se ne allontana deliberatamente, perché non fa menzione che di una riunione del Sinedrio e una sola, quando fu giorno» (XXII, 66). L'espressione non è ben chiara: «Appena fu giorno, si iriunì il consiglio degli anziani del popolo, con i sommi sacerdoti e gli scribi; lo condussero davanti al Sinedrio »,
    Risposta di Giovanni. Essa è chiara, ma che dice in sostanza?
    Non una parola che alluda a una riunione, parziale o plenaria, diurna o notturna, del Sinedrio. Un breve interrogatorio di Gesù da parte di Anna che lo manda a Caifa, che lo manda a Pilato: ecco tutto. Nel suo pio ottimismo, il biografo di Jésus en son temps ci assicura che « lo stesso san Giovanni ... sente il bisogno di dire tutto quel che sa (della Passione), tutto quello che ricorda », Veramente? Del processo ebraico, della comparizione di Gesù davanti' al Sinedrio, Giovanni non sa nulla, Giovanni han dice nulla, Giovanni non ha il minimo ricordo! Questo un fitto che merita di essere sottolineato, messo in piena luce, tolto dalla penombra in cui l'apologetica lo tiene accuratamente relegato: non vi è un processo ebraico di Gesù nel Vangelo di Giovanni.
    Tale è, su questo punto di capitale importanza, « l'impressionante parallelismo dei quattro Vangeli».

    Terzo esempio - Come si è svolto il processo?
    Lasciamo da parte Giovanni poiché, effettivamente, nel suo Vangelo non vi è traccia di processo. E solo ricordato l'interrogatorio di Gesù da parte di Anna (di Calla, secondo la versione del Syrus Sinaiticus). Al sommo sacerdote che lo interroga sui suoi discepoli e sulla sua dottrina, Gesù si limita a rispondere press'a poco ciò che, secondo i Sinottici, ha detto a quelli che lo arrestavano:
    « ho ho parlato al mondo apertamente; ho sempre insegnato nella sinagoga e nel Tempio, dove tutti i Giudei si riuniscono, e non ho mai detto nulla di nascosto. Perché interroghi, me? Interroga quelli che hanno udito ciò che ho detto loro; ecco, essi sanno che cosa ho detto &- (Giovanni, XVIII, 20-21).


    Ed è tutto.
    Nei Sinottici, il gruppo Marco-Matteo, “sempre unito". presenta questa volta due o tre divergenze notevoli.
    Secondo Marco-Matteo l'interrogatorio di Gesù ba avuto luogo nella prima seduta, quella notturna; secondo Luca nell'unica seduta del mattino.
    Solo Marco-Matteo ricordano le testimonianze a carico; Gesù è accusato specialmente di aver detto: «lo distruggerò questo tempio ... » (Marco, XIV, 58); «Posso distruggere il tempio di Dio «(Matteo, XVI, 61) - Marco, ma non Matteo, aggiunge che « nemmeno su questo punto la loro testimonianza era concorde » (Marco, XIV, 59). Tutti e due sono d'accordo per dire che a quelle accuse Gesù oppone un silenzio sdegnoso:

    «Allora il sommo sacerdote, levatosi in mezzo all'assemblea, interrogò Gesù dicendo: “Non risponui nulla? Che cosa testimoniano costoro contro di te? Ma egli taceva e non rispondeva nulla” (Marco, XIV, 60-61; Matteo, XXVI, 62·63).


    Notiamo di sfuggita: sorprende di vedere come un tribunale che ha potuto riunirsi e citare dei testimoni in piena notte, non abbia pensato di ricorrere alla testimonianza di Giuda, certo il più qualificato fra tutti, il più documentato.
    La fase decisiva dell'interrogatorio è la domanda posta direttamente a Gesù dal sommo sacerdote secondo Marco-Matteo, dal Sinedrio secondo Luca:

    «Di nuovo il sommo sacerdote lo interrogò dicendogli: "Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto? (di Dio)» (Marco, XLV, 61)
    « Allora il sommo sacerdote gli disse: “Ti scongiuro per il Dio vivente, perché tu ci dica se sei il Cristo, il Figlio di Dio" (Matteo, XXVI, 63);
    “…condussero davanti al Sinedrio e gli dissero: “ Se tu sei il Cristo, diccelo" n (Luca, XXII, 66·67). Soltanto dopo la risposta di Gesù, viene
    l'altra domanda: «Tu dunque sei il Figlio di Dio? » (Luca, XXII, 70).

    Domanda difficile che si può ammettere solo scindendola , come fa Luca, «Dicci se sei il Cristo »
    « Dicci se sei il Figlio di Dio ». Il P. Lagrange osserva: «Sarebbe strano che il sommo sacerdote avesse pensato che chiunque si fosse proclamato Messia, si dicesse anche Figlio di Dio, come se tutti fossero stati d'accordo su questo carattere del Messia». Aggiungo: sarebbe ancora più da stupirsi se il sommo sacerdote avesse adoperato l'espressione « figlio di Dio» senza precisare che egli la intendeva non nel senso ebraico, cioè figurato, ma nel senso proprio, cioè cristiano.
    A questa esplicita domanda, che cosa risponde Gesù?
    Secondo Marco, XIV, 62: «Gesù rispose: "Io lo sono! E vedrete il Figlio dell'uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo" ».
    Secondo Matteo, XXVI: «Tu l'hai detto, gli rispose Gesù, anzi io vi dico, d'ora innanzi vedrete il Figlio dell'uomo seduto alla destra di Dio e venire sulle nubi del cielo".
    Secondo Luca, XXII, 67-68: «Gesù rispose: "Anche se ve lo dico, non mi crederete; se vi interrogo, non mi risponderete. Ma da questo momento starà il Figlio dell'uomo seduto alla destra della potenza di Dio" ». (Alla seconda domanda «Sei dunque il Figlio di Dio », Gesù risponde: «Lo dite voi stessi: io lo sono»).

    La risposta di Gesù è categoricamente affermativa in Marco, nettamente evasiva in Luca. È dubitativa in Matteo, perché Syeipas (l'hai detto) di Matteo può intendersi sia nel senso affermativo adottato dall'apologetica: «Tu l'hai detto» (sottinteso: lo sono), sia in senso evasivo: «Tu l'hai detto» (sottinteso: non io). Cosi in Luca, XXII, 70, si deve leggere: «Siete voi che lo dite, non io». Da questa triplice divergenza non è possibile dedurre una certezza.
    A meno che si voglia alterare il testo imbarazzante facendo dire a Luca, XXII, 70: «Allora tutti esclamarono: "Tu dunque sei il Figlio di Dio? " Ed egli disse loro: "Lo sono" ».
    Ma uno storico ha il diritto di modificare un testo, qualunque esso sia? Ha diritto un cristiano di modificare una parola attribuita al Cristo?
    Strettamente parlando, i Sinottici si accordano in un'affermazione sola di Gesù:

    « Voi vedrete il Figlio dell'uomo seduto alla destra della potenza e venire con le nubi del cielo.
    (Marco, XIV, 62; Matteo, XXVI, 64).
    «II Figlio dell'uomo starà seduto alla destra della potenza di Dio» (Luca, XXII, 69).
    Di fronte al Sinedrio Gesù non avrebbe pronunziato che una sola affermazione esplicita e sovrana, l'affermazione che i luminosi testi di Davide e della visione di Daniele erano divenuti realtà e, senza dirlo apertamente, si erano realizzati nella sua persona. La rivendicazione di questa messianità trascendente, sovrumana, strettamente associata a Dio è forse - forse - la bestemmia di cui subito dopo, secondo Marco-Matteo, lo accusa il sommo sacerdote:
    «Allora il sommo sacerdote, stracciandosi le vesti, disse: "Che bisogno abbiamo ancora di testimoni? Avete udito la bestemmia, che ve ne pare? "» (Marco, XIV, 63; Matteo, XXVI, 65; testi quasi identici.
    Vogliamo andare oltre? Su tutti gli altri punti l'accordo dei testi sparisce; bisogna amalgamare, dissimulare, spezzare, aggiungendo referenze abusive e traduzioni tendenziose.

    Quarto esempio - Gesù è stato condannato a morte dalle autori tà ebraiche?

    Risposta affermativa di Marco, XIV, 64: «Tutti sentenziarono che era reo di morte », e di Matteo, XXVI, 66, benché meno esplicita: « È reo di morte »; i due evangelisti pongono questa condanna al termine della seduta notturna, nella quale, come sappiamo, la consuetudine non consentiva le condanne a morte.
    Silenzio, silenzio assoluto in Luca e Giovanni. Né l'uno né l'altro fanno minimamente allusione ad una sentenza ebraica di condanna a morte.
    I quattro evangelisti si trovano d'accordo solo su questo punto: le autorità ebraiche hanno consegnato Gesù alla giustizia romana, a Ponzio Pilato. Questo è sufficiente per coinvolgere la loro responsabilità, anche se fosse dimostrato, il che non è possibile, che Ponzio Pilato ha avuto in questa vicenda una parte più importante di quanto dicano gli evangelisti.

    Ultimo esempio - Gli oltraggi.
    Marco, XIV, 65, addossa la colpa degli oltraggi non solo ai servi, ma anche a qualcuno che sembra appartenere ai membri del Sinedrio:
    «Allora alcuni cominciarono a sputargli addosso, a coprirgli il volto, a schiaffeggiarlo e a dirgli: "Indovina.". I servi intanto lo percuotevano ».
    Matteo, XXVI, 67-68, sembra sopprimere i servi e lasciare ai soli membri del Sinedrio il Lato odioso di questa scena ignominiosa:
    «Allora gli sputarono in faccia e lo schiaffeggiarono; altri lo bastonavano dicendo: "Indovina, Cristo! Chi è che ti ha percosso?" »,
    Tutti e due gli evangelisti pongono la scena degli oltraggi dopo la condanna, nella seduta notturna.
    Luca, XXII, 63-65, la pone anche lui di notte, ma prima della seduta del Sinedrio, e ne attribuisce la colpa soltanto alle guardie:
    « Intanto gli uomini che avevano in custodia Gesù, lo schernivano picchiandolo e, dopo averlo bendato, io interrogavano dicendo: "Indovina chi ti ha percosso?" e bestemmiando dicevano contro di lui molte altre cose
    Giovanni, XVIII, 22-23, ricorda soltanto l'atto brutale di una guardia, nel corso dell'interrogatorio del sommo sacerdote:
    «Una delle guardie presenti diede uno schiaffo a Gesù, dicendo: "Così rispondi al sommo sacerdote?". Gli rispose Gesù: "Se ho parlato male, dimostrami dov'è il male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti? " ».
    Questi sono i testi e queste sono le divergenze.
    Ed ecco un esempio di trasposizione letteraria cattolica, molto apprezzata dal pubblico cristiano:
    « Mentre i maggiorenti si appartano per consigliarsi sulla maniera di carpire la ratifica del procuratore Gesù è buttato in pasto alla bordaglia presente nel palazzo.
    Hanno il permesso di giocare col loro Re, di trastullarsi col loro Dio .. Ma non sanno da che parte incominciare … Ma uno degli scribi o degli anziani dette l'esempio e, passando accanto a Gesù, gli sputò addosso ... E sulla faccia illuminata dal vergine sole della mattina e dalla divinità prigioniera, sulla faccia trasfigurata dalla luce del sole e dalla luce dell'amore, sulla faccia d'oro di Cristo, gli sputacci dei Giudei ricoprirono il primo sangue della Passione» (Giovanni Papìni, Storia di Cristo, Vallecchi 1923, pp. 410-412).
    Mi sono limitato a sottolineare tipograficamente ciò che l'autore si è sforzato di sottolineare letterariamente. Del resto Papini non fa che ricamare su un tema quasi rituale. Descrivendo la scena degli oltraggi, scrive Dom Guéranger: «Questi sono gli omaggi della Sinagoga al Messia la cui attesa la rende così fiera» (Année liturgique, semaine sainte, p. 499).
    Andiamo oltre. Che si tratti delle solite brutalità delle guardie o dei servi, come dicono Luca e Giovanni e com'è verosimile, o anche del furore astioso di quegli oligarchi dei quali lo stesso Talmud denuncia egualmente le tradizioni violente, poco importa: il popolo ebraico che soffre alla sua volta di queste usanze tiranniche, non c'entra affatto. Non una parola dei testi autorizza a metterlo in causa.
    E tuttavia viene messo in causa perché così si vuole. A proposito di tutto: degli oltraggi, dell'arresto, del processo, della sentenza. Autori cattolici, autori protestanti. La sentenza del Sinedrio, sottolinea in modo solenne e decisivo La rottura fra il popolo di Dio, rappresentato dai suoi capi spirituali, e L'inviato dell'Eterno, il Cristo, figlio del Dio vivente» (Herbert Roux, L'Évangite du Royaume, p. 314). « Il rigetto del Messia, la rottura fra Dio ed il suo popolo, si compie là, in quell'assemblea sinistra ) (J. Lebreton, op. cit., II,- p. 374).
    Sotto la penna di un grande scrittore, l'interpretazione tradizionale si trasforma in visione di un realismo impressionante (ma di pura immaginazione): « Vi è una folla così fitta in tribunale che quasi non ci si muove. Questo è il pubblico che si è radunato, il popolo grossolano di una Corte d'assise, davanti al quale il Figlio di Dio dovrà rivelarsi. Ed è proprio là che hanno cacciato il Cristo, cosi premuto da ogni parte da fare una cosa sola con la carne del Suo popolo. Tutto Israele preme su di lui. Ed è Là, alla fine d'un interrogatorio agitato, nella confusione inestricabile dei testimoni che si contraddicono, che sorgerà infine il Grido terribile, la «Bestemmia» insopportabile che spezzerà il mondo in due:
    Sì. È vero. Sono Dio. Sono proprio io. Oh se ci potessimo turare le orecchie! ». (P. Claudel, Un poète regarde la Croix, p. 35).
    Queste pagine letterarie, anche se fumate dal gran nome di Claudel, quale sfida alla verità, alla verità storica, anzitutto, ma anche, credo, ad una verità più alta! Tra questa verità, tutta avvolta di mistero, e quelle immaginazioni sbrigliate, quelle ricostruzioni tendenziose, vi è incompatibilità assoluta. La storia romanzata, che non è la storia viva, che non è neanche storia, è in sé un genere equivoco e bastardo, ma quando tocca le cose sacre, diventa sacrilegio.

    Ora sappiamo, dopo aver esaminato i fatti ed i testi, che valore hanno le affermazioni e le descrizioni tradizionali relative alla prima fase della Passione: Gesù davanti alle .autorità ebraiche. Sappiamo contro quali incertezze si urta, com'è fragile la base documentaria, quali incrinature l'attraversano. E diciamo:
    di qualunque natura siano le responsabilità emerse, che Gesù sia comparso soltanto davanti ai sommi sacerdoti Anna e Caifa, com'è detto nel quarto Vangelo,
    o davanti a Caifa assistito dal Sinedrio, com'è detto nei Sinottici,
    che la riunione del Sinedrio sia stata parziale o plenaria, oppure che l'autorità romana abbia preso l'iniziativa del processo d'accordo con le autorità ebraiche (ciò che, evidentemente, non appare dai Vangeli e rimane una congettura),
    in tutti i casi, noi possiamo ripetere e generalizzare la nostra precedente conclusione:
    il popolo ebraico non c'entra affatto. Esso non ha avuto alcuna parte in una vicenda svoltasi senza la partecipazione, anzi contro la sua volontà.
    Crediamo inutile insistere ancora; abbiamo premura di affrontare la seconda parte della Passione, il processo romano, perché qui, secondo la tradizione tramandataci, la responsabilità del popolo si lega indissolubilmente a quella dei capi.
    Isaac

    continua

    Edited by Aialon - 26/1/2010, 12:37
     
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    Responsabilità del Popolo Ebraico nel processo romano

    Per stabilire la responsabilità del popolo ebraico nel processo romano, nella sentenza di morte romana, nel supplizio romano, occorre attribuire a certi testi evangelici un valore storico che in questo caso è particolarmente contestabile; bisogna sorvolare sulle loro divergenze, le loro inverosimiglianze: bisogna dare a questi testi un'interpretazione che, pur essendo tradizionale, non è per questo meno tendenziosa e arbitraria.
    Facciamo il punto, prima di entrare nel pretorio, residenza e tribunale del procuratore.
    L'improvvisa cattura di Gesù, la sua comparsa immediata davanti alle autorità ebraiche, hanno avuto luogo in piena notte e all'alba. Sappiamo il perché; gli evangelisti lo hanno detto: per paura del popolo.
    E sappiamo anche perché le autorità avevano paura del popolo, perché, a Gerusalemme stessa, la parola di Gesù aveva conquistato il popolo: «Tutto il popolo era ammirato del suo insegnamento» (Marco, XI, 18); «La folla lo riteneva un profeta» (Matteo, XXI, 46); «Tutto il popolo, ascoltandolo, pendeva dalle sue labbra» (Luca, XIX, 48); «Se noi lo lasciamo così, tutti crederanno in lui» (Giovanni, XI, 48).
    Ma ecco che Gesù viene arrestato, dalle guardie ebraiche o dai soldati romani o da entrambi insieme. I suoi fedeli compagni - gli Undici - fuggono, ad eccezione di Pietro (secondo i Sinottici), di Pietro e Giovanni (secondo Giovanni). Persino Pietro - Simone, detto Cela, ossia la pietra - ha rinnegato per tre volte il suo Maestro. Abbandonato dai suoi, Gesù resta solo, in potere dei suoi nemici che lo consegnano ai Romani, senza che ci venga spiegato il perché, salvo in seguito in Giovanni, XVIII, 31.
    Non dimentichiamo che l'avvenimento ha luogo un 15 Nisan secondo i Sinottici, primo giorno di Pasqua, o un 14 Nisan secondo il quarto Vangelo, vigilia di Pasqua. In ogni caso, sia il primo giorno di Pasqua, sia la vigilia, tutti gli Ebrei pii, e a maggior ragione i sacerdoti ed i sommi sacerdoti, devono essere dedicati alla celebrazione o alla preparazione della festa; la trasgressione era un sacrilegio. A questo riguardo la tradizione era assoluta: nessun processo, ancora meno una condanna capitale, il giorno del sabato o un giorno di festa; nessun processo, nessuna condanna capitale, la vigilia del sabato o d'una festa. I sacerdoti, i notabili di Israele, accaniti contro Gesù, di giorno e di notte, un 14 oppure un 15 Nisan, hanno manifestato un disprezzo incredibile per le usanze più rispettate.
    In quelle poche ore della notte e del primo mattino, che vanno dalla cattura di Gesù alla sua comparizione davanti a Pilato, che sappiamo di quanto è avvenuto nella città, di quanto è stato detto, conosciuto, manifestato dagli uni e dagli altri, le masse popolari, i notabili ebrei? Nulla, assolutamente nulla ci è consentito di sapere. Tutto quel che si è scritto su questo argomento non è che un'ipotesi senza fondamento, immaginazione, letteratura. È trapelata la notizia dell'arresto di Gesù? Non è impossibile: in un tale brulichio di popolo il minimo rumore circola - e anche si altera - facilmente. L'inverosimile sarebbe che il popolo sia venuto a conoscenza delle dichiarazioni fatte da Gesù ai suoi giudici (come è detto nei Sinottici; nel Vangelo di Giovanni Gesù si rifiuta di rispondere), e che abbia conosciuto le sue rivendicazioni sovrane, giudicate blasfeme. Ne vedo una prova nei sarcasmi che i passanti rivolgono al Crocifisso: «Ehi, tu che distruggi il Tempio e lo ricostruisci in tre giorni …» (Marco, XV, 29). Ecco dunque ciò che si andava vociferando per la città. Ed è pure inverosimile che, da un giorno all'altro, i sentimenti di ammirazione e di amore della folla si siano trasformati in odio mortale, al punto da ignorare ogni sentimento di pietà, da unirsi agli odiati pagani ed ai loro accoliti ebrei per infierire su Gesù.
    Che per il fatto della cattura e della consegna di Gesù ai Romani il suo prestigio sia improvvisamente diminuito, forse anche dileguato di colpo, è possibile. Ricordiamoci della gloriosa profezia messianica: «Con il soffio delle sue labbra farà perire il malvagio … ». Ohimè! Invece di quella gloria, di quel potere, di quella sacra invincibilità, quale disfatta rovinosa! Quanto più grandiosa era stata la speranza che la gente pia e amante della patria aveva riposto in Gesù, quel profeta affascinante di cui alcuni cominciavano a mormorare che sarebbe stato il Messia, il «liberatore d'Israele », tanto più amaro e profondo dovette essere il suo disinganno, quando lo seppe debole, rovinato, vinto senza resistenza, consegnato come un malfattore nelle mani dell'occupante, dell'odioso e impuro pagano. Non era questo lo stato d'animo disperato dei suoi stessi discepoli?
    Ma da questo a far causa comune con il pagano, a strappargli la condanna dell'Ebreo, a urlare « a morte» con il servidorame di Anna e Caifa, esisteva un abisso incolmabile.
    Il fatto è che quando Gesù, legato, verso il mattino, « probabilmente verso le sei», fu consegnato a Pilato dalle autorità ebraiche, la folla non appare in nessuno dei racconti evangelici: «Misero in catene Gesù, lo condussero e lo consegnarono a Pilato» (Marco, XV, 1); «Poi, messolo in catene, lo condussero e lo consegnarono al governatore Pilato» (Matteo, XXVII, 2); « Tutta l'assemblea si alzò, lo condussero da Pilato» (Luca, XXIII, 1 ); «Allora condussero Gesù dalla casa di Caifa nel pretorio» (Giovanni, XVIII, 28).
    Ma la folla appare nel Vangelo apocrifo di Giovanni Papini: « E i capi sacerdoti, gli scribi e gli anziani, seguiti dalle guardie che tiran Gesù con la fune, e dall'orda vociferante che ingrossa lungo la strada, si avviano verso il palazzo del Procuratore» (Storia di Cristo, ed. cit., p. 413). « L'orda vociferante » dava.un certo effetto nella scena, così Papini l'ha inventata.
    Ed ecco una parafrasi di Claudel, che pur essendo ad un livello superiore di quella di Papini, non è per questo meno tendenziosa: «Si tratta di una consegna legale e pagata ad un prezzo stabilito ... di un Cristo maturo, perfetto, pubblico, controllato, affermato, il peso è esatto, tutte le clausole del contratto sono rispettate. E questo Cristo verificato la Sinagoga, a mezzo del suo sommo sacerdote, dichiara solennemente di non volere, dichiara che non esiste per lei, che è incomparabile con le sue possibilità e lo consegna all'Universo, nella persona di Ponzio Pilato, il procuratore dell'Impero romano. Ecco dunque Gesù dall'Ebraismo consegnato all'Universo ... ».
    «Gesù dall'Ebraismo consegnato all'Universo »:
    simbolismo storico, caro a Léon Bloy. Ma Caifa non è l'Ebraismo, e Pilato non è l'Universo. Mettiamo anche noi le maiuscole e diciamo:
    «Gesù consegnato dal Sacerdozio, dal Denaro, dall'Orgoglio dottorale alla Forza occupante»; il che non è meno simbolico e d'un simbolismo più vero.
    Dal momento in cui Gesù viene consegnato ai Romani, Ponzio Pilato diventa il personaggio di primo piano. Nessuno può contestare che, a quel momento, la sorte e la vita di Gesù siano state in suo potere. Tutto dipende dalla decisione che egli prenderà, lui il padrone della Giudea. Sarà dunque necessario procedere a una inchiesta su questo personaggio che è conosciuto dalla Storia e non solo attraverso i Vangeli.
    Negli anni 29 o 30 in cui si colloca generalmente la Passione, Ponzio Pilato, cavaliere romano, già da quattro anni (dal 26) aveva avuto dall'imperatore Tiberio l'importante carica di procuratore o governatore della Giudea. Ne consegue, con ogni probabilità, che Gesù non doveva essergli del tutto sconosciuto, soprattutto se si ammette che una parte della predicazione del Vangelo si era svolta a Gerusalemme ed in Giudea.
    Lasciando da parte per il momento il processo a Gesù, non si può dare un giudizio su Ponzio Pilato, come amministratore e come uomo, se non fondandoci su alcuni episodi, cinque in tutto, riferiti da Giuseppe Flavio, da Filone e da Luca l'evangelista, dei quali episodi l'ultimo solo può essere datato con sicurezza « dopo dieci anni di soggiorno in Giudea », cioè dell'anno 36, poco prima che l'imperatore Tiberio morisse, nel 37.
    Il primo di questi episodi - il fatto delle insegne con l'effigie di Cesare - risale indubbiamente all'entrata in carica di Ponzio Pilato. Urtando il sentimento religioso più profondamente radicato nell'anima ebraica, l'orrore dell'idolatria, Pilato di nottetempo fece introdurre a Gerusalemme delle insegne con l'effigie di Cesare, del dio Cesare. Effetto immediato, la sommossa. « Gli Ebrei si sollevarono a Cesarea attorno a Pilato, supplicandolo di ritirare le insegne da Gerusalemme e di conservare le leggi dei loro antenati. Poiché Pilato opponeva un rifiuto, gli Ebrei si coricarono per terra intorno alla sua casa e vi restarono per cinque giorni e cinque notti. Trascorsi i quali, Pilato sedette dinanzi al suo tribunale nel grande stadio e convocò il popolo col pretesto di dargli una risposta; poi diede ai soldati armati il segnale di circondare gli Ebrei. Quando costoro videro la truppa stretta intorno a loro, in tre file, non levarono un grido davanti allo spettacolo imprevisto. Pilato, dopo aver dichiarato che se gli Ebrei non accettavano l'effigie di Cesare, li avrebbe fatti sgozzare, ordinò ai soldati di sfoderare le spade. Ma gli Ebrei, di comune accordo, si gettarono a terra in file compatte e tesero il collo dichiarandosi pronti a morire piuttosto che a violare la Legge. Stupito di fronte ad uno zelo religioso così ardente, Pilato ordinò di ritirare le insegne da Gerusalemme» (Giuseppe Flavio, Guerra giudaica, II, 9, 2, 169-174).




    Secondo episodio, seconda sommossa, finita peggio per gli Ebrei: la sottrazione del Tesoro sacro a favore d'un'impresa di lavori pubblici. «Qualche tempo dopo », narra ancora Giuseppe Flavio, « provocò una nuova sommossa dando fondo, per la costruzione di un acquedotto, al tesoro sacro detto Korbanas ... A questa notizia il popolo si sdegnò; gridando si dispose attorno al tribunale di Pilato che, in quel momento, si trovava a Gerusalemme. Egli, prevedendo il tumulto, aveva preso la precauzione di mescolare alla gente un gran numero di soldati armati, travestiti con abiti civili, e, pur proibendo l'uso delle armi, ordinò di colpire i manifestanti con bastoni. Dall'alto del tribunale egli diede il segnale convenuto. Molti Ebrei morirono, alcuni sotto le bastonate, altri schiacciandosi a vicenda nella ressa della fuga. La moltitudine, atterrita da questo massacro, fu ridotta al silenzio» (Ibid., II, 9, 2, 175-177) 5.
    Terzo episodio, al quale Luca, XIII, 1, allude: un massacro di Galilei ordinato da Pilato: «In quel medesimo tempo si presentarono a lui (a Gesù) alcuni per raccontargli di certi Galilei il cui sangue Pilato aveva mescolato con quello dei loro sacrifici ». Il P. Lagrange interpreta l'episodio nel modo seguente: «Alcuni Galilei, essendo venuti a Gerusalemme a compiere sacrifici, avevano causato indubbiamente dei disordini, tosto repressi dalla guarnigione romana ... Se le ragioni precise di questo scontro ci sfuggono, non è imprudente ricollegarlo ai movimenti insurrezionali più o meno congiunti a idee messianiche », movimenti di cui la Galilea era il focolaio principale. Può darsi che Barabba, che sarà nominato nel corso del processo, sia stato appunto uno di questi agitatori. E non è inutile sottolineare che questo massacro ebbe luogo al tempo della predicazione di Gesù, senza dubbio popo prima della Passione.
    Meglio conosciuto per l'esistenza di una lettera di Erode Agrippa all'imperatore Caio (Caligola) - citata da Filone d'Alessandria - è l'episodio degli scudi d'oro. Si tratta questa volta di onoranze divine rese dal procuratore romano a Tiberio nella città stessa di Gerusalemme: «Pilato consacra in Gerusalemme, nel palazzo di Erode, degli scudi d'oro, non tanto per onorare Tiberio, quanto per far dispetto al popolò ... Essendosi diffusa la notizia di quest'avvenimento, il popolo si riunì e mandò al procuratore una deputazione rappresentata dai quattro figli del re ... Alle loro preghiere Pilato oppose un rifiuto inflessibile, perché il suo carattere era rigido e testardo. Allora si levarono delle grida ... : Noi manderemo dei delegati a portare una supplica al signore (l'imperatore Tiberio). Queste ultime parole accrebbero l'irritazione di Pilato più di ogni altra cosa. Egli ebbe paura che, mandando dei delegati all'imperatore, si venissero a scoprire gli altri misfatti della sua amministrazione, le vessazioni, le rapine, le ingiustizie, gli oltraggi, i cittadini che aveva mandato a morte senza processo, in fine tutta la sua insopportabile crudeltà. Colpito nel vivo, Pilato non sapeva a qual partito appigliarsi; non osava togliere gli oggetti consacrati e non voleva compiacere ai suoi sudditi ... » (Filone, Ambasceria a Caio, 38). L'imperatore, informato dell'incidente, si dice mandasse una nota di biasimo a Pilato, con l'ordine di ritirare da Gerusalemme gli scudi d'oro che furono consacrati a Cesarea, nel tempio di Augusto.
    L'ultimo episodio, il più sanguinoso, è quello di Garizim, la montagna sacra dei Samaritani. Un certo agitatore, o pseudo-profeta, aveva riunito ai piedi della montagna una folla armata, facendole intravedere un miracolo (il ritrovamento dei vasi sacri sotterrati da Mosè). « Pilato si affrettò ad occupare in precedenza la strada attraverso la quale la folla avrebbe dovuto salire mandandovi fanti e cavalieri; questi piombarono sulla gente ammassata nel villaggio di Tirathana, uccidendo gli uni nella mischia, altri mettendo in fuga; dei molti prigionieri i più importanti furono messi a morte da Pilato, e la stessa sorte toccò a molti dei fuggiaschi» (Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche, XVIII, 4, 1-2, 85-89). Dopo di che una protesta fu presentata al governatore della Siria, Vitellio, dal Consiglio di Samaria, spiegando che «non era per ribellarsi ai Romani che si erano riuniti a Tirathana, ma per sfuggire alla violenza di Pilato ». La vicenda finì male per Pilato che ricevette l'ordine di andare a Roma per giustificarsi (nel 36). Non tornò e, secondo Eusebio, finì col suicidio. Filone lo colloca nel numero dei persecutori degli Ebrei puniti da Dio con una morte violenta.
    Nessuno dei testi citati è favorevole a Pilato. Per cui, da parte degli ortodossi, il tentativo di minimizzarli.
    Il P. Lagrange scrive: «Queste testimonianze ebraiche riflettono un « nazionalismo esasperato », e Daniel Rops, di rimando: « un nazionalismo fanatico ». « Pilato non amava gli Ebrei ma si comportò con loro come un rigido amministratore, non come uomo crudele e rapace». Che ne sanno? È uno spingersi lontano (senza prove) e dare a Filone, a Giuseppe Flavio, ed anche all'evangelista Luca, una smentita che non s'appoggia su nulla se non sulla volontà esplicita di rendere verosimile l'inverosimile Pilato della tradizione evangelica.
    È ben vero che Filone e Giuseppe Flavio sono scrittori ebrei e che le loro testimonianze sono testimonianze di accusa che non si possono accettare senza riserve, ma che non si possono neppure respingere senza una seria ragione, perché questi autori che non sono disprezzabili (san Girolamo non chiamava Giuseppe Flavio il «Tito Livio greco »?), che non sono dei «fanatici» (il P. La grange concede altrove a Giuseppe «un'imparzialità abbastanza leale »), hanno attinto generalmente le loro informazioni ad una fonte sicura. Luca, il terzo evangelista, di cui non si può dire che sia un autore ebreo né un testimone a carico (contro Pilato), è d'accordo con loro. Il richiamo di Pilato non è certo un fatto inventato, e se questo alto funzionario ha lasciato tra i suoi amministrati una fama sinistra, ci devono essere state delle serie ragioni.
    Chi vuol tentare di abbozzare un ritratto del troppo illustre procuratore ha dunque il diritto di valersi dei testi citati, ma a condizione di usarne con prudenza. « Pilato non amava gli Ebrei », dice con ragione il P. Lagrange; egli si compiaceva di schernirli, di ferirli soprattutto nelle loro convinzioni religiose, tanto più irritanti ai suoi occhi, in quanto gli erano perfettamente incomprensibili, come accadeva a tanti altri pagani, Romani e Greci, il cui scettico umanesimo aborriva l'esclusivismo ebraico, la suscettibilità esacerbata di quella fede ardente e intollerante. Era questa l'origine permanente dell'antisemitismo pagano (almeno ad un certo livello culturale e sociale): Pilato era antisemita. Per il resto, era un amministratore di polso, partigiano della maniera forte, vigilante, astuto, caparbio e duro, pronto a versare il sangue - il sangue ebraico - per reprimere o prevenire ogni agitazione, anche religiosa, anzi, soprattutto religiosa (in quei paesi della Giudea e della Samaria poteva esserci un'agitazione che non fosse religiosa? E peggio ancora nella vicina Galilea, presso Erode, - nulla di buono c'era da aspettarsi da un Galileo). Circa le iniquità, gli abusi, le rapine di cui parla Filone non possiamo dir nulla, né per ammetterli né per negarli, ma sappiamo ch'erano d'uso corrente. Quanto poi alla « insopportabile crudeltà» del procuratore, essa sembra sufficientemente dimostrata dal fatto che su cinque episodi che si conoscono del suo governo, tre terminano con un massacro, e se ne potrebbero annoverare quattro se la prima volta Pilato, impressionato dall'atteggiamento della folla, unanime ad accettare la morte, non avesse indietreggiato senza dubbio per l'orrore di inaugurare le sue funzioni con un tale misfatto.
    Siamo così portati a concludere che, nei limiti della verosimiglianza storica, la vita d'un uomo, e a maggior ragione di un Ebreo, e a maggior ragione di un Galileo sospetto di agitazione messianica, doveva per Pilato contare ben poco.

    Se le narrazioni ebraiche sono testimonianze a carico di Pilato, altrettanto i racconti evangelici della Passione sono testimonianze a carico degli Ebrei, in favore di Pilato e delle autorità romane. Di fronte agli Ebrei accaniti, vendicativi, pieni di odio, sanguinari, ci appare un Pilato « nuovo stile », indulgente, comprensivo, bonario, perfino esemplare, quasi cristiano in anticipo, « iam pro conscientia sua cbristianus », dirà Tertulliano (II secolo), « non circonciso nella carne ma circonciso nel cuore », dirà il V angelo di Nicodemo. «Questo funesto personaggio ha suscitato ben presto la simpatia della leggenda cristiana », ammette L. Cl. Fillion; certamente, e anzitutto quella degli evangelisti.
    Il tema principale trattato dai quattro Vangeli canonici, e ripreso ad oltranza dai Vangeli apocrifi, è il seguente:
    Ponzio Pilato, ben disposto a riconoscere l'innocenza di Gesù, dopo aver fatto invano ogni sforzo per salvarlo, ha avuto forzata la mano dagli Ebrei. Cosicché Gesù Cristo ha un bell'essere stato regolarmente giudicato e condannato da Pilato, flagellato, crocifisso dai Romani; i veri colpevoli, i soli responsabili della crocifissione sono gli Ebrei. «Gli Ebrei non vengano a dire: non siamo stati noi ad uccidere il Cristo!» (Officio della notte del Venerdì santo, sesta lezione, Trattato di S. Agostino sui Salmi). Gli Ebrei hanno ucciso il Cristo: ecco ciò che viene ordinato a tutti i fedeli di credere nella solennità di questa notte santa. E i fedeli lo credono, fermamente, credono tanto più che ad ogni generazione ci sono stati, ci sono ancora dei bravi apostoli che lo affermano, in tutti i toni e con i mezzi di cui si vale l'apologetica oratoria e letteraria.
    « Gli Ebrei hanno ucciso il Cristo » . Ma quali Ebrei?
    Caifa ed i suoi amici, il sacerdozio, il gruppo dei « ben pensanti e dotti »? o la massa del popolo ebraico, tutto Israele?
    Si conosce già la risposta della tradizione cristiana; tradizione, ci si assicura da parte cattolica, che non ha «un carattere normativo », che non è (grazie a Dio) regola dottrinale, né articolo di fede. Ma è pur sempre tradizione, contro la quale non mi risulta che voci cattoliche autorizzate abbiano parlato.
    Quali Ebrei dunque?
    Ma tutti, tutti gli Ebrei senza distinzione,
    tutti gli Ebrei della Palestina e di altri luoghi, della Diaspora tutta quanta,
    tutti gli Ebrei del tempo passato, presente e futuro (« il peso terribile che grava su Israele per la morte di Gesù, non è di quelli che sia consentito all'uomo di respingere» proclama lo scrittore benpensante nel 1946, per centomila lettori e più, con il nibil obstat, con l'imprimatur),
    tutti gli Ebrei nel medesimo sacco infernale, e aspettando, perché no? nella stessa camera a gas, nel medesimo forno crematorio (« castigo provvidenziale », « collera di Dio »),
    « tutto il popolo », con i suoi capi,
    Gesù ha avuto contro di sé tutti tutti.
    La tradizione è così saldamente radicata che Péguy non esita a valersene nel suo Mystère de la Cbarité de Eanne d'Arc, quella stessa opera nella quale lo abbiamo ascoltato evocare, e con qual tono commosso!, Gesù « Ebreo fra gli Ebrei », la grande felicità di quegli Ebrei che « come dei piccoli fratelli» si sono « riscaldati, nel calore, nel tepore del suo sguardo ». Ma si può citare Péguy, anche nei suoi errori, perché in essi non si riscontra nessuna ingiuria, nessuna bassezza d'animo, - come in altri: (la Madre - essa assomiglia in modo straordinario alla madre di Péguy che ho conosciuta così bene - la povera Madre dice fra sé:
    «Tutti erano contro di lui.
    Tutti volevano la sua morte …
    E il governo e il popolo .
    Questo era il più strano .
    Governo e il popolo
    Che di solito non vanno d'accordo.
    Strano.
    Due mondi che di solito non stanno insieme. Il governo ed il popolo.
    Di modo che il governo ce l'aveva con lui come l'ultimo dei carrettieri
    e l'ultimo dei carrettieri come il governo
    Quando un uomo è caduto, tutti gli vanno addosso».

    Ma la letteratura è una cosa, la storia un'altra, la Sacra Scrittura un'altra ancora. Che dice la Scrittura? Ahimè, le oscurità, le contraddizioni abbondano nei testi evangelici e dobbiamo ora scrutarli con la lente. Perché, se la tendenza generale è la stessa nei quattro Vangeli, (il che significa che sono tutti e quattro tendenziosi), la narrazione del processo romano presenta da un Vangelo all'altro le stesse divergenze di quella del processo ebraico, forse anche più numerose. E ne deriva una grande incertezza.

    Prima fase del processo romano. Accuse « degli Ebrei », interrogatorio di Gesù da parte di Pilato.

    Marco, XV, 1-5: «Al mattino i sommi sacerdoti, con gli anziani, gli scribi e tutto il Sinedrio, dopo aver tenuto consiglio, misero in catene Gesù, lo condussero e consegnarono a Pilato. Allora Pilato prese a interrogarlo: " Sei tu il re dei Giudei? ", Ed egli rispose: "Tu lo dici ". I sommi sacerdoti frattanto gli movevano molte accuse. Pilato lo interrogò di nuovo: "Non rispondi nulla? Vedi di quante cose ti accusano! ". Ma Gesù non rispose più nulla sicché Pilato ne restò meravigliato ».

    Matteo, XXVII, 1-2, 11-14: «Venuto il mattino, tutti i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo tennero consiglio contro Gesù, per farlo morire. Poi, messolo in catene, lo condussero e consegnarono al governatore Pilato ». (A questo punto s'inserisce il sucidio di Giuda).
    «Gesù intanto comparve davanti al governatore, e il governatore lo interrogò dicendo: "Sei tu il re dei Giudei? ", Gesù rispose: "Tu lo dici ". E mentre lo accusavano i sommi sacerdoti e gli anziani, non rispondeva nulla. Allora Pilato gli disse: "Non senti quante cose attestano contro di te? ". Ma Gesù non gli rispose neanche una parola, con gran meraviglia del governatore ».

    Luca, XXIII, 1-7: « Tutta l'assemblea si alzò, lo condussero da Pilato e cominciarono ad accusarlo: "Abbiamo trovato costui che sobillava il nostro popolo, impediva di dare tributi a Cesare e affermava di essere il Cristo re". Pilato lo interrogò: "Sei tu il re dei Giudei? ", Ed egli rispose:
    "Tu lo dici ". Pilato disse ai sommi sacerdoti e alla folla: "Non trovo nessuna colpa in quest'uomo". Ma essi insistevano: "Costui solleva il popolo, insegnando per tutta la Giudea, dopo aver cominciato dalla Galilea fino a qui". Udito ciò Pilato domandò se l'uomo era Galileo e, saputo che apparteneva alla giurisdizione di Erode, lo mandò da Erode che in quei giorni si trovava anche lui a Gerusalemme »

    Giovanni, XVIII, 28-38: «Allora condussero Gesù dalla casa di Caifa nel pretorio. Era l'alba ed essi non vollero entrare nel pretorio per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua. Uscì dunque Pilato verso di loro e domandò: "Che accusa portate contro quest'uomo?". Gli risposero:
    "Se non fosse malfattore, non te l'avremmo consegnato ", Allora Pilato disse loro: "Prenderelo e giudicatelo secondo la vostra legge!". Gli risposero i Giudei: "A noi non è consentito di mettere a morte nessuno".

    Così si adempivano le parole di Gesù che aveva detto di qual morte doveva morire.
    Pilato allora rientrò nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: "Tu sei il re dei Giudei?". Gesù rispose: "Dici questo da te oppure altri te l'hanno detto sul mio conto?". Pilato rispose: "Sono io forse Giudeo? La tua gente e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a me; che cosa hai fatto? ". Rispose Gesù: "Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù". Allora Pilato gli disse: "Allora tu sei re". Rispose Gesù: "Tu lo dici; io sono re. Per questo io sono nato e per questo son venuto nel mondo: per rendere testi¬monianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce". Gli dice Pilato: "Che cos'è la verità? ", E detto questo uscì di nuovo verso i Giudici e disse loro: "lo non trovo in lui nessuna colpa" ».




    Dopo aver letto e riletto questi testi, ecco le osservazioni che sembrano imporsi. Come di solito, le divergenze più importanti si riscontrano fra il gruppo dei Sinottici ed il quarto Vangelo; come di solito, nel gruppo dei Sinottici, la distanza è sensibile tra MarcoMatteo da un lato, Luca dall'altro; con qualche piccola variante, i testi di Marco e Matteo sono identici.
    Noi non sappiamo quando e come gli evangelisti sono stati informati di quanto si è svolto davanti al tribunale romano. Ma sappiamo fino a qual punto la giustizia romana fosse formalista, perfino nei suoi rigori e nella sua brutalità. In questa occasione essa appare stranamente diversa dal solito. .
    È impossibile non essere sorpresi che, alla richiesta delle autorità ebraiche, quando esse giungono con il loro prigioniero, il procuratore risponda con gentilezza; che invece di far mettere l'accusato in prigione, rinviando il giudizio a più tardi, dopo aver esaminato il caso, egli acconsenta ad interrogarlo senza dilazione, anzi, secondo il racconto di Giovanni, che egli esca dal tribunale, e poi vi rientri ed esca nuovamente per parlare con i sommi sacerdoti, perché costoro in un tal giorno (vigilia di Pasqua) volevano evitare ogni contatto impuro.
    Non meno sorprendente il fatto che, ad eccezione di Luca, XXIII, 2, gli evangelisti non diano nessuna indicazione precisa circa le accuse delle autorità ebraiche contro Gesù. Perché quelle espressioni vaghe? (Marco, XV, 3-4; Matteo, XXVII, 12-13). Come si spiega quell'imbarazzo, quel tentativo di sfuggire alla domanda diretta di Pilato: «Di quali colpe accusate quest'uomo? ». Risposta dei sacerdoti: «Se non fosse un malfattore, non te l'avremmo consegnato ».
    Ora, dall'interrogatorio di Pilato, dalla domanda che egli rivolge a Gesù in termini identici nei racconti dei quattro Vangeli (« Sei tu il re dei Giudei = che pretendi essere il re dei Giudei), risulta con evidenza che l'accusa principale mossa contro Gesù è quella di essere un agitatore messianico. Gesù è accusato di pretendere al titolo di Messia-Re, il che era un delitto agli occhi dei Romani, ma niente affatto agli occhi degli Ebrei. Per modesto che fosse « il trionfo delle Palme », non era certo trascorso inosservato agli occhi del procuratore. Ma in un tal caso, la polizia romana, la giustizia romana erano sufficienti. Quale poteva allora essere la parte delle autorità ebraiche? Quella di informatori, di zelanti collaboratori.
    La risposta e l'atteggiamento di Gesù differiscono profondamente fra i Vangeli Sinottici da un lato, il quarto Vangelo dall'altro.
    Nei tre Sinottici Gesù non dice che due parole: «Tu lo dici » (Sy legeis) = Sei tu che lo dici ». Secondo Marco e Matteo egli rifiuta di rispondere a qualunque altra domanda e si chiude in un silenzio assoluto « con meraviglia di Pilato» (Marco, XV, 5; Matteo, XXVII, 14).
    Nel quarto Vangelo, Gesù risponde alla domanda del procuratore con un'altra domanda: «Dici questo da te oppure altri te l'hanno detto sul mio conto? ». Altra contraddizione con Luca, XXIII, 2, secondo il quale i membri del Sinedrio hanno poco prima apertamente accusato Gesù di dirsi Messia-Re. E la contraddizione è ancora più grande rispetto a Marco e Matteo, perché un dialogo vero e proprio si svolge tra Gesù e Ponzio Pilato all'interno del pretorio. Avendo Pilato riproposto la sua domanda, Gesù finalmente risponde: «Sei tu che lo dici, che io sono re ».
    Gesù ha parlato o ha rifiutato di parlare? Bisogna scegliere.
    Non si può dire sì e no “insieme”.
    Nell'una e l'altra versione (dei Sinottici, di Giovanni), la risposta di Gesù non è priva di ambiguità perché comporta due interpretazioni diverse. In realtà Sy legeis, come in precedenza davanti al sommo sacerdote, Sy legeis (Matteo, XXV, 64), si può interpretare in due modi: «Tu lo dici (sottinteso: io lo sono »), oppure: «Sei tu che lo dici (sottinteso: e non io»).
    Se, come vuole l'esegesi ortodossa, si deve optare per il senso affermativo 13, e se Gesù si professa solennemente Messia-Re, rendendo così «sulla sua missione, sulla sua persona la testimonianza che deve a se stesso» 1\ com'è possibile spiegare la dichiarazione di Pilato che troviamo subito dopo in Luca, XXII, 4: «Non trovo nessuna colpa in quest'uomo»? Il P. Lagrange ammette: « È un modo di concludere un po' sbrigativo».
    Osserviamo ancora: nel racconto di Giovanni, Gesù dichiara: « Il mio regno non è di questo mondo» (Giovanni, XVIII, 36) e Pilato non ne afferra il significato perché torna alla carica chiedendo: «Dunque tu sei re? » (XVIII, 37); ora è la risposta di Gesù così netta e categorica come appare nella tradizione e nelle traduzioni abituali: «Tu lo dici, io sono re »?
    Il testo greco Sy legeis oti basileus eimi (letteralmente: tu dici che sono re) può evidentemente, come Sy legeis dei Sinottici, interpretarsi nei due sensi, uno affermativo « Tu lo dici, sono re », l'altro enigmatico « Sei tu che lo dici che io sono re », In questo caso le presunzioni andrebbero alla seconda espressione, poiché basta rileggere il testo di Giovanni per renderei conto che «Sei tu che dici che io sono re» si oppone alla frase seguente «io (sottinteso dico che) sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità ». Così, e così soltanto - ammessa l'autenticità del dialogo si spiegherebbe la conclusione di Pilato: non è colpevole.
    Ma come decifrare tanti enigmi? Come orientarsi in questo terribile Gioco della Morte nel quale ognuno ha rimescolato le carte a modo proprio?
    C'è una sola cosa evidente, la tendenza comune ai quattro Vangeli di ridurre al minimo le responsabilità romane, di portare al massimo le responsabilità ebraiche, e il procedimento si rivela piuttosto maldestro. Del gruppo indissolubile Marco-Matteo fino a Luca e Giovanni, si nota una gradazione netta: in Marco, XV, 5, Matteo, XXVIII, 14, Pilato si stupisce semplicemente del silenzio opposto da Gesù alle accuse delle autorità ebraiche; in Luca, XXIII, 4, dopo la risposta di Gesù «Tu lo dici », Pilato lo dichiara esplicitamente non colpevole, il che è «piuttosto sconcertante », secondo l'ammissione del P. Lagrange; poi, insistendo gli accusatori nella loro requisitoria e alludendo alla Galilea dove è cominciata la predicazione di Gesù, il procuratore si serve di tale pretesto: per liberarsi di una causa seccante, rimanda Gesù a Erode Antipa, tetrarca della Galilea.
    Ancora più «sconcertante» è l'atteggiamento di questo singolare magistrato romano in Giovanni, XVII, 31: in un primo momento, senza fare la minima inchiesta, egli tenta di esimersi da qualsiasi ingerenza: «Prendete1o e giudicatelo secondo le vostre leggi». Al che «i Giudei» (i sommi sacerdoti) replicano che l'hanno già interrogato e condannato, ma che non hanno il diritto di mandare a morte nessuno (come se Pilato lo avesse ignorato). Segue il colloquio fra Pilato e Gesù, poi l'esplicita dichiarazione del procuratore: « lo non trovo in lui nessuna colpa» (Giovanni, XVIII, 38).
    A questo punto s'inserisce una scettica riflessione: «Che cos'è la verità? ». Qui lo storico ha la tentazione di parafrasare Pilato e di dire: «In tutto ciò la verità (storica) dov'è? »,
    Ultima ed importante osservazione: il popolo ebraico non ha nessuna parte, non ha nessun posto in questa prima fase del processo romano. Marco e Matteo non lo menzionano affatto. Giovanni, XVIII, 35 fa dire a Pilato nel corso dell'interrogatorio: «La tua nazione (o la tua gente) e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a me ». « La tua nazione », commenta il molto ortodosso L. C. Fillion, « cioè i suoi rappresentanti ufficiali, i membri del Sinedrio », ma l'evangelista ha messo in causa soltanto Anna e Caifa, escludendo il Sinedrio. « Si », commenta il P. Lagrange, « sono i sommi sacerdoti, anzi tutta la nazione che ha fatto arrestare Gesù». Ma a quale realtà corrisponde tale affermazione? Qui non si tratta che di un'espressione redazionale, di Giovanni, a tendenza dogmatica, e cosi priva di ogni verosimiglianza come la frase seguente attribuita all'ebreo Gesù: «Se il mio regno fosse di questo mondo, la mia gente (= gli Ebrei miei sostenitori) avrebbe combattuto perché io non fossi consegnato agli Ebrei» (Giovanni, XVIII, 36).
    Soltanto Luca, XXIII, 4, rievoca la presenza della folla durante l'interrogatorio: «E Pilato disse ai sommi sacerdoti e alla folla ... ». Se le cose sono andate così come raccontano gli evangelisti, è possibile che un assembramento di persone si sia formato davanti al pretorio, attorno ai sommi sacerdoti e alle loro guardie. Per il momento questa folla resta passiva, non è là che come comparsa. Aspettiamo.
    Seconda fase (in margine al processo romano): Gesù davanti ad Erode.
    Non vi è motivo di soffermarci su questa seconda fase del processo, del tutto sconosciuta a Marco, Matteo e Giovanni. Essa è ricordata dal solo Luca e s'introduce in modo abbastanza singolare nel processo romano, che viene in tal modo diviso in due.

    Luca, XXIII, 7-12: « ... Pilato domandò se era Galileo e, saputo che apparteneva alla giurisdizione di Erode, lo mandò da Erode che in quei giorni si trovava anch'egli a Gerusalemme. Vedendo Gesù, Erode si rallegrò molto, perché da molto tempo desiderava vederlo per averne sentito parlare e sperava di vedere qualche miracolo fatto da lui. Lo interrogò con molte domande ma Gesù non gli rispose nulla. C'erano anche là i sommi sacerdoti e gli scribi e lo accusavano con insistenza. Allora Erode con i suoi soldati lo insultò e lo scherni, poi lo rivestì di una splendida veste e lo rimandò a Pilato. In quei giorni Erode e Pilato diventarono amici; prima infatti c'era stata inimicizia fra loro ».
    Cosi Pilato, procuratore della Giudea, lo stesso che di recente aveva fatto compiere massacri in Galilea, trova il pretesto per rimandare Gesù, accusato di agitazione messianica sia in Galilea che in Giudea, ad Erode, il tetrarca della Galilea. E Erode, quello stesso Erode che aveva fatto decapitare Giovanni Battista solo perché (secondo Giuseppe Flavio) paventava il suo ascendente sul popolo, rimanda Gesù al cortese procuratore. Tali riguardi esagerati, fra uomini sanguinari, sono ben poco credibili, nonostante le informazioni particolari che Luca sembra aver raccolto su Erode Antipa, forse per mezzo di Giovanna, moglie di un intendente di Erode, che figura tra le pie compagne di Gesù (Luca, VIII, 3). È difficile credere che il procuratore romano, rappresentante l'autorità romana, mentre sedeva nel suo pretorio a Gerusalemme, il giorno di Pasqua, tra la folla dei pellegrini ebrei, abbia avuto l'idea di rinunciare al suo potere giudiziario in favore del tetrarca di Galilea; ed è ancor più difficile credere che costui, di passaggio a Gerusalemme, abbia potuto condurre con sé dei soldati (Luca, XXIII, 11) ed esercitare la sua giurisdizione, e che le autorità ebraiche di Gerusalemme «sommi sacerdoti e scribi», abbiano accettata la parte di accusatori davanti ad Erode.
    L'evangelista Luca, a quanto pare, ha riferito l'episodio di Erode solo allo scopo di addossare ad un principe ebreo per metà (di origine idumea e di religione ebraica) ed ai suoi soldati la scena della derisione e degli oltraggi, che la tradizione, raccolta dagli altri evangelisti - canonici - attribuiva ai Romani. «L'analogia è incontestabile », scrive il P. Lagrange, « dalle due parti soldati, beffe, di cui la principale è un abito ridicolo nel suo falso splendore ».
    Dal punto di vista dell'opinione romana, il particolare poteva avere la sua importanza. Quanto a noi, poco importa: si ammetta o no la storicità del racconto di Luca - sarcasmi e oltraggi di Erode e della sua guardia -, le responsabilità ebraiche, del popolo ebraico, non appaiono né aggravate né alleggerite.

    Con un maggior disprezzo delle verosimiglianze, gli autori dei Vangeli apocrifi si sono spinti molto più in là nella via (erodiana) aperta da Luca. Il Vangelo di Pietro 1-2, ha fatto di Pilato un semplice «spettatore ... favorevole a Gesù »; è il re Erode che. pronunzia la sentenza capitale e ne affida agli Ebrei l'esecuzione: « Fategli tutto quello che vi ho ordinato ». « Il racconto apocrifo », scrive il commentatore abate Vaganay, «rivela una certa forza d'immaginazione messa al servizio della polemica corrente», la polemica antiebraica. Ma il Vangelo di Pietro sembra essere posteriore a quello di Giovanni soltanto d'una ventina d'anni. Ed in esso si può constatare fino all'assurdo l'ingrandirsi di una tendenza già molto evidente nei Vangeli canonici.

    Terza fase: Gesù e Barabba; condanna di Gesù strappata a Pilato dalla pressione degli Ebrei.
    È venuta l'ora fatale, doppiamente fatale. «È veramente in questo momento (secondo S. Agostino) che gli Ebrei assumono la responsabilità della crocifissione del loro Messia».
    « E gli Ebrei, non solo i capi e le autorità, ma il popolo intero, ad una sola voce, come in una specie di plebiscito ... ».
    « Tutti erano contro di lui - tutti volevano la sua morte».


    Cominciamo col leggere i testi, venerabili, terribili.

    Marco, XV, 6-15: «Per la festa egli era solito rilasciare un carcerato a loro richiesta. Un tale chiamato Barabba si trovava in carcere insieme ai ribelli che nel tumulto avevano commesso un omicidio. La folla, accorsa, cominciò a chiedere ciò che sempre egli le concedeva. Allora Pilato rispose loro: "Volete che vi rilasci il re dei Giudei? ". Ma i sommi sacerdoti sobillarono la folla perché egli rilasciasse piuttosto Barabba. Pilato replicò: "Che farò dunque di quello che chiamate il re dei Giudei? ". Ed essi di nuovo gridarono: "Crocifiggilo!". E Pilato, volendo dar soddisfazione alla moltitudine, rilasciò loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò perché
    fosse crocifisso ».

    Matteo, XXVII, 15-26: «Il governatore era solito, per ciascuna festa di Pasqua, rilasciare al popolo un prigioniero, a loro scelta. Avevano in quel tempo un prigioniero famoso detto Barabba. Quindi, mentre si trovavano riuniti, Pilato disse loro: "Chi volete che vi rilasci: Barabba o Gesù chiamato il Cristo? ", Sapeva bene infatti che glielo avevano consegnato per invidia.

    Mentre egli sedeva in tribunale, sua moglie gli mandò a dire: "Non avere a che fare con quel giusto; perché oggi sono stata molto turbata da un sogno, per causa sua". Ma i sommi sacerdoti e gli anziani persuasero la folla a richiedere Barabba e a far morire Gesù. Allora il governatore domandò: "Chi dei due volete che vi rilasci?". Quelli risposero: "Barabba! ". Disse loro Pilato: "Che farò dunque di Gesù chiamato il Cristo? ", Tutti gli risposero: "Sia crocifisso! ". Ed egli aggiunse: "Ma che male ha fatto? ". Essi allora urlarono: "Sia crocifisso! ".

    Pilato, visto che non otteneva nulla, anzi il tumulto cresceva sempre più, presa dell'acqua, si lavò le mani davanti alla folla: "Non sono responsabile, disse, di questo sangue; vedetevela voi! ". E tutto il popolo rispose:
    "Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli! ". Allora rilasciò loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò ai soldati perché fosse crocifisso ».

    Luca, XXIII, 13-25: «Pilato, riuniti i sommi sacerdoti, le autorità e il popolo, disse: "Mi avere portato quest'uomo come sobillatore del popolo; ecco, l'ho esaminato davanti a voi, ma non ho trovata in lui nessuna colpa di quelle di cui lo accusate; e neanche Erode; infatti ce l'ha rimandato. Ecco, egli non ha fatto nulla che meriti la morte. Perciò, dopo averlo severamente castigato, lo rilascerò". (Ora egli doveva in occasione della festa liberare loro un prigioniero).
    Ma essi si misero a gridare tutti insieme: "A morte costui! Dacci libero Barabba!". Questi era stato messo in carcere per una sommossa scoppiata in città e per omicidio.
    Pilato parlò loro di nuovo, volendo rilasciare Gesù. Ma essi urlavano:
    "Crocifiggilo, crocifiggilo! ". Ed egli per la terza volta disse loro: "Ma che male ha fatto costui? Non ho trovato nulla in lui che meriti la morte. Lo castigherò severamente e poi lo rilascerò".
    Essi però insistevano a gran voce, chiedendo che venisse crocifisso, e le loro grida crescevano. Pilato allora decise che la loro richiesta fosse eseguita. Rilasciò colui che era stato messo in carcere per sommossa e omicidio e che essi richiedevano, e abbandonò Gesù alla loro volontà ».
    Giovanni, XVIII, 39-40; XIX, 1-16: «" Vi è tra voi l'usanza che io vi liberi uno per la Pasqua; volete dunque che io vi liberi il re dei Giudei? ", Allora essi gridarono di nuovo: "Non costui, ma Barabba! "Barabba era un brigante. Allora Pilato fece prendere Gesù e lo fece flagellare ... », (A questo punto la scena della flagellazione e degli scherni della soldatesca, scena che Marco e Matteo pongono dopo la condanna) ... «Pilato intanto usci di nuovo e disse loro: "Ecco, io ve lo conduco fuori, perché sappiate che non trovo in lui nessuna colpa". Allora Gesù uscì, portando la corona di spine e il mantello di porpora. E Pilato disse loro: "Ecco l'uomo". Al vederlo i sommi sacerdoti e le guardie gridarono: "Crocifiggilo, crocifiggilo! ". Disse loro Pilato: "Prendetelo voi e crocifiggetelo; io non trovo in lui nessuna colpa". Gli risposero i Giudei: "Noi abbiamo una legge e secondo questa legge deve morire perché si è fatto Figlio di Dio".
    All'udire queste parole, Pilato ebbe ancora più paura, ed entrato di nuovo nel pretorio disse a Gesù: "Di dove sei?". Ma Gesù non gli diede risposta. Gli disse allora Pilato: "Non mi parli? Non sai che ha il potere di metterti in libertà e il potere di metterti in croce?". Rispose Gesù: " Tu non avresti nessun potere su di me, se non ti fosse stato dato dall'alto. Per questo chi mi ha consegnato nelle tue mani ha una colpa più grande".
    Da quel momento Pilato cercava di liberarlo; ma i Giudei gridarono: " Se liberi costui, non sei amico di Cesare! Chiunque infatti si fa re si mette contro Cesare". Udite queste parole, Pilato fece condurre fuori Gesù e sedette nel tribunale, nel luogo chiamato Litòstroto, in ebraico Gabbata. Era la Parasceve della Pasqua, verso mezzogiorno. Pilato disse ai Giudei:
    "Ecco il vostro re! ". Ma quelli gridarono: "Via, via! Crocifiggilo!". Disse loro Pilato: "Metterò in croce il vostro re? ". Risposero i sommi sacerdoti:
    "Non abbiamo altro re all'infuori di Cesare". Allora lo consegnò loro perché fosse crocifisso».


    Dopo la lettura dei testi, e prima di iniziarne lo studio, ecco una scelta di commenti « cristiani », che è come una serie ispirata ad una tradizione secolare, da noi ricordata in precedenza, e della quale la principale sorgente d'ispirazione, sorgente inesauribile, è l'atroce versetto di Matteo, XXVII, 25: «E tutto il popolo rispose: «Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli ».


    Voci protestanti.
    Calvino, Commentaires sur l'barmonie éuangélique, ed. 1854, p. 700: «Lo zelo sconsiderato (degli Ebrei) li spinge fino a questo punto che, commettendo un crimine irreparabile, essi vi aggiungono un'imprecazione solenne, con la quale si precludono ogni via di salvezza... Chi dunque non direbbe che tutta questa razza è esclusa del tutto dal regno di Dio? Ma il Signore per mezzo della loro viltà e della loro slealtà dimostra, con tanta maggior chiarezza e magnificenza, la stabilità della sua promessa. E per far conoscere che non invano egli ha concluso un patto con Abramo, egli libera da questa universale dannazione tutti coloro ai quali ha fatto il dono gratuito dell'elezione ».
    E. Stapfer, op. cit., III, p. 199: «Voto orribile, che è stato anche troppo esaudito. La maledizione che grava da secoli sugli Ebrei non è prossima a scomparire. Noi abbiamo messo fine all'intolleranza religiosa ... Ma l'Ebreo porta un marchio indelebile.
    L'antisemitismo, questa cosa odiosa, rinasce sempre di secolo in secolo! ».
    Hébert Roux, op. cit., pp. 320-321: «Parole terribili che mostrano fino a che punto può arrivare l'accecamento e l'irrigidimento d'Israele. I pagani agiscono nell'ignoranza e nell'incoscienza. Israele sa che il Cristo deve venire e pur vedendolo, non crede; in tal modo si condanna da sé» (Commento dell'apostolo Pietro: « Ed ora, o fratelli, io so bene che avete agito per ignoranza ... » Atti, III, 17).
    Gunther Dehn, op. cit., p. 257: « L'intera responsabilità che il popolo assume su di sé è descritta da Marco in maniera impressionante ... È il popolo che è chiaramente responsabile della condanna a morte ». .
    Alexandre Westphal, p. 492: « Ci si può domandare ciò che provano gl'Israeliti sinceri leggendo oggi quelle parole, dopo che diciannove secoli di una sventura che continua tuttora han dato loro un sinistro adempimento ».
    Ma non è lecito anche domandarsi ciò che provano i cristiani sinceri nel constatare il fatto evidente che l'ostilità « cristiana », nutrita da questa tradizione « evangelica », non è estranea al « sinistro adempimento »? Chi lo dice? Un pastore protestante, F. Durrleman: « Che fin dalle origini l'antisemitismo si sia alimentato ad altre cause, certo; che al giorno d'oggi molti nemici d'Israele non stabiliscano nessun rapporto fra il proprio odio e l'odio di un tempo provato verso Gesù Cristo dai rappresentanti ufficiali del giudaismo, d'accordo. Ma l'avversione profonda e quasi istintiva durata nei secoli per gli Ebrei, non proveniva dall'indignazione tumultuosa provocata dal grido, fatto di leggerezza e di ferocia ad un tempo, dei loro antenati riguardo al Cristo: « Che il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli »? (Jésus, ed. La Cause, 1928, 102).
    Poche parole del Vangelo hanno fatto un male maggiore di quella », scrive un esegeta libero-pensatore, che brutalmente aggiunge « e non è che un'invenzione del redattore! ».

    Voci cattoliche.
    Dom Guéranger, L'année liturgique, La Passion, pp. 505-509: « Le voci che, alcuni giorni prima, cantavano " Osanna " al figlio di Davide, si sono trasformate in urla feroci» (come se fosse provato che erano le stesse voci! ) ... « Israele è come la tigre, la vista del sangue stimola la sua sete; non è soddisfatto se non quando vi s'immerge ... E tutto il popolo risponde a Pilato con quel voto spaventoso: "Che il suo sangue ricada su noi e i nostri figli! ". Quello fu il momento in cui il marchio del parricidio venne a imprimersi sulla fronte del popolo ingrato e sacrilego, come nel passato sulla fronte di Caino; diciannove secoli di servitù, di miseria e di disprezzo non l'hanno cancellato », P. 202: « Quale condanna spaventosa Giuda portava contro se stesso ... Dio l'intese e se ne rammentò ». Già, questi chierici non temono di attribuire a Dio i loro sentimenti, umani e disumani.
    L. Cl. Fillion, Vie de notre Seigneur Jésus-Christ, III, p. 459: « La truce folla che reclama a gran voce la morte di Gesù fa un augurio esecrabile di cui non tarderà a portare tutto il peso. L'anatema che ha lanciato contro se stessa e contro le generazioni future si è pienamente realizzato quarant'anni più tardi, quando i Romani si impadronirono di Gerusalemme e misero tutto a ferro e a fuoco. Venne crocifisso un numero cosi grande di infelici abitanti della città che, secondo quello che riferisce Giuseppe Flavio, non si trovò più legna per fabbricare le croci. Fu uno spettacolo orribile nel quale non si stenta a vedere il castigo che il popolo deicida aveva richiamato sopra il suo capo».
    Il P. Joseph Huby, L'Evangile et les Evangiles, p. 96: « Nel Vangelo di Matteo, più che in qualunque altro scritto, viene messa in evidenza l'asprezza del conflitto fra Gesù e i capi del popolo, sommi sacerdoti, scribi e farisei, che trascinano la massa ebraica e la rendono complice della loro infedeltà: "Che il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli!". Ma questo scandalo della incredulità ebraica non potrà annullare il disegno salvifico di Dio. Al posto di Israele colpevole, altri invitati verranno da ogni parte del mondo ad assidersi alla mensa del Padre di famiglia ».
    Il p. F. Prat, Jésus-Cbrist, II, p. 372: « se con uno sguardo profetico avessero potuto scrutare l'avvenire ... Guerra straniera, guerra fratricida, carestia e contagi, tutti i mali piomberanno su di loro in una volta sola ... E questo non sarà che il preludio delle vendette divine ... I miserabili resti di Israele saranno dispersi in tutto il mondo quant'è vasto per portarvi, sino alla fine dei secoli, il peso di questa misteriosa maledizione », P. 390: «Innocenti e colpevoli, saranno coinvolti nella stessa catastrofe. Israele ... riceverà come popolo il castigo dei propri misfatti... Tale è la sorte che aspetta questa razza infedele ».

    Il P. Lebreton, La vie et l'enseignement de Jésus-Cbrist, II, p. 417: «La maledizione del sangue versato: gli Ebrei, accecati dalla passione, ne invocano tutto il peso su loro stessi e sui loro figli; lo risentiranno infatti. E nel destino di questo popolo vi è una lezione per tutta l'umanità ... Quel sangue che doveva dar loro la vita, grida vendetta contro loro stessi, più forte del sangue di Abele. Di fronte a questi castighi Gesù ha pianto invano; morendo egli ha visto che i suoi tormenti e la sua morte sarebbero stati per il mondo intero una sorgente di vita, ma per il popolo che egli amava sopra ogni altro su questa terra, per il suo popolo, la sua morte sarebbe stata la causa di un castigo terribile, e contro questa volontà inesorabile la sua misericordia si è infranta.

    Léon Bloy, Le salut par les fui/s, p. 95: « Questo popolo indemoniato non urlava forse: "Che il suo sangue ricada su noi e sui nostri figli!"? Bisognava pure accontentarlo, attuando, col vilipendio senza fine d'un intero popolo, il versetto penale di quel Testamento Nuovo, profetico come l'Antico, del quale fu detto che né un iota né un punto sarebbero cancellati finché dureranno il cielo e la terra ». «Nel momento culminante della Passione, quando centomila Ebrei esasperati gridavano che fosse crocifisso ... » (Citato da S. Fumet, Mission de Léon Bloy, p. 244).

    Paul Claudel, Un poète regarde la Croix, p. 40: «E gli Ebrei, non solo le autorità e i capi, ma tutto quanto il popolo, ad una sola voce, come per un plebiscito, quel popolo che poco prima portava Gesù in trionfo, l'uomo candido che ancora una volta deludeva le sue speranze temporali, gli Ebrei, dicevo, gridavano in coro, pestando i piedi, con una voce che oggi ancora fa tremare le volte delle nostre cattedrali: "Non bune sed Barabbam!" Con Barabba almeno si sa con chi si tratta, quanto a Gesù, ne abbiamo abbastanza. Tolte! tolte! La nostra nazione lo vomita! Portatelo via! Non lo vogliamo più vedere! Non è possibile! Ci lasci in pace! Purificate la nostra atmosfera! Colpevole o non colpevole, non vogliamo più saperne di lui, semplicemente. Le conseguenze saranno per noi. Il suo sangue ricada su noi e sui nostri figli! Non ne avete abbastanza? Che vi occorre ancora? ».

    Giovanni Papini, I testimoni della Passione, pp. 186-187: «I Romani furono dei semplici esecutori materiali; gli Ebrei, e soltanto gli Ebrei, concepirono e vollero il deicidio ... I nostri padri (dice il gran rabbino dell'esilio) hanno chiesto che il sangue del Cristo ricadesse su di loro e noi non vogliamo rinnegarli. Guarda i nostri capelli e ci troverai ancora qualche goccia del sangue di Gesù ... ».

    François Mauriac, più tenero di cuore, condanna gli Ebrei ad una maledizione soltanto temporanea: «Il povero popolo gridò: " Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli! ". Cosi fu, cosi è, ma non per una maledizione eterna: il posto d'Israele è riservato alla destra del Figlio di Davide» (Vie de Jésus, p. 266). Ma lo stesso autore ha scritto poco prima (pp. 222-223): «Nel dramma del Calvario, ordinato da tempo immemorabile, non conveniva che i Romani avessero una parte diversa da quella di carnefici. Israele si servirà di loro per immolare la propria vittima; ma la vittima è anzitutto sua ».

    « Non conveniva che i Romani avessero una parte diversa da quella di carnefici ». Non conveniva ... A chi?

    Abbiamo già citato Daniel Rops: « Quell'ultimo voto di un popolo da lui eletto - " Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli! " - Dio nella sua giustizia l'ha esaudito »; ed abbiamo ricordato anche queste frasi « di un insostenibile orrore », prese letteralmente a prestito da Daniel Rops dal saggio di uno scrittore cattolico tedesco: «Non toccava certo a Israele di non uccidere il suo Dio, dopo averlo rinnegato, e, come il sangue chiama misteriosamente il sangue, non tocca tanto meno alla carità cristiana di fare si che l'orrore dei pogrom compensi, nell'equilibrio segreto delle volontà divine, l'insostenibile orrore della Crocifissione ». E citiamo ancora queste altre frasi: «Per quale misteriosa legge di ritorsione e di somiglianza, queste persecuzioni e questi oltraggi si sono abbattuti, da venti secoli a questa parte, sulla razza che, più dei feroci soldati e più dello stesso Pilato, ne aveva preso l'obbrobrio su di sé e che avrebbe reclamato per sé come un onore la responsabilità del sangue da versare ... » (Jésus en son temps, p. 523).

    E ancora: «Il volto di Israele perseguitato riempie la Storia, ma non può far dimenticare quell'altro volto coperto di sangue e di sputi, per il quale la folla ebraica non ha avuto pietà» (pp. 526527). « Non potendo, a causa delle interdizioni imposte dalla potenza occupante, uccidere Gesù, gli Ebrei hanno manovrato quell'ostinazione e quella cautela dimostrate in altre circostanze, in modo che il Romano s'incaricasse di eseguire la loro condanna» (p. 529).
    Secondo il P. Bonsirven, Les ]uifs et ]ésus, pp. 184-185, vi sarebbe qualche oscillazione nella dottrina tradizionale: «A questo riguardo è molto significativo l'atteggiamento di S. Tommaso d'Aquino nel suo commento su san Matteo (XXVII, 25) ... egli scrive dapprima: «Fino ad oggi quell'imprecazione ha continuato a pesare sugli Ebrei ed essi non possono sbarazzarsi del sangue del Signore ». Ma subito dopo cita l'interpretazione di san Giovanni Crisostomo: «Sia pure, invocate su voi stessi la maledizione, ma perché la invocate anche sui vostri figli? E tuttavia Dio, che ama gli uomini, di fronte a questi insensati... non solo non pronuncia contro di loro e contro i loro figli una sentenza di condanna, ma accoglierà e colmerà di benefici a migliaia quelli che si convertiranno, loro ed i loro figli ». Ed il P. Bonsirven aggiunge: «Queste due esegesi hanno sempre avuto corso presso i cattolici: troveremo l'interpretazione severa perfino in commentari moderni; viceversa parecchi commentatori contemporanei osservano che la frase degli Ebrei significava semplicemente che essi assumono la responsabilità della sentenza di Pilato ». Notate questo
    « semplicemente ».
    Fra queste interpretazioni non è facile distinguere chiaramente.
    Quello che è certo, è che « l'interpretazione severa» supera l'altra con una maggioranza schiacciante.
    Ma ecco l'opinione, ben ponderata, di un savio teologo, l'abate Journet, Destinées d'Israel, pp. 134-135: «La colpa d'Israele è una colpa collettiva, commessa anzitutto dai capi e dagli agitatori d'Israele, «i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo» (Matteo, XXVIII, 1), «i sommi sacerdoti con gli anziani e gli scribi e tutto il Sinedrio » (Marco, XV, 1), alla quale colpa la maggior parte della folla riunita a Gerusalemme per le feste di Pasqua ha nondimeno partecipato in un modo tremendo,
    senza tuttavia rendersene conto ».
    L'autore si appoggia principalmente a S. Agostino, Enarr. In Ps., LXV, 5: «Il Signore è risuscitato e molti Ebrei hanno creduto. Essi lo avevano crocifisso senza capire; in seguito hanno creduto in lui e quella colpa così grande è stata loro perdonata. Il sangue del Signore che essi avevano versato è stato perdonata agli omicidi io non dico ai deicidi, perché se avessero capito non avrebbero crocifisso il Signore della gloria, I Coro II, 8. L'omicidio d'un innocente è stato loro perdonato, il sangue versato per follia essi lo hanno bevuto per grazia ».
    « In realtà », aggiunge l'abate Journet, « il sangue di Gesù è, per il popolo che lo ha versato, una causa di sventura. E nel contempo è stato già per questo popolo una causa di conversione parziale, e sarà un giorno una causa di conversione totale. Tale è il fondo dell'esegesi tradizionale» (p. 195).

    Di essa la più nobile espressione appare nella conclusione della preghiera di un pontefice di grande cuore, Pio XI, Atto di consacrazione del genere umano al Sacro Cuore: «Guardate con misericordia ai figli di questo popolo che fu un giorno il vostro prediletto. Scenda su di loro, ma oggi in battesimo di vita e di redenzione, quel Sangue che in altri tempi essi invocavano sul loro capo ». Parole cristiane queste, e non più danza dello scalpo.

    Non dimentichiamolo tuttavia: umani o disumani, cattolici o protestanti, tutti quanti sono d'accordo per affermare che là, davanti a Pilato in quell'ora unica che vale per gli uomini più di ogni altra ora al mondo, il popolo ebraico, tutto il popolo, ha preso su di sé esplicitamente, espressamente, la responsabilità del Sangue innocente. Responsabilità totale, responsabilità nazionale. Rimane da appurare in qual misura i testi e la realtà che essi lasciano intravedere giustificano la spaventosa realtà d'una simile affermazione.
    A prima vista si resta colpiti dall'accordo, almeno apparente, dei quattro evangelisti su quello che è il fondo del dibattito: le responsabilità ebraiche.

    Nei quattro racconti lo schema, con qualche variante, è identico: Ponzio Pilato, bonario procuratore, disposto a lasciare libero Gesù; gli Ebrei, ferocemente accaniti, che preferiscono a Gesù un Barabba; e finalmente Pilato che cede alle loro pressioni, alle loro minacce, al loro ricatto: Barabba libero, Gesù crocifisso.
    «Impressionante parallelismo».

    Ma l'impressione è superficiale. Allo storico che legge e rilegge i quattro testi, appare chiaramente che una sola verità di fatto si sprigiona con evidenza: Gesù è stato flagellato, poi crocifisso per ordine del procuratore romano. Non arriverò fino al punto di dire con certi esegeti: tutto il resto è letteratura tendenziosa, polemica. Ma mi sento autorizzato a dire, con la ferma convinzione di non ledere i diritti e i doveri della critica storica: il resto ha una credibilità discutibile.

    Che Pilato abbia pronunziato la sentenza di morte sotto la pressione degli Ebrei, i quattro evangelisti lo testimoniano con

    segue
     
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  3. Veritas
     
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    CITAZIONE
    Che Pilato abbia pronunziato la sentenza di morte sotto la pressione degli Ebrei, i quattro evangelisti lo testimoniano con..

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    Se mi è concesso esprimere la mia opinione in merito, io credo che tutto ciò serva a poco, e comunque non certo alla causa relativa alla ricerca della verità storica.

    Da secoli e secoli il corpo rabbinico, di generazione in generazione, si tramanda la verità circa la vera fine che fece Gesù di Nazareth. Ciò che appare nel Talmud e nelle Toledoth, sebbene mistificata e criptata (per le necessità che ben conosciamo) è solo una parte della verità.

    Una verità che, almeno in teoria, potrebbe essere rivelata senza pericoli di rappresaglia, visto che oggi il popolo ebraico vive nel suo stato indipendente, al riparo dalle infernali persecuzioni cattoclericali del passato.

    Se ciò avvenisse, se tale allucinante verità venisse alfine rivelata, sarebbe un atto dovuto nei confronti delle migliaia e migliaia di vittime giudaiche degli ultimi 15 secoli(*), cadute sotto la rabbiosa persecuzione di una delle più criminali istituzioni che la storia abbia mai conosciuto: la SANTA INQUISIZIONE CATTOLICA!! (forse qualcuno rimarrà sopreso, ma, almeno formalmente, tale ignobile istituzione viene ancora oggi definita 'santa'!)

    Tuttavia, tale verità non viene rivelata dall'apparato religioso israelita (e, ovviamente, da quello politico). Non ci vuole molto a capirne il motivo: dette autorità non vogliono assolutamente nuocere più di tanto all'istituzione religiosa cristiana, sia essa cattolica o no, e questo per mero calcolo politico-economico, il cui reale aspetto non è difficile da immaginare....


    Per la cronaca, Gesù di Nazareth NON FU MAI CROCIFISSO!!...

    E' altamente probabile che Gesù Barabba (Bar Abba, cioè 'Figlio del Padre': ma NON D-o, bensì un COMUNE padre terrestre!) venne effettivamente processato da Pilato, in merito al fatto che Gesù Barabba assistette, suo malgrado, all'omicidio di un cittadino gerosolimitano, come gli stessi vangeli lasciano chiaramente intendere. (sebbene il riferimento sia ad uno sconosciuto 'Barabba' che, nella letteratura patristica, troviamo 'stranamente' indicato come Ieous/Iesoun Barabbas/Barabban!). Non solo, ma nella versione slava di Giuseppe Flavio abbiamo la conferma che Gesù venne rilasciato da Pilato (e questo è l'esatto motivo per cui in un certo 'filone' di chiese cristiane primitive, la figura di Pilato era venerata quasi come quella di un santo!).

    Naturalmente, il rilascio di Gesù Barabba avvenne perchè egli risultò estraneo al fatto criminoso relativo all'omicidio (commesso sicuramente da un 'sicario' mescolato alla folla: forse la stessa folla che ascoltava le omelie del predicatore esseno-nazareno Gesù di Nazareth, alias Gesù Barabba).

    Tuttavia, non è escluso che la decisione del rilascio di Gesù da parte di Pilato, avvenne in seguito all'intervento di Erode Antipa, il quale detestava Pilato per il modo in cui trattava i suoi compatrioti giudei e samaritani. Nei vangeli è riportato che, dopo il 'fatto', Antipa divenne 'amico' di Pilato. (ovviamente Antipa, per ottenere il rilascio di Gesù, dovette, 'obtorto collo', rendere omaggio all'odiato tiranno romano). Esistono precise giustificazioni storiche che spiegano il motivo dell'intervento di Antipa (tetrarca di Galilea e di Perea) a favore del Nazareno.

    Inoltre, esistono tutta una serie di evidenze che provano che Gesù di Nazareth NON venne crocifisso, anche perchè egli morì di morte violenta in tarda età (all'incirca 66 anni).

    Per la cronaca, Gesù di Nazareth venne giustiziato dai giudei mediante lapidazione, intorno all'anno 72, quando egli, come già detto, aveva raggiunto l'età di 66 anni (il doppio di 33, come è riportato 'cripticamente' nel Talmud!). L'evento ebbe luogo nei pressi della cittadina di Lydda (oggi LUD), dove Gesù venne processato e condannato a morte dal Sinedrio.

    L'esecuzione, mediante lapidazione, avvenne in una piantagione di ulivi, in cui era presente un frantonio per le olive ed il pozzo ad esso funzionale, per la rccolta del liquido di spremitura di tali frutti (shemen). In ebraico, per esprimere tale luogo in cui si trovavano frantoio e pozzo si usava (e probabilmente si usa ancora!) la locuzione 'orto con il GOL-GOTH-TAH! (cioè, 'pozzo del frantoio')... Penso che non ci sia bisogno di aggiungere altro.. (**) Probabilmente la tradizione giudaica si tramandava che Gesù il Nazareno, elevato agli 'altari' divini dai padri fondatori, venne lapidato a Lydda, vicino al 'pozzo del frantoio', cioè Gol-goth-tah!

    Dopo averne constatato il decesso, il corpo venne appeso al ramo di un albero (probabilmente di ulivo) secondo il dettame della Legge ebraica. (v. Deuteronomio)

    Sempre per la cronaca, per indicare quella parte del corpo che noi chiamiamo 'cranio' o 'teschio', in ebraico si usa la parola 'GULGULTHAH'. Inoltre, in nessuna parte dei testi ebraici, sia Tanach che Talmud o altra scrittura 'minore', è riportato che nei pressi di Gerusalemme fosse esistito un colle chiamato 'colle o collina del teschio'!!...

    Qualunque persona di buon senso, a questo punto, è in grado di prendere atto della circostanza che, grazie alla provvidenziale analogia fonetica e grafica delle due parole, vale a dire GULGULTHAH e GOLGHOTAH, per gli inguaribili falsari fu un giochetto da ragazzi far credere che Gesù venne 'crocifisso' sul colle del 'Golghotah', cioè, secondo le loro ribalde intenzioni, sul colle del 'teschio'! (addirittura si parlò del teschio di Abramo o di David!!).

    Sicuramente, un po' per affari, un po' per vendetta, i ribaldi giudei palestinesi del IV secolo in avanti, si divertirono un mondo a 'rifilare' agli attoniti pellegrini cristiani, le più esilaranti 'reliquie' sacre che la loro fantasia poteva immaginare!! (casetta 'di Nazareth', a Loreto, docet!)

    Al fine di poter celebrare, senza suscitare soverchia curiosità o soverchi sospetti, il sito in cui Gesù venne effettivamente giustiziato, i falsari si inventarono persino un santo 'famoso': SAN GIORGIO, il quale venne giustiziato a Lydda dopo che '72 giudici' (ovviamnete i 72 giudici del Beth Din che giudicarono Gesù) l'avevano condannato a morte.

    Malgrado i ripetuti tentativi per giustiziarlo esperiti dai 'boia', Giorgio, in un modo o nell'altro, riusciva sempre a scampare la morte, anche ricorrendo alla RESURREZIONE!!.. Nel IV-V secolo, papa Gelasio decise di far rimuovere dal martiriologico cristiano tale famigerato santo, dal momento che non esisteva la minima traccia storica che potesse sostenere confortevolmente l'esistenza di questo 'alter ego' di Gesù di Nazareth!

    Qualcosa di assolutamente analogo, avvenne anche per il reale luogo di nascita di Gesù e per l'effettivo luogo in cui Maria Vergine ricevette l'annuncio 'angelico' della sua avvenuta 'impregnatura'...

    E' probabile, come del resto è legittimo aspettarsi, che prima di essere consegnato al giudizio del Sinedrio, Gesù sia stato 'esplorato' dalla più alta carica romana presente in quell'epoca (72) in Palestina: TITO FLAVIO VESPASIANO, figlio dell'omonimo padre (anch'egli Tito Flavio Vespasiano), allora imperatore di Roma.

    Dal momento che, quasi sicuramente, Tito aveva già conosciuto in precedenza Gesù e, quasi sicuramnente, sia lui che suo padre gli erano diventati anche amici, egli fu probabilmente restio a farlo condannare a morte (questo aspetto della vicenda è stato retrodatato ai tempi di Pilato, fattone diventare truffaldinamente il 'protagonista'!). Tuttavia egli incontrò un fiera e decisa resistenza da parte delle autorità giudaiche, decise a far giustiziare Gesù. Con tutta probabilità, tali autorità ricordarono a Tito che era suo dovere far giustiziare il caporibelle Gesù, negli stessi interessi dell'impero. Alla fine Tito fu costretto a 'lavarsene' la mani ed a consegnarlo in mano al Sinedrio.

    Secondo quanto riportato da un testo siriaco, Gesù, davanti al Beth Din, si comportò in modo tutt'altro che coraggioso, rimanendo impietrito dalla paura...

    Coloro che vollero giustiziare Gesù a tutti i costi, furono tra quelli che l'odiarono più di tutti, per tutta una serie di ragioni. Tra queste, di sicuro una era pienamente giustificabile sul piano umano. Infatti, negli ultimi anni della sua vita (tra il 66-70) egli si trasformò prima in un capobandito e poi (forse perchè convinto dallo stesso Giuseppe Flavio) in un caporibelle, aderendo al fronte della rivolta armata contro Roma. Rivolta che fu tenacemente avversata dall'apparato giudaico filoromano (sadducei, sacerdoti, erodiani, alta borghesia farisaica, etc.), il quale temeva drammaticamente ciò che poi puntualmente avvenne: distruzione quasi totale di oltre i 2/3 della Palestina, inclusa la capitale Gerusalemme ed il suo nuovissimo tempio da poco inaugurato!... (cosa che sicuramente provocò l'ira furibonda dell'apparato sacerdotale, il quale paventava ormai il definitivo declino)

    Si può dunque capire la rabbia incontrollabile che le autorità giudaiche provarono verso tutti i responsabili (i caporibelli), i quali avevano 'spinto Israele fuori della retta via' (come si legge nella sentenza di morte di Gesù emessa dal Sinedrio), provocando l'immane tragedia che la storia ha registrato.

    Subito dopo la fine delle ostilità, romani e funzionari giudaici si diedero alla 'caccia' dei caporibelli riusciti a scampare al disastro (ve ne erano anche fuori della Gerusalemme assediata dalle legioni di Tito). Gesù fu tra questi caporibelli ricercati. Egli venne catturato (probabilmente all'interno di una locanda) presso la città di Tiberias e poi condotto a Lydda per essere giudicato dal Sinedrio (Beth Din), il quale si trovava ospite dell'Accademia Rabbinica di quella città, a causa della distruzione di Gerusalemme.



    Saluti


    ____________________________________________

    Nota:

    (*) - a cui si dovrebbero aggiungere i 6 milioni di ebrei dell'Olocausto, vittime dell'uomo della 'provvidenza' Adolf Hitler (l'ultimo, 'grande' crociato cristiano, creatura 'allevata' da Pio XII per eliminare dal mondo gli 'infernali' comunisti, ebrei, liberali illuministi, gli odiati massoni e tutte le altre etnie religiose minori presenti in Europa ed invise al 'beato' papa Pacelli!).

    (**) - è altamente probabile (se non certo) che insieme a lui venne giustiziato anche il suo gemello Giuda detto 'Tomaso' (cioè 'gemello'), in quanto il martiriologico di 'santa romana chiesa' lo dà 'martirizzato' nell'anno 72, in INDIA!!.. [in base alla storiella, priva di fondamento (v. Atti di Tomaso), secondo la quale Giuda Tomaso si recò in Oriente per 'evangelizzare' l'INDIA]. Giuda seguì come un' 'ombra' il suo gemello Gesù per tutta la vita e, sicuramente, sino alla morte.


    Veritas

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    אריאל פינטור

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    per indicare quella parte del corpo che noi chiamiamo 'cranio' o 'teschio', in ebraico si usa la parola 'GULGULTHAH'.

    a dire il vero cranio in ebraico è "Golgolet"
     
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    אילון

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    Veritas,26/1/2010, 23:19

    Se mi è concesso esprimere la mia opinione in merito, io credo che tutto ciò serva a poco, e comunque non certo alla causa relativa alla ricerca della verità storica.

    Certamente che ti è concesso esprimere le tue opinioni, tra l'altro tra le varie versioni alternative circa quegli eventi, anche questa questa è interessante.
    Però al fine di una ricerca storica seria, la monumentale opera certosina di ricerca di Jules Isaac, della quale ho riportato alcuni stralci, è caratterizzata dauna miriade di riferimenti controllabili, sulla ricostruzione da te postata non leggo un solo riferimento, è nominato il Talmud, è vero ci sono scritte tante cose (immaginati un'enciclopedia Treccani che occupa tutta una stanza), dove sarebbe scritta di preciso?
    CITAZIONE
    Da secoli e secoli il corpo rabbinico, di generazione in generazione, si tramanda la verità circa la vera fine che fece Gesù di Nazareth. Ciò che appare nel Talmud e nelle Toledoth, sebbene mistificata e criptata (per le necessità che ben conosciamo) è solo una parte della verità.

    Leggenda metropolitana, credimi.


    CITAZIONE
    Una verità che, almeno in teoria, potrebbe essere rivelata senza pericoli di rappresaglia, visto che oggi il popolo ebraico vive nel suo stato indipendente, al riparo dalle infernali persecuzioni cattoclericali del passato.

    Sai, se ad un certo punto, l'innocente che ha pagato come colpevole viene scoperto come veramente colpevole, cosa gli fanno, avendo già pagato? Pensi che ricomincerebbero con il deicidio e l'uccisione del messia? Bah ......

    CITAZIONE
    Per la cronaca, Gesù di Nazareth NON FU MAI CROCIFISSO!!...

    E' altamente probabile che Gesù Barabba (Bar Abba, cioè 'Figlio del Padre': ma NON D-o, bensì un COMUNE padre terrestre!) venne effettivamente processato da Pilato,

    Eh, aspetta, non hai letto segue? Domani se ho tempo metto qualche altra pagina.



    CITAZIONE
    Per la cronaca, Gesù di Nazareth venne giustiziato dai giudei mediante lapidazione, intorno all'anno 72, quando egli, come già detto, aveva raggiunto l'età di 66 anni (il doppio di 33, come è riportato 'cripticamente' nel Talmud!). L'evento ebbe luogo nei pressi della cittadina di Lydda (oggi LUD), dove Gesù venne processato e condannato a morte dal Sinedrio.

    E i riferimenti?


    CITAZIONE
    Secondo quanto riportato da un testo siriaco, Gesù, davanti al Beth Din, si comportò in modo tutt'altro che coraggioso, rimanendo impietrito dalla paura...
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    Interessante, quale testo?
    Se leggi sopra, se ne è parlato accuratamente.


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  6. Veritas
     
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    CITAZIONE (Negev @ 26/1/2010, 23:49)
    CITAZIONE
    per indicare quella parte del corpo che noi chiamiamo 'cranio' o 'teschio', in ebraico si usa la parola 'GULGULTHAH'.

    a dire il vero cranio in ebraico è "Golgolet"

    Alcuni anni fa, quando venni a sapere che nessun testo ebraico riportava la presenza nei pressi di Gersalemme di un colle chiamato 'Golgotha', il quale dovrebbe significare 'teschio', mi sono messo alla ricerca del possibile signifcato di tale parola, in quanto avevo cominciato a sentire puzza di 'bruciato' dietro tutto ciò.

    Mi misi a cercare anche l'esatta dicitura della parola 'teschio' in ebraico. E fu così che scoprii che il termine 'canonico' era 'gulgultha': almeno questo era quello che avevo trovato su Internet su alcuni siti. Ora che ho ripetuto l'operazione, dietro la tua precisazione, mi accorgo che il motore di ricerca mi fa le 'pernacchie'. Sono andato così a controllare un dizionario biblico ebraico-greco (che però mi serve a poco perchè non conosco il greco!) ed ho trovato 'gulgolet', così come anche in alcuni siti, di cui ne riporto uno come 'campione': www.ascent.org.il/Teachings/Advance...eadsskulls.html. Tuttavia si trova anche 'golgolet'.

    Ho comunque conservato, nel mio incasinato archivio, le pagine da cui ho ricavato 'gulgultah'. Quanto prima conto di rivisitarle. Tuttavia, rimane la possibilità che 'gulgultha' possa essere stata la forma aramaica di 'gulgolet'. Infatti, esiste troppa differenza fonetica tra questa parola e 'golgotha', mentre 'gulgultha' offre un'assonanza molto più aderente.

    Per ciò che concerne 'Golgotha', ho immaginato che potesse trattarsi di una frase 'agglutinata' e così ho cominciato con 'gol' (o 'gal') ricavando l'indicazione che si trattava di un termine utilizzato per 'recipiente', catino, bacino di raccolta ed anche pozzo, sebbene per questa parola ne esista una più specifica (che ora però non ricordo); quando poi ho trovato che 'goth' (o 'gath') significava frantoio per le olive (gath-shemen), allora tutto mi fu chiaro, anche perchè ormai sapevo che Gesù venne lapidato e poi appeso al ramo di un albero(*).

    Inoltre, avevo già trovato assurdo il fatto che gli antichi fossero stati così sciocchi da localizzare un frantoio per le olive (gath-shemen o 'getzemani') in cima ad un monte o lungo le pendici dello stesso, costringendo così i poveri raccoglitori a trasportare le olive raccolte in basso su in alto per poterle frantumare nel frantoio. Ergo, quel frantoio doveva trovarsi in tuttaltro luogo. Del resto, è ovvio che se v'era bisogno di appendere ad un albero il corpo di un lapidato, bisognava per forza spostarsi nelle campagne adiacenti al centro abitato(**). Ed è dunque del tutto plausibile che, in tale luogo (orto), oltre all'albero vi potesse essere anche un frantoio con il pozzo ad esso funzionale: in una parola, un GOL-GOTH-THA!

    Se non vi fosse stata la necessità di mistificare tale compromettente aspetto (compromettente per il 'sacro' castello di menzogne edificato dai 'padri fondatori'!) non vi sarebbe stato alcun motivo di tirare fuori la 'storiella' del 'gath-shemen', tanto più che, come ci informa il Talmud e come ci COMFERMA IL VANGELO Di GIUDA(***), Gesù venne arrestato in un luogo chiuso, sicuramente all'interno delle stanze di una locanda (forse in Tiberias, come riportano le Toledoth).

    Dunque, niente Monte degli Ulivi... Ma allora perchè la storiella del GATH-SHEMEN?.. Perchè la storiella del GOL-GOTH-THA che non vuol dire affatto teschio o cranio (gulgolet)?.... Perchè tirare fuori la storiella del 'Calvario', quando NESSUNA fonte ebraica conferma l'esistenza di un colle o collina chiamato 'colle del teschio' nei pressi di Gerusalemme?... Tutto ciò non avrebbe senso se non fosse servito per mistificare ed obnubilare la verità secondo la quale Gesù venne lapidato nei pressi del pozzo di un frantonio, situato in un orto con degli ulivi!...


    Saluti

    _______________________________

    Nota:

    (*) - Talmud Sanhedrin 43a e 67a.

    (**) - Ebrei - 13: [12]Perciò anche Gesù, per santificare il popolo con il proprio sangue, patì fuori della porta della città. (nessun riferimento al presunto colle 'Golgotha', n.d.r.)

    (***) - questo e NON altri è il VERO motivo del feroce ostracismo vaticano nei confronti del vangelo di Giuda!.. Vale a dire la conferma devastante di ciò che riporta il Talmud in merito all'arresto di Gesù! (Sanhedrin 67a)


    Veritas
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    Edited by Veritas - 27/1/2010, 13:35
     
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    אילון

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    insistenza, in perfetto accordo. Ma poiché la loro testimonianza è di accusa, è interessata e passionale, è una testimonianza indiretta e tardiva, è impossibile, onestamente parlando, di accettarla senza riserve.
    Ma è poi giusto dire « i quattro»? Questo numero ha un significato soltanto se si ha il diritto di considerare le quattro testimonianze del tutto indipendenti l'una dall'altra. Chi oserebbe affermarlo? L'opinione contraria s'appoggia su probabilità assai più forti. È molto probabile che Matteo, Luca, e lo stesso Giovanni abbiano conosciuto il racconto di Marco che è il più antico e al quale si sono più o meno ispirati. Ciò salta agli occhi per quanto riguarda il primo Vangelo: Matteo segue quasi letteralmente il testo di Marco, con alcuni ritocchi ed alcune aggiunte tendenti, il più delle volte, ad aggravare le responsabilità ebraiche o a dimostrare il compimento delle Scritture (ebraiche). Il P. Lagrange riconosce la dipendenza del Matteo greco (il solo che conosciamo) da Marco e che « l'accordo dei due evangelisti è al massimo nel racconto della Passione ». Aggiunge: «È verosimile che un racconto della Passione sia stato redatto molto per tempo a Gerusalemme e che abbia fatto testo». Pura ipotesi, che non ha alcun appoggio. Matteo ha seguito Marco molto da vicino: ecco il fatto. Per quanto riguarda Luca e Giovanni, tutto denota che hanno egualmente conosciuto il testo marciano; se essi lo han seguito meno fedelmente, meno esclusivamente, se hanno attinto anche ad altre fonti, non sono per questo meno tributari di Marco. Dopo queste constatazioni, l'accordo dei quattro evangelisti colpisce meno fortemente. Volendolo esprimere in cifre, potremmo dire 4 = 1 + 1/20 + 1/2 + 1/2, non molto di più.
    L'accordo non esiste che sul tema fondamentale. Partendo dal racconto di Marco ognuno dei quattro evangelisti ha seguito la propria natura, le proprie tendenze, le proprie preoccupazioni e le proprie informazioni. Ne derivano divergenze molteplici, come già accennato, e non sembrano tutte di secondaria o minima importanza.
    Esempio: la folla, questa folla indispensabile per formulare l'accusa al popolo ebraico tutto quanto, è messa in evidenza da Marco, XV, 8, da Matteo, XXVII, 17, da Luca, XXIII, 13; è totalmente assente in Giovanni, dove entrano in scena solo «i sommi sacerdoti e le guardie» (XIX, 6); assenza imbarazzante per la tesi della responsabilità collettiva. L'apologetica non ne parlerà.

    Altro esempio: Marco, XV, 6, Matteo, XXVII, 15, Giovanni, XVIII, 39 ricordano esplicitamente l'usanza secondo la quale, ad ogni festa dì.Pasqua, il governatore romano doveva accordare agli Ebrei la liberazione d'un prigioniero. Si è sorpresi di vedere come Luca, dopo aver assunto le 'proprie informazioni, non abbia creduto opportuno di ricordarla; la sorpresa è stata provata fin dai tempi più remoti, da certi copisti dei manoscritti, che han preso essi stessi l'iniziativa di colmare la lacuna introducendo nel testo un versetto (XXIII, 17), che vi risulta evidentemente interpolato.
    Secondo Marco, XVI, 15 con Matteo, XXVII, 26, dopo aver liberato Barabba, Pilato fa flagellare Gesù, com'era d'uso nei riguardi dei condannati al supplizio della croce: la flagellazione appare dunque qui come il supplizio che precede la crocifissione. Secondo Luca, XXIII, 16, Pilato propone agli Ebrei di liberare Gesù dopo averlo fatto flagellare, ma nel seguito del racconto, non appare che Gesù lo sia stato. Secondo Giovanni, XIX, 1, Pilato ha eseguito ciò che nel terzo Vangelo egli aveva proposto: egli ha fatto flagellare Gesù nella speranza che tale castigo fosse sufficiente a disarmare l'ostilità degli « Ebrei », cioè dei sommi sacerdoti e delle loro guardie. La flagellazione nel Vangelo di Giovanni è dunque indipendente dalla crocifissione; su tale punto l'opposizione è chiara, irriducibile: un fatto esclude l'altro.
    Così pure è irriducibile l'opposizione fra le varie testimonianze circa l'ora della Passione: il ritmo di essa sarebbe stato secondo Marco, XV, 25, singolarmente rapido, perché quando avvenne la Crocifissione era «l'ora terza» (= le nove del mattino); meno rapido secondo Giovanni, XIX, 14, perché « era circa l'ora sesta (= mezzogiorno) » quando fu eseguito il supplizio.
    Matteo, XXVIII, 24-25 è il solo a sapere e a dire che il procuratore romano Pilato si è lavate le mani, solennemente, secondo l'usanza ebraica, per scaricarsi della responsabilità del sangue innocente che doveva versare. Solo egualmente a rilevare che «tutto il popolo gridò: "Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli! " ». Marco, Luca, Giovanni non sanno nulla, non dicono nulla; né della famosa lavanda delle mani, né del tremendo grido della folla. (Torneremo su questo punto, ma fin da ora constatiamo che Giustino Martire, quando scrive sull'argomento verso la metà del II secolo, non fa nessuna allusione a quegli episodi nella sua polemica antiebraica, il che è per lo meno strano, se egli ha utilizzato, come generalmente si ammette, il primo Vangelo).
    Matteo, XXVII, 19, è parimenti il solo a sapere che Pilato, mentre sedeva in tribunale, aveva ricevuto un messaggio dalla moglie in favore di Gesù. Per lo meno egli è il solo degli evangelisti
    canonici, perché gli apocrifi riprendono l'episodio, lo completano e ci fanno sapere che la moglie di Pilato si chiamava Pròcula e che era una prosèlita ebrea, fattasi poi cristiana (la Chiesa Greca l'annovera fra i santi). Ma, ammette L. Cl. Fillion, « il libro apocrifo degli Acta Pilati (o Vangelo di Nicodemo) non è per noi un testo autorevole ». Speriamo che sia cosi.

    Secondo Marco, XV, 17, Barabba avrebbe partecipato ad una sommossa nel corso della quale vi era stata l'uccisione d'un uomo. Matteo, XXVII, 16, dice che era « un prigioniero famoso »; Luca, XXIII, 19, rinforzando Marco, lo accusa di sedizione e di omicidio. Ecco dunque il Barabba dei Sinottici: un noto agitatore, «una specie di eroe nazionale », dice il P. Lagrange. Ma resta il quarto Vangelo, Giovanni, XVIII, 40: «E Barabba era un brigante ». Restano anche gli apocrifi, gli Acta Pilati: «lo ho in prigione (dice Pilato) un famoso assassino che si chiama Barabba ». Inutile dire a chi vanno le preferenze dei commentatori zelanti: «Tutta la storia d'Israele, insegna il gruppo protestante della Brigade Missionnaire, non è che la ripetizione di quello scandalo, l'adorazione del vitello d'oro, scandalo che raggiunge il suo parossismo quando il popolo ebraico, rinnegando il figlio della propria razza, il suo Messia, il suo Dio, gli antepone un brigante, Barabba ».

    Daniel Rops presenta fra virgolette, come citazione testuale della Scrittura, questo miscuglio di testi canonici ed apocrifi: «Ora avvenne che in prigione ci fosse un famoso bandito, di nome Barabba, colpevole di assassinio nel corso di una rivolta».

    Henri Guillemin è un letterato, non scrive storia sacra; può permettersi ogni cosa: «Era un bandito, Barabba, un assassino, un vero terrore ».
    La gradazione suggestiva, osservata nella prima fase del processo, si riscontra anche nella seguente. gradazione già molto sensibile da Marco a Matteo, XXVII, 24-25, secondo il quale Pilato, lavandosi le mani, si libera dalla sua responsabilità e « il popolo ebraico» per contro l'assume, quasi compiaciuto. In Luca, per ben tre volte, Pilato dichiara Gesù innocente e manifesta l'intenzione di lasciarlo libero (XXIII, 14-16, 20, 22). Giovanni va ancora oltre; non esita a prolungare lo strano andirivieni del procuratore dall'interno del pretorio all'esterno; dopo l'intermezzo della flagellazione, arriva la pietosa esibizione: «Ecco l'uomo! »; nuovo dialogo tra Pilato e Gesù; nuovo tentativo del procuratore per liberare Gesù; ricatto degli Ebrei: «Se lo liberi, non sei amico di Cesare» (Giovanni, XIX, 12); il tentennante procuratore cede finalmente: «Allora lo consegnò loro perché fosse crocifisso »,

    Una gara vera e propria per rendere gli Ebrei maggiormente odiosi. Ma per quanto vario, abbondante e patetico sia il redattore del quarto Vangelo, la palma va data a Matteo - o almeno al redattore del versetto XXVII, 25: con mano sicura egli ha lanciato la freccia avvelenata, che non potrà più essere estratta.


    Che cosa non si potrebbe dire, che cosa non è stato detto, quando ci si ponga sul terreno della verosimiglianza storica? Ma è un terreno infido, lo so: il vero «può talvolta non essere verosimile ». Per questo mi è facile constatare che, tanto in Matteo come in Giovanni, il personaggio di Ponzio Pilato va oltre i limiti della verosimiglianza: «giudice da commedia» lo definisce A. Loisy.
    Inverosimile questo onnipotente procuratore che, nel suo imbarazzo, chiede agli Ebrei, suoi sudditi, ai sommi sacerdoti, sue creature, che cosa può fare del prigioniero Gesù (Marco, XV, 12; Matteo, XXVII, 22).

    Inverosimile questo massacratore di Ebrei e di Samaritani, colto ad un tratto da scrupoli verso un Ebreo della Galilea, sospetto di agitazione messìanica, che va a mendicare per lui la pietà degli Ebrei: «Che cosa ha fatto dunque di male? » (Marco, XV, 14; Matteo, XXVII, 23).

    Inverosimile questo funzionario romano che, per rifiutare ogni responsabilità - senza dubbio davanti al Dio d'Israele, ricorre al rito simbolico ebraico della lavanda delle mani (Matteo, XXVII, 24).

    Inverosimile questo astuto uomo politico che, proprio in quel giorno, si decide a prendere le difese di un povero diavolo di profeta contro l'oligarchia locale, su cui la tradizione romana suole appoggiarsi e sulla quale infatti egli si appoggia: è con la collaborazione di Anna e Caifa che un Pilato governa la Giudea.
    Inverosimile questo governatore energico, pronto a soffocare nel sangue ogni rivolta, o anche solo una minaccia di rivolta, che, per compiacere alla folla degli Ebrei, consente a mettere in libertà un agitatore « famoso », incarcerato sotto l'accusa di sedizione e di omicidio (e poi, perché la liberazione di Barabba portava di conseguenza che Gesù dovesse essere crocifisso?).

    Inverosimile questo magistrato che stabilisce la legge nella sua provincia e che sembra ignorarla, quando dice ai sommi sacerdoti, suoi interlocutori: «Prendetelo voi e crocifiggetelo» (Giovanni, XIX, 6).

    Inverosimile questo pagano scettico che rimane impressionato dall'accusa che gli Ebrei muovono a Gesù di « essersi fatto Figlio di Dio» (Giovanni, XIX, 7-8); l'accusa, intesa nel senso cristiano, è incomprensibile a tutta prima sia ad un pagano che ad un Ebreo.

    Inverosimile questa giustizia romana, sempre così formalista, che, nel caso del processo a Gesù, sembra aver rinunciato a tutte le forme usuali, a tutte le regole della sua procedura.

    Ma più inverosimile ancora, mille volte più inverosimile, questa folla ebraica, «tutto quanto il popolo» ebraico, questo popolo pio e patriota, invaso all'improvviso da furore contro Gesù, al punto da andare da Pilato, l'odiato Romano, per esigere da lui che il profeta tanto ammirato poco prima, un uomo del popolo, uno dei suoi, sia messo in croce secondo l'usanza romana, da soldati romani.

    Per fare un paragone: riuscite ad immaginare la folla dei francesi a Parigi, nel 1942, davanti al Comando tedesco, mentre urla « Al patibolo, al patibolo! » affinché il Generale von Stiilpnagel dia l'ordine di giustiziare qualche comunista noto, Gabriel Péri, per esempio? Oh certo, si sarebbero trovate alcune centinaia, forse alcune migliaia di francesi per un'operazione del genere ... Sappiamo quali francesi, ma tutto il popolo di Parigi, ma tutto il popolo francese, e laggiù, davanti a Ponzio Pilato, « tutto il popolo» ebraico! Evvia ...

    Spingiamoci oltre. Consideriamo più da vicino i nostri testi, soprattutto i Sinottici, dei quali ho già illustrato la parte che essi attribuiscono alla folla, e, tra essi, specialmente Matteo; abbiamo visto l'uso - l'abuso - che la tradizione e la letteratura cristiana hanno fatto, continuano a fare del sinistro versetto XXVII, 25. Ad ogni passo si urta contro la testimonianza d'una verità storica dubbia; tutto cospira a risvegliare la diffidenza.

    L'usanza di liberare un prigioniero ad ogni festa di Pasqua, quello voluto dalla folla?

    All'infuori che nei Vangeli - di Marco, Matteo e Giovanninon vi si fa allusione da nessun altra parte. Non negli scrittori ebrei, neanche nei numerosi lavori di Giuseppe Flavio, sempre abbondanti nei particolari dei fatti e delle usanze. È da rilevare che, dei tre evangelisti sinottici, Luca, considerato il miglior storico (relativamente), non ne fa menzione; il versetto XXII, 17 è interpolato, come abbiamo detto. L'imbarazzo di Marco e Matteo, quando ne parlano, si rivela nella stessa incertezza della redazione e dà l'impressione d'un'aggiunta maldestra.

    Marco, XV, 6-8: (nei versetti precedenti si è parlato del Sinedrio e dei sommi sacerdoti) «Per la festa egli era solito rilasciare un carcerato a loro richiesta. Un tale chiamato Barabba si trovava in carcere ... La folla, accorsa, cominciò a chiedere ciò che sempre egli le concedeva».

    Matteo, XXVII, 15-17: «Il governatore era solito, per ciascuna festa di Pasqua, rilasciare al popolo un prigioniero, a loro scelta. Avevano in quel tempo un prigioniero famoso, detto Barabba. Quindi, mentre si trovavano riuniti, Pilato disse loro ... ».
    Inutile inoltrarci nell'interminabile (e vana) controversia d'ordine giuridico per saper se Pilato si è valso dell' abolitio privata o dell'indulgentia; gli uni, come il P. Lagrange propendono per l'abotitio, altri per l'indulgentia, ma nessuno può stabilire con certezza se il procuratore della Giudea disponesse allora di quei diritti sovrani.

    In appoggio alle narrazioni evangeliche, s'invoca oggi soprattutto un papiro greco-egiziano che risale agli anni 86-88 e che è perciò abbastanza vicino alla Passione. Si tratta del processo verbale di un'udienza di C. Settimio Vegeto, prefetto di Egitto, nel corso della quale egli dice ad un tale di nome Fibione: «Tu meriti di essere flagellato, ma ti faccio grazia in favore della folla ». «È una sentenza piuttosto enigmatica », osserva il P. Lagrange « ma la remissione della pena per compiacere alla folla sembra cosa sicura». Si, l'analogia è abbastanza impressionante, almeno apparentemente. Ma nulla indica, in questo caso, se si tratta di un'usanza, di un diritto riconosciuto della folla, d'un diritto tale per cui il magistrato romano possa vedersi costretto a liberare suo malgrado un prigioniero incolpato di sommossa e di omicidio. Esiste una gran differenza tra questo Fibione dei papiri grecoegiziani e il Barabba dei Vangeli.

    Barabba?

    È tempo di far comparire questo illustre sconosciuto, agitatore famoso secondo i Sinottici, brigante secondo il quarto Vangelo; «infame brigante e assassino », rincara una tradizione secolare. « Infame », non ne sappiamo niente. Ma, ancor più strano di quanto si pensi, personaggio avviluppato di un tale mistero, che vien da chiedersi se egli sia mai esistito.

    Quanti, fra gli stessi lettori più assidui della Bibbia, conoscono questo fatto curioso (coincidenza che rende perplessi) che Barabba, secondo l'evangelista Matteo, o almeno secondo diversi manoscritti di Matteo, si chiamava anche Gesù? «Chi dei due volete che vi rilasci? Gesù Barabba o Gesù detto il Cristo? » (Matteo, XXVII, 17).

    Senza avere l'ardire d'introdurre nel testo evangelico la dizione «Gesù Barabba », il P. Lagrange non può esimersi dal credere alla sua autenticità. « Non è possibile credere », egli scrive, «che una lezione cosi particolare sia dovuta all'errore di un copista: o il nome è stato introdotto nei manoscritti di Matteo dagli apocrifi, o è autentico». Fin dalla prima metà del III secolo, Origene si meravigliava di leggere in numerosi manoscritti « Gesù Barabba» e formulava l'ipotesi che si trattasse forse di un'aggiunta in mala fede. Ma l'ipotesi sembra senza fondamento e vale piuttosto per il caso della soppressione. Resta dunque l'autenticità.

    Ma questo non è tutto. Lo stesso nome di Barabba presenta una strana risonanza. Talvolta viene scritto Bar-Rabba che si modifica in certi autori in Bar-Rabban e significa «figlio del Rabbi », «figlio del maestro ». Ma questa trascrizione arbitraria, che si appoggia soltanto ad un'allusione di S. Girolamo al Vangelo (apocrifo) degli Ebrei 45, ha soprattutto il vantaggio di evitare la trascrizione e la traduzione normali (anch'esse imbarazzanti). Infatti Barabbas o Barabba - figlio di Abba - può portare anche al significato di figlio del Padre, Abba essendo impiegato sia come nome proprio, sia come comune con significato di padre. Il nome di Bar-Abba sembra essere stato abbastanza frequente tra gli Ebrei. Il che non impedisce, nel caso attuale, che il suo apparire, col significato che evoca inevitabilmente, sia ancora una coincidenza che sorprende e che turba. Come! Quest'uomo di cui la folla ebraica reclama a gran voce la liberazione, quest'uomo si chiamava, secondo il primo Vangelo (forse anche, azzardiamo l'ipotesi secondo quello di Marco), quest'uomo, ripeto, si chiamava «Gesù, figlio del Padre»!

    Lascio immaginare tutte le congetture, tutte le teorie, più o meno ingegnose (e avventurose) che sono state escogitate, e continuano ad esserlo, per una tale coincidenza. Esse non sono, né possono essere altro, che un passatempo cerebrale e non meritano la nostra attenzione. Ci limiteremo a constatare la stranezza del mistero nel quale siamo avvolti; ciò è dovuto verosimilmente al fatto che la tradizione cristiana ha dovuto assai presto sottostare alle esigenze della catechesi, dell'apologetica e della polemica antiebraica; ne deriva una mescolanza di notizie, in cui, per mancanza di altre fonti, la verità storica, per quanto riguarda la Passione, è assolutamente irraggiungibile. Ma perché dovrei tacere il sospetto che, quasi mio malgrado, s'impone alla mia mente ed al mio cuore lasciandomi intravedere (quasi un muro antico che affiori in uno scavo) qualche arcaica tradizione secondo la quale era proprio Gesù, il vero, l'unico del quale la moltitudine ebraica implorava ansiosamente la grazia?

    Questo fuggitivo bagliore non ha valore forse che per me solo; non mi faccio nessuna illusione a questo proposito e mi astengo dall'attribuirgli un potere illuminante che non possiede. Tuttavia lo preferisco ancora al meccanismo complicato e laborioso della spiegazione tentata da qualcuno - tra cui S. Reinach e A. Loisy - spiegazione tendenziosa quasi quanto la narrazione evangelica di cui pretende dare la chiave. Si tratta dell'accostamento che da tempo si è fatto, fra l'episodio del Barabba dei Vangeli e la storia del povero pazzo, Karabas, raccontata da Filone, In Flaccum, VI: «Vi era in Alessandria un pazzo che si chiamava Karabas ... Si trascinò questo disgraziato alla palestra e là venne fatto salire sopra un palco ben alto perché tutti potessero vederlo. A guisa di corona gli misero sul capo un cesto sfondato e sulle spalle, come mantello, un ruvido tappeto; poi un tale, vedendo un giunco lungo la strada, lo strappò e glielo mise in mano a guisa di scettro. Dopo averlo cosi decorato con le insegne della regalità, come se fosse un buffone da teatro, alcuni giovani coi bastoni in ispalla formarono intorno a lui la guardia del corpo, mentre altri venivano ad inchinarsi davanti a lui, a chiedergli giustizia, a consultarlo sugli affari pubblici ». Scena di derisione, organizzata dai Greci per beffeggiare il re ebreo Agrippa allora di passaggio per Alessandria. La conclusione che se ne vuole trarre, piuttosto audace, sarebbe che Karabas = Barabba, che Gesù sarebbe stato trattato da Pilato come un «Barabba », cioè come un re da commedia, e che il racconto evangelico sarebbe una semplice imitazione di quel fatto anteriore; il rito sarebbe diventato mito.

    I Romani hanno trattato Gesù come un re da commedia, ciò è indiscutibile; esiste perciò una parentela visibile tra i racconti evangelici e quello di Filone, come con altri che ricordano simili mascherate, i Saci presso i Persiani, i Saturnali a Roma. Ma tutto questo non significa che Karabas equivalga a Barabba né che Barabba impersoni un re da commedia.

    E che dire della ben nota scena che oppone alla lavanda delle mani di Pilato il grido di tutto «il popolo ebraico»: «Il suo sangue ricada su noi e sui nostri figli »?

    Ne abbiamo già parlato, ma non abbastanza se pensiamo a tutto il male che ne è derivato.
    Quei versetti troppo celebri, troppo ben concepiti per colpire l'immaginazione popolare, si trovano in Matteo, XXVII, 24-25, in Matteo soltanto, esc1usi Marco, « l'inteprete di Pietro », Luca, « il più storico» degli evangelisti secondo il P. Lagrange, e Giovanni il cui racconto della Passione s'ispira, da quanto ci viene assicurato, a ricordi personali. Per questo episodio, come per quello del messaggio inviato a Pilato dalla moglie, Matteo si trova collegato solo ai Vangeli apocrifi; ha diritto di essere accettato come questi o di essere rifiutato. Come spiegare il silenzio degli altri evangelisti? Non abbiamo diritto di ripetere a questo proposito ciò che abbiamo detto in precedenza del bacio di Giuda? Non è lecito credere che se avvenimenti come quelli, in un giorno come quello, avessero avuto luogo realmente, proprio realmente, essi si sarebbero profondamente impressi nella memoria di tutti? E il loro ricordo si sarebbe imposto ad ogni narratore?

    Abbiamo sottolineato già prima l'inverosimiglianza del gesto di Pilato. Duplice inverosimiglianza, non solo per la strana preoccupazione di volersi scaricare della propria 'responsabilità, ma per il ricorso ancora più strano ad un rito essenzialmente ebraico. Che cosa si deve pensare di questo procuratore romano che si esprime e si comporta come un sacrificatore o un rabbi ebreo, come se l'Antico Testamento gli fosse familiare, così come lo era all'evangelista Matteo?
    Deuteronomio, XXI (espiazione di un'uccisione il cui autore è ignoto): «Tutti gli anziani della città più vicina... si laveranno le mani sulla giovenca a cui sarà stata spezzata la nuca nel torrente. Poi diranno: Le nostre mani non hanno sparso questo sangue... Perdona al tuo popolo, Signore ... non permettere che sangue innocente sia versato in mezzo al tuo popolo».
    Non manca che la giovenca. «lo sono innocente di questo sangue », dice Pilato lavandosi le mani.
    « Sono innocente ... del sangue di Abner figlio di Der» dice il re Davide (II Samuele, III, 28). E aggiunge: «Che il suo sangue ricada sulla testa di Ioab e su tutta la casa di suo padre (29).
    « Lavarsi le mani nell'innocenza» è una formula tipicamente ebraica che si ritrova nei Salmi, XXVI, 6; LXXIII, 13, cosi come la replica: «Il suo sangue ricada ... ».
    « Davide gridò a lui: "Il tuo sangue ricada sul tuo capo" (II Samuele, I, 16). " ... La colpa cada su di me e sulla casa di mio padre" (II Samuele, XIV, 9). "Il mio sangue sugli abitanti della Caldea! " dice Gerusalemme» (Geremia, LI, 35).
    Ecco i testi che hanno ispirato l'evangelista che, a parere unanime, è il più imbevuto dell' Antico Testamento, i testi dai quali sono derivati i versetti XXVII, 24-25.

    Invano il P. Lagrange, per dissipare la sua visibile preoccupazione, afferma che i pagani - Greci e Romani - conoscevano anche queste proteste d'innocenza: essi conoscevano la purificazione delle mani dopo un assassinio, ciò che non è affatto la stessa cosa. Onestamente il colto esegeta cita Origene il quale con una grande franchezza (non poco imbarazzante) ammette che « Pilato ha seguito un'usanza ebraica, non ha agito, cosi facendo, alla maniera romana ». Segue un tentativo di spiegazione che rivela un po' d'imbarazzo: «Origene aveva ragione di dire che un gesto simile era assolutamente contrario alla procedura dei tribunali romani nei quali il magistrato assumeva la responsabilità dei suoi atti ». Chiara ammissione. «Pilato ha creduto di potersi permettere ciò che il suo terrore superstizioso (?) gli suggeriva, non certo per conformarsi alle usanze degli Ebrei che egli disprezzava, ma perché essi dovevano capire facilmente un atto simbolico cosi chiaro, sperando così che essi venissero in aiuto alla sua coscienza turbata e prendessero su di sé ogni responsabilità. Qui forma e sostanza sono meno chiare. Questa diagnosi da psichiatra non mi dice nulla che valga.

    Ma io mi fermo sulla constatazione che il gesto di Pilato era «assolutamente contrario alla procedura dei tribunali romani »; mi basta e mi dà il diritto di conc1udere che, secondo ogni verosimiglianza, quel gesto non fu mai compiuto. Tutta quella messa in scena è degna degli apocrifi, nei quali infatti la ritroviamo spinta fino all'assurdo.

    La replica degli Ebrei « Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli» è meno paradossale certamente, essa si ricollega infatti alle antiche tradizioni e formule ebraiche. Essa rimane pur sempre inverosimile per la sua stessa atrocità e per il furore che vuole esprimere. « Vi sono esempi di giuramento », dice il P. Lagrange, sul capo delle persone più care; ma è cosa ben diversa sollecitare una condanna che coinvolge i propri figli. Se ne troveranno degli esempi? Questo episodio si può comprendere soltanto se si pensa che gli Ebrei erano persuasi che Gesù avesse bestemmiato proclamandosi Figlio di Dio, per cui erano convinti di non aver nulla da temere invocando la vendetta celeste» so. Il che equivale a dire - e bisogna che sia detto esplicitamente che gli Ebrei, quelli almeno che avevano emesso quel grido terribile, credevano alla realtà, all'enormità della bestemmia, e che perciò hanno peccato per ignoranza, così come lo dichiara l'apo stolo Pietro in Atti, III, 17; e non solo la folla degli Ebrei, ma anche i loro capi «perché se l'avessero conosciuta (la sapienza divina) non avrebbero crocifisso il Signore della gloria» (I Corinzi, II, 8).
    Ma, riflettete: esclusi i sommi sacerdoti, i capi e qualche membro del Sinedrio, quanti Ebrei potevano conoscere esattamente la natura della bestemmia incriminata, della quale, come si è visto, non si è sicuri che consistesse nella Filialità proclamata in un senso inaudito e, lo ripeto, quasi inaccessibile da prima allo spirito umano, comunque allo spirito ebraico? Allora da che cosa poteva provenire l'accanimento, la rabbia, la sete di sangue di quegli Ebrei che arrivavano al punto di coinvolgere, senza nessun bisogno, il capo delle loro creature, «le teste più care », quelle dei propri figli? Tutto ciò è incomprensibile, inverosimile, fuori della realtà.
    Del resto quel grido atroce non è che una risposta, e cade perciò automaticamente nel nulla, con la lavanda delle mani e la protesta d'innocenza di Pilato alle quali il grido voleva rispondere. Ma in verità a ben altro risponde, alla preoccupazione dominante del redattore che è, secondo l'eccellente espressione del P. Lagrange, « di far vedere come il popolo ebraico aveva assunto in pieno la responsabilità della morte del suo Cristo».
    Mai carattere tendenzioso di una narrazione, mai preoccupazione «dimostrativa» è apparsa con maggiore evidenza, un'evidenza che si manifesta e culmina nei famosi versetti 24-25, e, in ogni spirito libero, genera la seguente convinzione:

    No, Pilato non si è lavato le mani secondo l'usanza degli Ebrei; No, Pilato non ha protestato la sua innocenza;

    No, la folla ebraica non ha gridato: «Il suo sangue ricada su noi e sui nostri figli! ».

    L'evangelista Luca ci fa sapere in Atti, V, 28, che il sommo sacerdote, rivolgendosi agli apostoli davanti al Sinedrio, si sarebbe espresso così: «Ecco, voi avete invaso Gerusalemme con la vostra dottrina e volete far ricadere su di noi il sangue di quell'uomo! ».
    Ma come? Questo sommo sacerdote, questi membri del Sinedrio non sono forse gli stessi che poco tempo prima, davanti a Pilato, gridavano e incitavano la folla a gridare: «Crocifiggilo! » ... «Che il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli! »? Essi avevano dunque la memoria corta, oppure Luca, su questo punto come in altri, contraddice Matteo e sembra ispirarsi ad una tradizione secondo la quale le stesse autorità ebraiche declinavano ogni responsabilità nella Crocifissione.
    Ma a che pro insistere ancora? La causa è risolta. Lo è per tutti gli uomini di buona fede. Oserò dire: lo è anche di fronte a Dio. È necessario rammentare con quale vigore, ribellandosi a certe barbare tendenze del primitivo culto divino, i profeti Geremia, e soprattutto Ezechiele, portavoce di Dio, avevano affermato che la responsabilità del peccato o del delitto non si trasmette da una generazione all'altra?


    «Mi fu rivolta questa parola del Signore: "Perché andate ripetendo questo proverbio sul paese d'Israele "I padri han mangiato l'uva acerba e i denti dei figli si sono allegati?". Com'è vero ch'io vivo, dice il Signore Dio, voi non ripeterete più questo proverbio in Israele. Ecco, tutte le vite sono mie; la vita del padre e quella del figlio è mia; chi pecca morirà ... Colui che ha peccato e non altri deve morire; il figlio non sconta l'iniquità del padre, né il padre l'iniquità del figlio ... Perciò, o Israeliti, io giudicherò ognuno di voi secondo la sua condotta» (Ezechiele, XVIII, 1-4, 20, 30).
    Un certo insegnamento, una certa tradizione rifiuta d'inchinarsi perfino davanti a Dio; ne abbiamo già rivelato qualche esempio. Non si vuole che « le sante dichiarazioni di Ezechiele» annullino «la realtà del mistero delle colpe collettive» proclamata nel Deuteronomio, V, 9 (dopo il comandamento del Decalogo che proibisce di prostrarsi davanti alle sculture):
    «lo il Signore tuo Dio sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione per quanti mi odiano, ma usa misericordia fino a mille generazioni verso coloro che mi amano e osservano i miei comandamenti ».
    Come conciliare queste due « rivelazioni »? (Appare già nella seconda come al castigo limitato per i nemici di Dio si contrappone la misericordia infinita per i suoi fedeli).
    Esse « non sono inconciliabili» spiega l'abate Journet, « perché, da un lato, la colpa degli antichi capi o agitatori può ben preparare, per gli uomini del loro tempo e per i posteri, un insieme di sollecitazioni e di condizioni di vita sfavorevoli, perniciose per la religione e per la morale, sia pubblica, sia privata; ma, d'altra parte, quelle sollecitazioni, quelle condizioni di vita non si trasformano in colpe se non nell'esatta misura in cui, non essendo proprio determinanti, cioè causa d'un errore moralmente invincibile, esse sono tuttavia accettate interiormente dalla coscienza di ogni individuo». Chiarissimo, non è vero? Ed ecco perché
    «la prevaricazione collettiva d'Israele... produrrà i suoi frutti universali e fatali ». Detto in altre parole: noi non c'entriamo per niente. Noi cristiani, «ci laviamo le mani nell'innocenza».
    Ma tutto non è ancora detto, anzi rimane da dire l'essenziale. In Matteo, XXVII, 25 si trovano le parole « tutto il popolo» che hanno fatto presa nella tradizione cristiana antiebraica, e in conseguenza meritano di essere esaminate. In Marco, XV, 8-15, troviamo il vocabolo «folla », in Luca, XXIII, 13, «popolo ». In Giovanni non si parla né di popolo, né di folla.
    In ultima analisi, giunti alla tappa finale di questo lungo cammino, eccoci condotti a formulare la domanda più importante: si ha il diritto di dire, di insegnare, di proclamare in ogni occasione (come si fa), che il popolo ebraico nella sua totalità si è associato ai suoi capi; che esso, con grido unanime, ha reclamato la morte di Gesù, ha obbligato Ponzio Pilato a pronunziare la condanna; che in tal modo ha partecipato al Crimine supremo e che, nella sua totalità, è pienamente responsabile della crocifissione?
    Tuttavia è ben noto, attraverso le citazioni che abbiamo presentate, semplici campioni di una letteratura abbondantissima, che la domanda non si pone per l'immensa maggioranza degli esegeti, dei teologi e degli scrittori cristiani, cattolici o protestanti. «Che gli Ebrei non dicano, non abbiamo ucciso il Cristo» (Officio della notte del Venerdì Santo). Matteo, XXVII, 25, ha scritto: «Tutto il popolo» = Pas o laàs. Questo è più che sufficiente.
    Lo testimonia il commento dell'esegeta cattolico più autorevole, il P. Lagrange: «Fino a questo momento non si è trattato che della folla o dei capi. Ora è la nazione, o laàs, che parlerà, quel popolo che Gesù doveva salvare (I, 21: «Tu lo chiamerai Gesù, perché egli salverà il suo popolo dai suoi peccati »), del quale aveva guarito i malati (II, 23). È la sola volta che il popolo entra in scena come protagonista».
    Sarebbe facile rispondere: la sola volta in Matteo, perché è scritto in Luca, XIX, 48: «Tutto il popolo = o laòs apas, era sospeso alle sue labbra ».
    Ma come? Ma dove siamo? Interamente fuori della realtà.

    Perché se la folla, ricordata in Matteo, XXVII, 20, diventa con un colpo di bacchetta magica tutto il popolo (nel senso di tutta la nazione, il popolo intero) in XXVII, 25, non siamo più evidentemente nella realtà, ma in piena astrazione, nell'immaginazione del redattore che obbedisce ad un suo sentimento profondo. A. Reville lo ha notato perfettamente.
    E l'immaginazione dei vari commentatori, obbedendo alle stesse tendenze, lavorando su questo tema immaginario per venti secoli, ha fatto perdere letteralmente il senso della realtà agli spiriti plasmati da una così lunga e proficua e aflascinante tradizione.
    Non è un tema storico che dobbiamo ora esaminare, ma un disegno su un'invetriata. Difficile impresa. Indispensabile tuttavia, qualunque sia lo spessore della crosta di leggenda da raschiare per raggiungere quel che solo importa: la verità.
    Una prima osservazione si impone; l'abbiamo già fatta, ma è bene insistervi: i racconti degli evangelisti non concordano.
    Vi è un fatto importante da notare: nel quarto Vangelo non si parla né di «popolo» né di «folla ». «Non si tratta di popolo », osserva il P. Lagrange, « ma di gente di parte, chiamata o pagata», esattamente degli yperètai - i subalterni o agenti dei sommi sacerdoti. Sono loro che, intorno ai sommi sacerdoti, manifestano davanti al pretorio, come poliziotti bene ammaestrati, e che gridano: «Crocifiggilo, crocifiggilo! » (Giovanni, XIX, 6). Ora il quarto evangelista ha scritto molto tempo dopo gli altri; conosce gli altri; se si è allontanato da loro su questo punto, non è forse senza ragione: «I sommi sacerdoti e le guardie », battezzati «i Giudei », gli sembravano personaggi sufficienti a rappresentare l'ebraismo ufficiale.
    Fra i tre Sinottici stessi non vi è concordanza perfetta. In Luca, XXIII, 13, è Pilato a prendere l'iniziativa di « convocare i sommi sacerdoti, i capi ed il popolo », dopo che Erode gli ha rimandato Gesù; gli altri evangelisti non ne fanno cenno, ed il meno che si possa dire è che la cosa appare strana, perché « Pilato non aveva bisogno di consultare il popolo, ma solo il suo Consiglio (l'autore vuol dire il Sinedrio, che non è il Consiglio del popolo) prima di pronunciare la condanna a morte». Evidentemente il popolo è citato solo per la forma, o allo scopo di fargli assumere la responsabilità che si desidera. Altrimenti come spiegare il discorso di Pilato al versetto seguente: «Mi avete portato quest'uomo come sobillatore del popolo» (Luca, XXIII, 14)? Tale discorso non è rivolto al popolo evidentemente.
    Restano i racconti paralleli di Marco-Matteo, dei quali abbiamo rilevato la redazione incerta e maldestra, come d'un innesto non riuscito. In Marco, XV, 8, «la folla» sale spontaneamente al pretorio, senza convocazione, e da sola, secondo l'usanza (XV, 6) reclama dal, procuratore la liberazione d'un prigioniero. Osserva
    giustamente il P. Lagrange: «se essa non avesse pensato alla liberazione di Gesù, perché sarebbe intervenuta proprio in quel particolare momento» (in cui era in gioco la sorte di Gesù) e a quell'ora mattutina? «Sembra dunque che il suo moto spontaneo fosse a favore del Galileo ».

    In Matteo, XXVII, 17, la folla si accalca senza che venga precisato se è andata di sua spontanea volontà, se è stata convocata o trascinata dai sommi sacerdoti; la parola stessa di « folla» non è pronunziata (lo sarà in XXVII, 15): «Mentre si trovavano riuniti », si legge, Pilato disse loro :« Chi volete che vi rilasci, Gesù Barabba o Gesù chiamato il Cristo? ». Nell'uno e nell'altro Vangelo, « i sommi sacerdoti» secondo Marco, XV, 11, « i sommi sacerdoti e gli anziani» secondo Matteo, XXVII, 20, fanno propaganda tra la folla, la eccitano contro Gesù, la spingono a reclamare la libertà per Barabba: tutto questo evidentemente lascia supporre che non si trattasse di una folla enorme. Docilmente « la folla », « le folle» reclamano Barabba e cominciano a richiedere clamorosamente che Gesù sia crocifisso., Infine, secondo Matteo, XXVII, 15, è « tutto il popolo» che grida: «Il suo sangue ricada sul nostro capo e su quello dei nostri figli! »,

    Complessivamente dunque, delle quattro versioni, tre su quattro vanno d'accordo con difficoltà. Non ve ne sono che due, quelle di Marco e Matteo, nelle quali la parte della folla è descritta e sottolineata in forma abbastanza maldestra; ma in realtà vi è una versione sola, quella di Marco, dalla quale Matteo deriva strettamente. E in questa unica testimonianza la parte attribuita alla folla appare di una verità storica altrettanto dubbia quanto l'usanza pasquale per cui l'evangelista la fa entrare in scena.

    Secondo la logica ed il metodo storico, non è possibile accettare tutte insieme quattro testimonianze discordanti (salvo ad « armonizzarle» cioè accordarle per forza). Bisogna scegliere; scegliere in particolare fra la testimonianza di Marco, i sommi sacerdoti e la folla che, ad un dato momento, per la circostanza (e per il maggior profitto della teologia ortodossa) Matteo definisce come « tutto il popolo », e la testimonianza di Giovanni, i sommi sacerdoti soltanto ed i loro subalterni.

    Se si tiene conto del rapidissimo svolgersi degli avvenimenti, dei sentimenti popolari favorevoli a Gesù fino a quel momento, su questo punto preciso Giovanni merita la preferenza. Ci sono le migliori ragioni per credere che tutto si sia svolto in accordo perfetto fra il procuratore romano e i sommi sacerdoti ebrei sue creature - Pilato, Anna, Caifa, sinistro terzetto - senza che sia possibile discernere da qual parte sia sorta l'iniziativa, dalla parte ebraica o dalla parte romana. Il che, secondo il nostro umile punto di vista, poco importa.


    Ma diamo tutti i vantaggi all'ortodossia e alla ricerca delle concordanze.
    Ammettiamo l'inverosimile.

    Ammettiamo che questo singolare procuratore romano - anche lui trasformato per un colpo di bacchetta magica - fosse disposto a liberare l'ebreo Gesù, accusato di pretese e di agitazioni messianiche.

    Ammettiamo che in Giudea esistesse questa singolare usanza che ad ogni festa il procuratore liberasse un prigioniero qualunque secondo la richiesta della folla.

    Ammettiamo che ci fosse nelle prigioni romane un ribelle ebreo, di nome Barabba (o Gesù Barabba), incolpato di sedizione e di omicidio.

    Ammettiamo che, essendosi accalcata una gran folla, intorno ai sommi sacerdoti, davanti al pretorio, Ponzio Pilato le abbia dato facoltà di scegliere fra Barabba e Gesù (di Nazareth), sperando che la scelta cadesse sul Nazareno e non sull'altro.

    Ammettiamo che l'ottimo Pilato abbia subito acconsentito a liberare Barabba, un ribelle e forse anche un assassino.

    Ammettiamo che dopo egli abbia chiesto alla folla degli Ebrei che cosa dovesse fare, lui il procuratore romano, di Gesù, accusato di essersi proclamato Messia e Re.
    Ammettiamo che la folla si sia messa a urlare: «Crocifiggilo! Crocifiggilo! »,

    Ammettiamo tutto, senza la minima riserva. Ammettiamo con Matteo che Pilato « si sia lavato le mani nell'innocenza », secondo il rito ebraico e la formula del salmista, e ammettiamo ancora, con Matteo, che in risposta «tutto il popolo» abbia avuto la ferocia, la cecità di gridare: «Il suo sangue ricada su noi e sui nostri figli! ».

    Ammettiamo con Giovanni che lo spettacolo di Gesù, contuso e sanguinante dopo la flagellazione, camuffato (dai soldati romani) con la corona di spine ed il mantello di porpora, che questo spettacolo pietoso, insostenibile, non abbia fatto altro che ravvivare, eccitare, portare al parossismo il furore popolare. Si, ammettiamo tutto, fino alla conclusione: Pilato cede agli Ebrei in delirio e manda Gesù alla morte, alla croce in seguito al loro ricatto minaccioso ...

    È impossibile spingersi oltre sulla via delle concessioni, abdicando a ogni spirito critico.

    Ebbene, concesso tutto questo, ammesse tutte le contraddizioni, elevato l'inverosimile al rango di verità storica, io affermo che tutto ciò, che la piena accettazione della tradizione non dà il diritto di concludere per il crimine d'Israele, per la piena responsabilità del popolo ebraico (né di proclamarla in ogni occasione davanti al popolo cristiano, né d'insegnarla ai bambini nel catechismo) 59.
    Lo affermo e lo provo.

    Anzitutto, e in vista della nostra dimostrazione, riportiamoci ai commenti dell'esegesi più ortodossa. Tutti i suoi sforzi di chiarimento sono orientati in un unico senso: trovare una soluzione a quello che le appare il problema, la difficoltà principale, «il mutamento nella folla », di quella folla ebraica che fino alla vigilia di quel giorno era entusiasta del suo profeta, di quella folla che, ascoltandolo, «pendeva dalle sue labbra »,

    C'è chi spiega, senza portare la minima prova, che quel mutamento si preparava da un certo tempo in qua; un'evoluzione si era prodotta nello spirito delle masse popolari: «Sotto l'influenza dei suoi capi, la popolazione negli ultimi giorni era diventata nettamente ostile a Gesù» - nettamente! - « almeno fra gli elementi turbolenti che a Gerusalemme avevano la supremazia ». E chi erano? «Fu questa plebaglia che, per dissipare gli scrupoli di Pilato, accettò di addossarsi il sangue del giusto crocifisso».

    Un altro, mettendo accuratamente da parte la testimonianza dei Sinottici, si riferisce ad alcuni passi di Giovanni per affermare che da molto tempo il popolo era diviso «tra l'influenza dei farisei e quella del nuovo profeta»; che «l'ingresso delle Palme » era stato « un trionfo senza seguito »; che, infine, « le scene della notte e del mattino avevano finito col distruggere la popolarità di Gesù ». «Da quel momento, se non è più il Messia sognato, che cosa potrebbe essere se non il seduttore che i capi del popolo hanno sempre denunziato? Questo scacco, questi rancori basterebbero da soli a giustificare il mutamento della folla; in certe persone senza dubbio la paura fa presa ancora maggiore; decisamente i farisei hanno il sopravvento; sappiamo la violenza del loro odio; gli apostoli stessi non osano esporvisi» - già, è vero, dove sono? - « chi, tra i discepoli effimeri di Gesù, avrebbe il coraggio di sfidarli? E allora, per farsi perdonare le loro acclamazioni del giorno prima, raddoppiano le loro maledizioni».

    Il P. Lagrange conosce troppo bene tanto i fatti quanto i testi per non provare un certo imbarazzo, visibile soprattutto nel suo primo commento, quello di Marco, p. 410: È strano ... che quella moltitudine, fino a quel giorno cosi favorevole a Gesù, abbia cambiato di punto in bianco il suo atteggiamento. Il fatto non è tuttavia privo d'esempi ». (Qui l'esegeta ricorda il caso del generale Boulanger la cui popolarità fu quasi di colpo rovinata per la sua fuga in Belgio. Ma si può immaginare il popolo francese che da un giorno all'altro ne reclama la testa?). « In certe situazioni, o si è tutto, o non si è niente. Il Messia incatenato davanti ad un procuratore romano rappresentava, agli occhi degli Ebrei, un'immagine cosi grottesca che coloro stessi che avevano sperato in Gesù, dovettero subire una delusione tale da trasformarsi in collera. Forse, a coloro che lo compiangevano si fece capire che egli se la sarebbe cavata in un altro modo, mentre Barabba, un eroe dell'indipendenza, e cosi gravemente compromesso! Per dirla in breve, noi non conosciamo tutti i mezzi che furono escogitati... »,

    Qualche anno dopo, commentando il Vangelo di Matteo 62, il P. Lagrange si è evoluto; egli trova «del tutto naturale » il brusco cambiamento che altre volte gli pareva cosi strano: «La folla cambiò parere quando le venne suggerito di chiedere la liberazione di Barabba. La cosa è tanto naturale - retto istinto popolare rapidamente pervertito, intervento inspiegabile ecc. che non si penserebbe neppure di discutere l'autenticità dei fatti ». È noto che il P. Lagrange si esprime malamente quando non si sente a suo agio. lo dirò tutto il contrario: tutto questo è cosi poco naturale che ci si trova costretti a discutere l'autenticità dei fatti. Le esitazioni, le contraddizioni (per non dire i balbettii) d'un galantuomo hanno anch'esse la loro eloquenza.

    lo chiedo perdono a quesi rispettabili autori, che io pure rispetto: in questo caso particolare (dell'intervento della folla, del «popolo ebraico»), le loro argomentazioni - diverse, ondeggianti - sono estremamente deboli. Com'è difficile difendere una cattiva causa! Tutto questo grande sforzo di spiegare non spiega nulla e non conc1ude nulla.

    Non spiega nulla, perché non basta ricordare quel che tutti sanno, che le folle sono volubili, oppure, il che è possibile, che l'arresto di Gesù ha distrutto il suo prestigio; bisogna andare oltre, trovare qualche motivo accettabile che spieghi quell'inaudito accanirsi, senza precedenti, quel parossismo di furore omicida, quella scomparsa improvvisa del senso nazionale in un popolo « nazionalista fanatico ». Ma il motivo non si trova, non viene dato, non c'è altro che «l'intenzione di mostrare come il popolo ebraico ... ha pienamente assunto la responsabilità della morte del suo Cristo» (Lagrange dixit).
    Ma poi, e soprattutto, questa spiegazione posa sul falso perché è assolutamente fuori della realtà. Ed è questa realtà cadaverica, sommersa in un oceano di miti e di leggende, che noi vorremmo tentare di afferrare, di rianimare, di ricondurre dalla profondità in cui essa giace alla superficie della storia.
    Pasqua a Gerusalemme. Primavera in Palestina.
    Per favore, non aspettatevi da me la solita tirata romantica, l'evocazione della città in festa sotto il sole ardente dell'Asia. Ad altri il colore locale, l'orientalismo dei bazar, o il superficiale scenario archeologico. La realtà che vogliamo raggiungere non è costituita da corpi, da scenari, ma da fatti, da cifre e da anime, è una realtà pragmatica, aritmetica e psicologica ad un tempo.
    Pasqua a Gerusalemme. Pasqua dell'anno 29 o 30. Nell'ora in cui scrivo queste righe sono trascorsi esattamente mille novecento sedici o diciassette anni, quasi due millenni. E a me sembra ieri, « tanto è semplice », caro Péguy, tanto è chiaro. Le grandi distanze nel tempo, quali illusioni ottiche! Il tuo popolo, Signore, « il popolo dei tuoi primi servitori », il popolo testimone, non è ancora e sempre qui, trascinato di martirio in martirio verso il misterioso destino che gli è stato assegnato? E la plebaglia che grida: «A morte! » non è sempre qui? E Caifa, nato collaboratore per la difesa dell'ordine morale? E Ponzio Pilato, non un Ponzio Pilato da leggenda, che « si lava le mani nell'innocenza », ma il vero, l'autentico, l'eterno Pilato, che si lava con giubilo le mani nel sangue
    - Schadenfreude -.
    Pasqua a Gerusalemme. Pasqua dell'anno 29 o 30. Dall'alto della torre Antonia i soldati romani sorvegliano i cortili del Tempio. Dolore e vergogna, disonore e profanazione: tutta la Giudea è occupata dai Romani; il pagano, l'idolatra comanda e regna nella capitale di Davide. Dio sa quanto, una volta, Gerusalemme esecrava Erode, il tiranno idumeo; ma l'uomo che oggi occupa l'antico palazzo di Erode, questo procuratore Ponzio Pilato, venuto espressamente dalla sua residenza di Cesarea per sorvegliare la città in festa e l'enorme folla che vi si accalca, è mille volte più detestato ed esecrato di Erode! Chi non conosce la sua brutalità, il suo disprezzo insolente per tutto ciò che è ebraico, uomini, costumi, credenze, soprattutto credenze, per quella fede esclusiva,
    aggressiva in un Dio paradossale che non ha nel suo Tempio neppure una statua!
    Pasqua a Gerusalemme. Pasqua dell'anno 29 o 30. In quei giorni santi, nella città santa, l'ardente fervore degli Ebrei si esaspera fino al parossismo per la presenza, visibile o invisibile, del vincitore indegno, indegno davanti a Dio. Ricordi intollerabili - di violenze, di sangue, di supplizi - tormentano gli animi, opprimono i cuori. Eccettuati i giovani, chi non ricorda lo spettacolo orrendo: duemila Ebrei messi in croèe per ordine del governatore della Siria, Varo, duemila Ebrei crocifissi alle porte di Gerusalemme?. Duemila. Come immaginare un simile spettacolo? Quei Francesi che a Tulle, il 9 giugno 1944, hanno visto centoventi dei loro connazionali impiccati, alle terrazze, ai lampioni del Viale della Stazione, per una lunghezza di cinquecento metri, avranno, dopo trent'anni, dimenticato quello spettacolo? E duemila uomini in croce, duemila corpi orribilmente straziati, con la loro lenta e rantolante agonia sotto il sole della Giudea, alla distanza di due metri, quattro chilometri d'una visione che solo un Goya potrebbe evocare, dopo trent'anni, potrebbero gli Ebrei, i cuori ardenti di patriottismo degli Ebrei, averli dimenticati?
    Almeno Varo e le sue legioni avevano espiato nelle foreste germaniche, così com'è scritto: « Il Signore disse ad Abramo: "lo maledirò coloro che ti malediranno" » (Genesi, XII, 1-3).
    Pasqua a Gerusalemme. Primo giorno o vigilia di Pasqua.

    Poco importa, che fosse prima o dopo il Seder - il pranzo pasquale, con i pani azzimi; l'agnello, le erbe amare, la rossa marmellata del Charoseth, le quattro coppe di vino ed i canti di Hallel -, un giorno o l'altro, entrambi giorni di purificazione, di consacrazione a Dio. Giorni di festa e giorni di gioia. Festa e gioia della primavera. Festa e gioia della grande liberazione, l'esodo dopo la persecuzione d'Egitto. Ma gioia offuscata sempre dalla paura e dall'angoscia, com'è inevitabile per il cuore tormentato d'Israele, com'è inevitabile per un popolo destinato da Dio ad una missione che lo sovrasta. Il 14 del mese di Nisan, vigilia di Pasqua, mentre le donne sono indaffarate a cuocere la provvista di pani azzimi necessaria per la durata della festa, mentre il capofamiglia sorveglia la minuziosa preparazione del pasto rituale, il figlio maggiore osserva il digiuno per redimersi davanti al Signore, perché bisogna pagare il prezzo dell'Esodo a Colui che sterminò i primogeniti di Egitto: come la tua destra è terribile, Onnipotente!
    Pasqua a Gerusalemme. Pasqua dell'anno 29 o 30. O Signore, ciò che hai fatto al Faraone, ciò che hai fatto ad Antioco, non lo farai a questa Lupa cupida, insaziabile, feroce? In questo giorno
    di festa (o di preparazione alla festa), quanti sono i pii Israeliti, emuli di Zaccaria, il cui cuore arde nella speranza di « un Salvatore che liberi Israele dai suoi nemici e dalle mani di quelli che lo odiano »? (Luca, I, 71). Non sono certo gli Anna ed i Caifa, pronti ad ogni occasione alle collaborazioni vantaggiose; sono gl'innumerevoli resistenti d'un popolo che non accetta la servitù, perché accettarla vorrebbe dire rinnegare Dio. Gli uni sono uomini d'azione, pronti ad estrarre il pugnale, - si chiamino essi «Zeloti» o « sicari », « assassini » o « terroristi » - e forse tra essi si potrebbe annoverare Gesù Barabba e quello dei dodici che ha nome di Simone lo Zelota. Gli altri, che condannano egualmente la violenza sanguinaria e la vile sottomissione, pacifici ma risoluti, sperano soltanto in Dio e nella sua onnipotenza, simili a quei Farisei che, qualche tempo dopo, si dichiareranno pronti ad affrontare la morte piuttosto che trasgredire la Legge, simili a quegli Esseni che non si lasceranno piegare da nessuna tortura pur di non venir meno alla fedeltà verso i santi comandamenti. E ad essi, non è forse giusto aggiungere gli Undici, gli stessi apostoli, di cui la prima domanda a Gesù risorto sarà: «Signore, è in questo tempo che ristabilirai il regno d'Israele? » (Atti, I, 6).
    Pasqua dell'anno 29 o 30. Pasqua a Gerusalemme. Miracolo che ogni anno si rinnova: l'Universo a Gerusalemme. Tutti i popoli vi affluiscono, si sentono parlare tutte le lingue. La folla invade ogni luogo, sommerge ogni cosa. Parlando dell'anno, Giuseppe Flavio valuta due milioni e mezzo o tre milioni i pellegrini venuti da ogni parte del mondo per festeggiare la Pasqua nella Città santa. Abitualmente egli esagera, ma non v'è dubbio che i pellegrini si contano a decine, a centinaia di migliaia; Filone ce l'assicura; la popolazione normale della città, un centomila anime, dev'essere triplicata, quadruplicata, fors'anche decuplicata. Alla città di pietre si aggiunge nella campagna circostante un'altra città di tende. Questa è la realtà più importante di cui lo storico deve tener conto: la folla di Pasqua, una densità di folla tale che la parola di Gesù non ha certo potuto penetrare. « Chi è costui? » domandavano a Gerusalemme, vedendo passare il Maestro su un asinello, seguito dal corteo dei suoi discepoli (Matteo, XXI, 10).
    E sarebbe « tutto questo popolo », tutto il popolo di Gerusalemme, aumentato dall'enorme afflusso dei pellegrini, gli uni e gli altri improvvisamente mobilitati, all'alba, un 14 o 15 Nisan vigilia o primo giorno di Pasqua, strappati al sonno, distolti dalle loro preghiere, e più ancora dai loro sentimenti più profondi, più tenaci; mutati d'animo oserei dire, che si sarebbero trasformati in questa « tigre assetata di sangue» - di sangue ebraico - di cui parla un membro eminente della Chiesa del Cristo, per precipitarsi fino al tribunale del magistrato romano, levando grida di morte, strappando a Pilato la condanna alla crocifissione (eseguita dai soldati romani) di quell'ebreo che soltanto il giorno prima alcuni di essi seguivano, ammiravano, esaltavano come un profeta, se non proprio come il Messia!

    Io affermo che tutto questo è non solo inverosimile, ma inconcepibile; e non solo inconcepibile, ma impossibile, d'una impossibilità assoluta.

    Quando Léon Bloy ci mostra « al momento culminante della Passione, centomila Ebrei che al colmo dell'esasperazione gridano che si crocifigga Gesù », questi centomila Ebrei esistono soltanto nel delirio d'un'immaginazione malata. Ebrei immaginati per un quadro, non rispondenti ad una verità simbolica o storica, Ebrei che vivono non secondo una realtà storica o simbolica, ma solo secondo un'intenzione chiaramente voluta dall'autore: per la bellezza, per la legittimità della sua tesi, è assolutamente necessario che «centomila Ebrei esasperati» abbiano lanciato l'ignominioso grido di morte.
    Essi sono necessari, dunque esistono.
    Parimenti, quando l'evangelista Matteo (XXVII, 25) racconta: «E in risposta (a Pilato) tutto il popolo gridò: "Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli" », quando i più seri commentatori, cattolici, protestanti, "centomila cristiani" (che sarebbe esagerato definire "al colmo dell'esasperazione", riprendono in coro, devotamente, aspramente: "Tutto il popolo, tutta la nazione, tutto Israele! ", un tale racconto, una tale deduzione non rispondono affatto alla realtà storica, esse rispondono solo ad un'intenzione sempre la stessa, quella che il P. Lagrange ha cosi ben definita, « l'intenzione di dimostrare come il popolo ebraico ... ha pienamente assunto su di sé la responsabilità della morte del suo Cristo ». Ciò è necessario, dunque esiste. Verità dottrinale, non simbolica, non reale, ma semplicemente intenzionale.
    Poiché infine, aprite gli occhi, sforzatevi di guardare: se ci fosse davanti al pretorio di Pilato una piazza immensa (come quella della Concorde a Parigi), i vostri quattro o cinquecento mila Ebrei non potrebbero trovarvi posto. E come su una simile marea umana, su una tale massa di popolo, le istigazioni dei sommi sacerdoti ricordate in Marco, XV, 11, e Matteo, XXVII, 20, avrebbero ~otuto far presa? Se in tali racconti per la catechesi sussistono partìcelle di verità, che cosa può rappresentare quella folla sobillata dai sommi sacerdoti davanti al pretorio di Pilato? Qualche centinaio, al massimo qualche migliaio di persone, percentuale minima in confronto alla massa umana presente per Pasqua a Gerusalemme, ancora minore in confronto alla massa intera del popolo ebraico nel mondo antico.

    E allora io mi domando: che bisogno c'è di supporre, e di spiegare, un preteso mutamento della folla ebraica? Perché volere, ad ogni costo, che quella poche centinaia, o anche migliaia, di Ebrei siano gli stessi che il giorno prima «pendevano dalle labbra» di Gesù? E soprattutto, perché volere, ad ogni costo, che essi rappresentino la voce d'Israele?

    Si, perché? Solo per rispondere all'intenzione definita in precedenza.

    È una cosa tanto evidente. «Tutto il popolo» di Matteo, XXVII, 25, non può avere e non ha che un significato soltanto: tutto il popolo che era là, davanti al pretorio. Ed il popolo che era là, davanti al pretorio, non era certo tutto Israele, e neppure tutto il popolo della Palestina, o tutto il popolo dei pellegrini, o anche tutto il popolo di Gerusalemme, e ancor meno una sua delegazione qualificata.

    Delle due cose l'una: o si trattava di una folla qualunque, abbastanza poco numerosa per essere in pochi momenti sobillata dai sacerdoti contro Gesù; oppure, ipotesi infinitamente più verosimile, si trattava di gentaglia raccogliticcia, come nelle grandi città è facile avere, assoldata dalle guardie degli Anna e dei Caifa. Ben si conosce il meccanismo di queste cosiddette manifestazioni spontanee.

    Dio, scrive l'abate Richard in un suo bel libro (Israél et la foi chrétienne) «Dio prende come rappresentanti del suo popolo quei capi accaniti contro il suo Cristo e quegli uomini turbolenti che essi hanno trascinato davanti al palazzo del governatore? ». Non si potrebbe dire meglio: la verità s'impone a chiunque ha il coraggio di ricercarla onestamente. Ma purtroppo la tradizione s'impone essa pure, di modo che, senza preoccuparsi di una evidente contraddizione, lo stesso autore, poche pagine più avanti, scrive: « Gesù deve morire, vittima di quel popolo che, in tal modo, viene respinto fuori dalla propria via».

    A chi si sforza di sviscerare la realtà, di scrutare avvenimenti e testi, appare chiaramente che Gesù non è morto «vittima del suo popolo »; e credo di averlo dimostrato.

    Per sostenere il contrario occorre avere un partito preso ininveterato, irragionevole, oppure una cieca sottomissione ad una tradizione che ben sappiamo non essere « normativa », non da imporre perciò anche al più docile figlio della Chiesa. Ma è una tradizione vigorosa, infinitamente nociva, una tradizione micidiale che può condurre ad Auschwitz - ad Auschwitz e simili luoghi: l'ho detto e lo ripeto.

    Quasi sei milioni di Ebrei assassinati unicamente perché erano Ebrei. Per il disonore non solo del popolo tedesco, ma della cristianità tutta quanta sì.

    Senza i secoli di catechesi, di predicazione e di vituperazione cristiane, la catechesi, la predicazione e la vituperazione hitleriane sarebbero state impossibili.
    Ecco perché lo storico ha il dovere, oggipiù che mai, di affermare categoricamente:

    no, voi non avete il diritto di dire, di scrivere, d'insegnare che « il popolo ebraico si è assunto in pieno la responsabilità della morte del suo Cristo », di quel Cristo sconosciuto alla gran maggioranza degli Ebrei e del quale gli stessi che lo hanno conosciuto ignoravano generalmente la missione, la missione di Cristo.

    Gesù è morto condannato dal procuratore romano Pilato, crocifisso dai soldati romani, per causa di agitazioni messianiche, senza dubbio per istigazione d'un gruppo ebraico di cui i sommi sacerdoti Anna e Caifa sono stati o sembrano essere stati gli elementi responsabili. La storia non sa, non raggiunge e non può dire niente di più.

    Su questo punto preciso, la responsabilità massima, collettiva del popolo ebraico, non saranno le imputazioni calunniose, i commentari tendenziosi, accumulati di secolo in secolo, che potranno, per gli uomini onesti, sostituire l'assenza di valide testimonianze.
    Si potranno chiamare valide testimonianze i testi che ci verranno conrapposti, come ultima difesa, tolti gli uni dalle Epistole di san Paolo, gli altri dagli Atti degli Apostoli?

    Abbiamo già citato questi testi e li abbiamo provvisoriamente scartati. Non chiediamo di meglio che di riesaminarli una seconda ed ultima volta.

    Diciamolo subito: avviene per essi ciò che avviene per i Vangeli, niente può impedire che essi costituiscano delle testimonianze di accusa e che, appunto per questo, siano da prendere con riserva e imputabili di legittima suspicione. Inoltre si contraddicono gli uni gli altri, ispirati come sono meno da un desiderio di esattezza storica che da preoccupazioni di dottrina, di catechesi, di polemica.
    Il più antico di questi testi, che risale forse agli anni 50 o 52, ed al quale ci si riferisce abitualmente, è il testo paolino I T essalonicesi, II, 14-16:
    «Voi, fratelli, siete diventati imitatori delle Chiese di Dio in Gesù Cristo, che sono nella Giudea, perché avete sofferto anche voi da parte dei vostri connazionali come loro da parte dei Giudei, i quali hanno perfino messo a morte il Signore Gesù e i profeti e hanno perseguitato anche noi; essi non piacciono a Dio e sono nemici di tutti gli uomini, impedendo a noi di predicare ai pagani perché possano essere salvati. In tal modo essi colmano la misura dei loro peccati! Ma ormai l'ira è arrivata al colmo sul loro capo».
    Testimonianza o imprecazione? Paolo non aveva troppi riguardi verso coloro che gli attraversavano la strada. Salta subito agli occhi che una simile diatriba non va presa alla lettera; se anche lo fosse, non implica affatto la responsabilità collettiva di Israele nella Crocifissione: «Quegli Ebrei che hanno messo a morte il Signore Gesù ed i profeti» può significare « quella cattiva genia di Ebrei », «quel cattivo gruppo », sempre gli stessi che Gesù denunciava, « i sommi sacerdoti, gli scribi ed i farisei (ipocriti) », che se poi si respinge questa interpretazione limitativa per applicare il testo di san Paolo a tutto quanto il popolo ebraico, allora bisogna risolutamente escludere altri suoi testi, i più importanti, quelli delle grandi Epistole nelle quali l'ispirazione dell'apostolo raggiunge altezze insuperabili. Nella I Corinzi, II, 7-8, parlando della sapienza che egli annunzia t «sapienza divina, misteriosa, che è rimasta nascosta », san Paolo scrive: «Nessuno dei dominatori di questo mondo ha potuto conoscerla; se l'avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria ... » « I dominatori di questo mondo» (quelli cioè che detengono il potere politico, le autorità romane od ebraiche, romane ed ebraiche) sono dunque designati come gli autori responsabili della Croci-
    fissione.
    E non è ancora più significativo il fatto che la grandiosa E pistola ai Romani, nella quale, verso gli anni 56-58, l'apostolo affronta e tratta in tutta la sua ampiezza il problema d'Israele, non contenga una frase, una parola che possa alludere alla responsabilità del popolo ebraico? Non la minima allusione alla sinistra esclamazione di Matteo, XXVII, 25 « Il suo sangue ricada su noi e sui nostri figli! ». Quale argomento questo silenzio che si prolunga, lo abbiamo visto, fino alla metà del II secolo, e forse oltre. A quel silenzio si può opporre soltanto la falsificazione della Scrittura, come fa Léon Bloy, in una pagina «indimenticabile» del libro Sang du Pauvre; là dove san Paolo ha scritto: «A causa della loro caduta la salvezza è giunta ai Gentili », Romani, XI, 11, egli non esita a fargli dire: «Il loro delitto è stato la salvezza delle nazioni ». Ma il delitto è in questa moneta falsa alla quale mi stupisco che gli esegeti di Léon Bloy, Albert Béguin e l'abate Journet, diano senza esitare libero corso.

    Delle Epistole non paoline del Nuovo Testamento, una sola mette in causa gli autori responsabili della Crocifissione: « Ed ora a voi, ricchi; piangete e gridate per le sciagure che vi sovrastano!. .. Avete condannato e ucciso il giusto ed egli non può opporre resistenza» (Giacomo, V, 1-6).

    Perché si mantiene generalmente il silenzio su questo testo?

    Goguel lo omette nell'elenco dei testi neotestamentari relativi alla storia della Passione. L'Epistola di Giacomo fa un po' l'effetto del parente povero nella famiglia del Nuovo Testamento (sarà perché se la prende coi ricchi?); nondimeno essa ne fa parte, per i cattolici e per la maggioranza dei protestanti, anche se Lutero l'ha respinta perché essa urtava con troppa violenza la sua dottrina della salvezza per fede, per sola fede. Essa colpisce per il suo carattere di semplicità e di sincerità e rappresenta una testimonianza che non è forse tra le minori.
    Gli Atti degli Apostoli si ricollegano strettamente al Vangelo di Luca del quale formano il seguito, attribuito allo stesso autore. Per quanto riguarda la Passione, essi non portano una testimonianza nuova, né nuove informazioni, distinte e indipendenti dai Vangeli; provengono dallo stesso testimonio - se si può chiamare cosi il medico Luca - come il terzo Vangelo; non ci si dovrà dunque meravigliare se ne confermano i dati principali e se la loro testimonianza è discussa o rifiutata.

    In Atti, II, 22-23, oppure III, 13-16, Pietro, rivolgendosi al popolo di Gerusalemme, cosi si esprime:

    «Gesù ... voi l'avete inchiodato sulla croce per mano di empi e l'avete ucciso ... Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che avete crocifisso!. .. Avete ucciso l'autore della vita. Ma Dio l'ha risuscitato dai morti... ».

    Il testo segue il racconto della Passione, secondo Luca, ricordando che il popolo, ascoltando i suoi capi, ha fatto pressione su Pilato per ottenere la crocifissione di Gesù. Ma non è accusato di deicidio, bensì di omicidio e di aver peccato per ignoranza:
    « Gesù di Nazareth, uomo accreditato da Dio presso di voi... »,

    «Ora, fratelli, io so che avete agito per ignoranza, cosi come i vostri capi...» (Atti, II, 22; 111,17).
    E appena quegli Ebrei che hanno crocifisso, quelle « tigri assetate di sangue» che secondo Matteo hanno gridato un momento prima con frenesia feroce «il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli », appena hanno ascoltato il discorso di Pietro, ne « hanno il cuore trafitto », si fanno battezzare in numero di tremila e costituiscono quell'ammirevole prima comunità cristiana di Gerusalemme, ammirevole per la sua «comunione fraterna », per la totale accettazione degl'insegnamenti del Cristo (« Tenevano ogni cosa in comune. Chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti») e per la sua assiduità al Tempio (Atti, II, 37, 41, 46).
    Ma è forse anche permesso di pensare che certe espressioni accusatrici non debbano essere qui prese alla lettera e che, quando Pietro esclama « Questo Gesù che voi avete crocifisso », voglia dire esattamente «Questo Gesù che i Romani hanno crocifisso per istigazione non vostra - personale - ma dei vostri, dei nostri », poiché Pietro avrebbe potuto dire altrettanto bene ed anche meglio: «Questo Gesù che noi abbiamo crocifisso ».
    Se in Atti, IV, 27, gli apostoli Pietro e Giovanni ed i loro primi fedeli, tutti Ebrei, « alzando la voce a Dio» gli ricordano che:
    « contro il tuo santo servo Gesù, che tu hai unto come Cristo, Erode e Ponzio Pilato si radunarono con i Gentili e coi popoli d'Israele »,
    ciò vuol dire che, secondo il racconto della passione fatto da Luca, Erode ha tenuto un certo posto, ha preso la sua parte di responsabilità. E ancora, in questa pia preghiera nella quale sarebbe eccessivo cercare una testimonianza storica, Erode e Pilato, Ebrei e pagani, sono posti sullo stesso piano, senza alcuna distinzione.
    Omettiamo Atti, IV, 10; V, 30; VII, 52 nei quali le accuse espresse dagli apostoli e da Stefano si rivolgono solo ai dirigenti ed al Sinedrio.
    Resta il discorso di Pietro a Cesarea, davanti al centurione Cornelio:
    « E noi siamo testimoni di tutte le cose compiute (da Gesù) nella regione dei Giudei e a Gerusalemme; essi lo uccisero appendendolo ad una croce ... » (Atti, X, 39);
    resta il discorso di Paolo nella sinagoga di Antiochia di Pisidia:
    « Gli abitanti di Gerusalemme ed i loro capi non hanno riconosciuto (Gesù), e condannandolo hanno adempiuto le parole dei profeti... e pur non avendo trovato in lui nessun motivo di condanna a morte, chiesero a Pilato che fosse ucciso» (Atti, XIII, 27-29).
    Nel primo caso, l'accusa sembra alludere a tutti gli Ebrei della Palestina, nel secondo caso allude unicamente, esplicitamente agli Ebrei di Gerusalemme.
    Ma qual conto si può fare di queste imputazioni diverse, confuse, discordanti? Le più circoscritte, come l'ultima, non sono altro che generalizzazioni abusive, di cui la storia non può davvero tenere conto. E chi dunque oserebbe garantire l'esattezza letterale di parole riprodotte quarant'anni dopo che esse sono state pronunciate, riprodotte in greco, quando per la maggior parte sono
    state pronunziate in aramaico? .
    « Noi non pretendiamo », scrive un esegeta cattolico, E. jacquier, « che i discorsi degli Atti siano stati riprodotti letteralmente, e cioè assolutamente come sono stati pronunciati. Il fatto, ammesso da tutti, che non abbiamo qui che dei riassunti, sarebbe già una prova che essi non sono stati riprodotti che nella loro sostanza».
    Parimenti A. Puech: «Al giorno d'oggi si è press'a poco d'accordo che quei discorsi sono stati liberamente compilati da Luca ». E l'autore riconosce nella redazione degli Atti la preoccupazione manifesta « di scagionare l'autorità romana» e « di attribuire agli Ebrei le prove più importanti subite dal cristianesimo».
    Sotto questo punto di vista, nessuna distinzione è da fare tra gli Atti ed i Vangeli.
    La responsabilità collettiva del popolo ebraico, della nazione ebraica, d'Israele nella condanna a morte di Gesù, è dunque un prodotto leggendario, senza una solida base storica.
    In verità si tratta di un anacronismo e nient'altro: la trasposizione considerata come opportuna di un altro fatto del tutto diverso e posteriore, il fatto che, dopo un primo slancio di conversioni, e per delle ragioni che qui non abbiamo da considerare, il popolo ebraico nel suo insieme è divenuto refrattario alla predicazione cristiana. Ora è proprio in quel periodo che i racconti della Passione sono stati elaborati. Ma attraverso quei racconti, per quanto tendenziosi essi siano, la realtà storica traspare ancora. E non permette di chiamare in causa il popolo ebraico che non si identifica né con Anna, né con Caifa, né con la plebaglia sobillata dalle loro guardie, neppure col Sinedrio.
    Péguy diceva: «Non sono gli Ebrei che hanno crocifisso Gesù, ma i peccati di tutti noi; e gli Ebrei, che sono stati soltanto uno strumento, attingono come gli altri alla sorgente della salvezza »,
    Ecco quel che mi sembra essere un linguaggio cristiano, una mentalità cristiana. Ecco ciò che pensa, ben lo so, una élite cristiana, cattolica e protestante. Ma una élite assai poco numerosa e poco ascoltata. Frattanto la tradizione infame continua ad essere propagandata nelle anime indifese per opera di teologi abitudinari; di letterati superficiali, preoccupati più dei successi mondani che della verità schietta.
    Quando mai si leveranno delle voci autorevoli per richiamare costoro all'amore della verità e all'amore del prossimo, che non sono disgiunti né l'uno né l'altro dall'amore di Dio?

    Continua (forse, se interessa)
     
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