Consulenza ebraica per lo studio del Cristianesimo e dell'Islam

Posts written by Abramo

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    Ospitalità


    Il comandamento dell’ospitalità, appartiene alla serie di mizwot della
    גמילות חסדים (ghemilut hasadim) (Beneficenza, donazione amorevole).
    (Shabbat 127b).

    L’ospitalità appartiene al comandamento “Amerai (desidererai) per il prossimo tuo come per te stesso”, secondo la concezione di fare per gli altri tutto ciò che vorresti fosse fatto a te.
    Le regole sull’ospitalità sono fatte risalire ad Avraham Avinu, secondo la sua consuetudine di offrire da mangiare e da bere ai viandanti e di accompagnarli.
    (Rambam, Mishnèh Torah, Hilhot Evel 14,1)

    Chi riceve gli ospiti è obbligato a farlo con gentilezza, anche nel caso si tratti di persone poco affidabili:

    והוי מקביל את כל האדם, בסבר פנים יפות


    Traduzione:
    “E ricevi ogni uomo con gentilezza”
    (Avot 1,15)

    Quando si hanno degli ospiti, si deve mettere a tavola del pane e del cibo, poiché potrebbe trattarsi di poveri affamati e timidi, con pudore a chiedere. E’ molto importante che il pane sia già diviso in parti, onde evitare che l’ospite si vergogni di servirsene.

    הלוא פרס לרעב לחמך ועניים מרודים תביא בית כי-תראה ערם וכסיתו ומבשרך לא תתעלם


    Traduzione:
    “Certamente si fa così: spezza il tuo pane all’affamato e porta a casa i poveri nomadi e quando vedi il nudo lo coprirai, senza tralasciare il tuo parente”.
    (Isha’iahu 58,7)

    Anche se si dispone di servitù, è un comandamento occuparsi personalmente degli ospiti, come fece Avraham Avinu, dando l’esempio per tutte le generazioni. (Bereshit 18)
    Bisogna onorare gli ospiti con il massimo del vitto e dell’alloggio. In particolar modo, il letto deve essere situato nel posto più confortevole. Un buon esempio è dato dalla donna di Shunah con queste parole:

    נעשה נא עלית קיר קטנה ונשים לו שם מטה ושלחן וכסא ומנורה


    Traduzione:
    “Facciamogli di sopra una piccola camera di mura, mettiamogli lì un letto, un tavolo, una sedia e una lampada”.
    (2 Melachim 4,10)

    Questo è il modo migliore e più adatto per accogliere gli ospiti, perché l’ospite generalmente stanco, ha prima di tutto bisogno di riposare dopo il viaggio. Per questa ragione, la prima cosa che bisogna fare, è quella di mettere a sua disposizione un letto in un posto appartato, perché è importante che la sua privacy sia rispettata.
    Accanto al letto ci sarà un tavolo privato per le sue cose personali.

    יהי ביתך פתוח לרווחה, ויהיו עניים בני ביתך.


    Traduzione:
    “Sia la tua casa generosamente aperta e i poveri siano come tuoi familiari”.
    (Avot 1,5)

    La casa dovrà essere aperta a chiunque sia di passaggio e abbia bisogno di ristorarsi. Avraham Avinu, per soddisfare questo principio di accoglienza, costruì la propria tenda, in modo che avesse quattro porte corrispondenti ai quattro punti cardinali, in maniera tale che chiunque ne avesse avuto bisogno, sarebbe potuto entrare dalla porta più prossima.
  2. .

    צדקה Tzedaqàh


    Quella di donare ai poveri è una “mitzwàh deoraita”, come è scritto:

    כי לא יחדל אביון מקרב הארץ על כן אנוכי מצווך לאמור פתוח תפתח את ידך לאחיך לענייך ולאביונך בארצך


    Traduzione:
    “Poiché non smetterà di esistere il nullatenente in seno alla terra, pertanto Io ti comando dicendo: apri generosamente la tua mano al tuo fratello, ai tuoi poveri e ai tuoi miseri nella tua terra”.
    (Devarim 15,11)

    Il comandamento consiste nel provvedere al povero per tutte le sue necessità, ovvero: vitto, alloggio e vestiario. Secondo l’halachàh, l’obbligo della tzedaqàh è rivolto a tutti i cittadini, anche al povero che viva egli stesso di tzedaqàh. Pur essendo esente da ma’asser (tassa della decima), egli è comunque obbligato ad offrire tzedaqàh ad altri poveri.
    Rambam descrive la tzedqàh secondo una scala morale di otto gradi. Ogni ebreo è incoraggiato a conseguire il grado più alto:

    1) Donare tzedaqàh, con lo scopo di risollevare chi è caduto economicamente, perché possa riacquisire la sua indipendenza economica. Fare società con lui, fargli un prestito (senza interesse) o donargli una considerevole somma di danaro per creargli un lavoro.

    2) Donare la tzedaqàh ai poveri, senza conoscere l’identità di chi la riceve e chi la riceve non conosce l’identità di chi l’ha data.
    Come dare la tzedaqàh ad un’associazione che distribuisce ai poveri (In questo caso Rambam avverte di accertarsi che l’amministratore sia onesto).

    3) Chi dà la tzedaqàh conosce l’identità di chi la riceve, ma il povero non conosce l’identità di chi l’ha data.

    4) Il povero sa chi è il benefattore, ma il donatore non sa chi è il beneficiario.

    5) Donare alla mano del povero, ancor prima che egli sia costretto a chiedere.

    6) Donare dopo che il povero ne abbia fatta espressa richiesta, conformemente ai suoi bisogni.

    7) Donare con gentilezza, dopo che il bisognoso ne abbia fatta espressa richiesta, ma in misura inferiore ai suoi bisogni.

    8) Donare tristemente e controvoglia.

    (Rambam, Matanot ‘Aniim, 10, 7-14)

    Il grado più alto di tzedaqàh è quello rivolto a chi è rimasto senza nulla, in seguito ad un fallimento economico.
    E’ d’obbligo aiutarlo a risollevarsi dalla sua condizione, attraverso dei prestiti, oppure entrando in società con lui, in modo che non abbia il bisogno di vivere di tzedaqàh e possa così continuare a vivere del frutto del suo lavoro.

    E’ di elevato grado morale dare tzedaqàh in modo anonimo, affinché chi la riceva non ne sia umiliato. Colui che dà non sa chi riceve e chi riceve non conosce la provenienza di chi ha donato. Ancora più meritevole è considerato colui che dà al povero che ne faccia espressa richiesta.
    Non è visto di buon occhio invece, chi dà la tzedaqàh in misura insufficiente o di mala voglia.
    I Saggi hanno posto una siepe intorno alla tzedaqàh, stabilendo un limite all’entità dell’elargizione, affinché non vi sia il rischio che il benefattore possa diventare egli stesso povero, dato che la tzedaqàh, in realtà, non ha una percentuale fissa e ciascuno può dare quanto ritenga opportuno. Il limite imposto dai Saggi è che ognuno non elargisca più di 1/5 del suo guadagno netto. Essi stabilirono anche chi ha la precedenza nel ricevere la tzedaqàh.
    Ad esempio: in primo luogo vengono i componenti familiari, poi i vicini, i concittadini e così via dicendo.

    La tzedaqàh è considerata come la più grande di tutte le mizwot della Toràh:

    צדקה וגמילת חסדים שקולות כנגד כל מצותיה של תורה


    Traduzione:
    “Tzedaqàh e Beneficenza sono considerate le più grandi, tra tutte le mizwot della Torah” (Talmud Yerushalmi, Peà 3a)

    A questo proposito, è bene precisare come il concetto esposto abbia una connotazione totalmente diversa da quello espresso dalla traduzione “carità”.
    La carità è una sorta di benevolenza, di “concessione” al prossimo. Potremmo considerarla una “donazione amorevole e pietosa” che non è affatto obbligatoria, per quanto meritevole.

    Tzedaqàh, dalla radice צדק (Tzedeq: Giustizia), ha in sé non solo il valore morale, ma anche il senso giuridico dell’obbligatorietà della giustizia sociale. La carità non è un diritto di chi la riceve e non è un obbligo per chi la “concede”.
    All’opposto, la tzedaqàh è un obbligo per colui che deve elargirla ed un diritto di colui che ne beneficia.
    La tzedaqàh esprime in sé, oltre che l’amore per il prossimo, anche un contributo alla società, con una tendenza, se non proprio ad eliminare, almeno ad attenuare le disuguaglianze e rende la compagine sociale più nobile ed economicamente più forte.
    Secondo la letteratura talmudica essa è più grande dei qorbanot (Babli, Succàh 49b) e avvicina il tempo della גאולה (Gheulàh).

    Come riporta la Masechet Sanhedrin, una città che non aveva una cassa per i poveri era considerata di un così basso livello morale che ad un talmid chacham era proibito risiedervi. (Sanhedrin 17b)
    Anche i più malvagi ottengono dei meriti, donando la tzedaqàh e addirittura è detto che hanno la facoltà di riscattare se stessi per mezzo delle donazioni ai poveri:

    אדם קונה את עצמו בממון מידי שמים


    Traduzione:
    “Un uomo compra se stesso con denaro, dal (giudizio del ) cielo
    (Mechilta, Mishpatim, 109).

    I Saggi vedono la povertà come una situazione che si ripete e che può far parte della vita di chiunque.
    Pertanto, è necessario che ci sia costantemente il timore di HaShem, poiché la parnassàh ci è data da Lui e che si doni sempre all’indigente, con mano generosa, affinché Egli si ricordi di noi, nel momento in cui la ruota della vita non girerà più in nostro favore.
    Anche il rapporto con la povertà è particolarmente diverso nella mentalità ebraica, rispetto a come è concepito in altre società ed altre religioni.
    Alcune religioni esaltano la povertà come mezzo di salvezza ed esortano i loro fedeli a spogliarsi dei propri beni, allo scopo di guadagnare la vita eterna.
    Nell’ebraismo si tratta esattamente del contrario: ricchezza e benessere sono considerati una benedizione di HaShem, al quale deve andare tutta la gratitudine per quanto ci è dato. La povertà e l’indigenza sono considerate una sventura, nulla affatto una gioia o una speranza, nell’ottica di una presunta salvezza futura.
  3. .

    L’orfano e la vedova


    La Toràh giudica con severità l’umiliazione ed il maltrattamento dei deboli e, in particolare modo, degli orfani e delle vedove, i quali non hanno l’appoggio familiare che garantisca le loro difese. Infatti, Essa si esprime a tale riguardo con le seguenti parole:

    כל אלמנה ויתום לא תענון אם ענה תענה אתו כי אם צעק יצעק אלי שמע אשמע צעקתו וחרה אפי והרגתי אתכם בחרב והיו נשיכם אלמנות ובניכם יתמים

    Traduzione:
    “Non angariate ogni orfano o vedova. Se lo opprimerai con angherie ed egli griderà forte a Me, Io ascolterò molto attentamente il suo grido, che la mia ira si accenderà in maniera tale che vi ucciderò con la spada, le vostre donne saranno vedove e i vostri figli orfani”.
    (Shemot 22, 20-23)

    E ancora il cantore di Israel sottolinea questa centralità ove l’orfano e la vedova, insieme con il gher, sono quelli che hanno bisogno di maggior assistenza, perché facili da ingannare. Opprimere il popolo non significa opprimere il potente o il ricco, ma opprimere le categorie più deboli: sono esse la vera essenza del popolo:

    עמך ה׳ ידכאו ונחלתך יענו
    אלמנה וגר יהרגו ויתומים ירצחו


    Traduzione:
    “Opprimono Il tuo popolo, HaShem, e la Tua eredità angariano.
    La vedova e il gher uccidono e gli orfani assassinano”.
    (Tehillim 94,5-6)

    La Toràh avverte di non angariare la vedova, perché l’animo delle vedove è umile e depresso, anche se vivono una vita agiata. A loro bisogna rivolgersi con dolcezza, comprensione ed onore. E’ proibito dare alla vedova un lavoro particolarmente duro, perché ella ne potrebbe soffrire e il datore di lavoro potrebbe incorrere nella violazione del comandamento di “לא תענון”.
    Bisogna anche fare molta attenzione a non ferire l’animo della vedova, evitando di parlare di argomenti troppo delicati.
    E’ un comandamento proteggere i beni della vedova, ancor più dei beni propri.
    E’ proibito prendere pegno da una vedova e chi trasgredisce e l’avesse preso per errore, dovrà restituirlo immediatamente. Se non lo farà, le autorità provvederanno a farlo restituire con forza. Se il pegno è andato perduto o distrutto, il responsabile sarà punito con le frustate:

    א אלמנה--בין שהיא ענייה בין שהיא עשירה, אין ממשכנין אותה, לא בשעת הלוואה ולא שלא בשעת הלוואה, ולא על פי בית דין: שנאמר "ולא תחבול, בגד אלמנה" (דברים כד,יז). ואם חבל, מחזירין ממנו בעל כורחו. ואם תודה לו, תשלם; ואם תכפור, תישבע. אבד המשכון, או נשרף, קודם שיחזיר--לוקה.

    Traduzione:
    “Dalla vedova, sia povera che ricca non si prende pegno, né quando prende un prestito, né in altra occasione e nemmeno secondo una decisione del Tribunale. Come fu detto: ”Non prenderai in pegno l’abito della vedova” (Devarim 24,17) e se fu preso un pegno, lo si farà restituire contro la sua volontà. Se invece lei è d’accordo con lui, allora gli pagherà il debito, se invece nega, lei giurerà. Se si è perso il pegno o si è bruciato prima di essere restituito, sarà punito con le frustate.
    (Rambam, Hilchot Malvèh 3,1)

    La Vedova non eredita dal marito, essa però riceve il sussidio dagli eredi fino a quando non si risposa e, se ha figli, sono questi gli eredi. Se non ha figli, possono essere i genitori o i parenti più stretti. Nel caso che gli eredi si rifiutassero di pagare il sussidio, sarà un verdetto del Bet Din ad obbligarli al pagamento.

    Il Bet Din funge da padre degli orfani (Ghittin 37a) e i Giudici hanno la delega di gestire i loro beni.
    Essi nominano un tutore, detto “apotropos”, per l’orfano, fino all’età adulta. Egli è considerato come suo padre e gli altri familiari non hanno la facoltà di opporsi, né di vantare alcuna pretesa su di lui.

    L’apotropos viene nominato qualora il Bet Din non possa occuparsi direttamente degli orfani. Nel caso in cui invece possa farsene carico, è considerato più onorevole che il Bet Din stesso se ne occupi direttamente, come ad esempio, nel caso che gli orfani possiedano denaro e vogliano investirlo. In tal caso sarà il Bet Din ad aiutarli a tale scopo. Qualora il padre dell’orfano, prima del suo decesso, abbia disposto per il figlio un apotropos e questo non adempia ai suoi obblighi correttamente, il Bet Din non potrà esimersi dall’intervenire, assumendo la patria potestà, nonostante le disposizioni diversamente stabilite dal genitore . (Ghittin 52a)
    Il Bet Din ha anche il potere di decidere di sostituire l’apotropos, qualora ritenga di aver trovato un soggetto più adatto e di maggiori capacità.
    (Shut haRadbazh (R. David Ben Shlomo Ibn Zimrah) parte 3, par. 891)

    L’orfano non ha l’obbligo della tzedaqàh, anche nel caso sia molto agiato.

    אין פוסקין צדקה על היתומים, ואפילו לפדיון שבויים, ואף על פי שיש להם ממון הרבה; ואם פסק הדיין עליהם כדי לשום להן שם, מותר.

    Traduzione:
    “Non vi è imposizione di Tzedaqàh agli orfani, persino nel riscatto dei prigionieri e anche se hanno molto denaro e se il Giudice ha emesso un verdetto in favore (in onore) del loro nome, allora ciò è permesso”.
    (Rambam, Mishnèh Torah, Matanot ‘Aniim 7,12)

    Il principio si basa sul fatto che la tzedaqàh non costituisce un obbligo secondo percentuale e l’orfano, considerando lo stato emotivo di chi è rimasto solo e la sua inesperienza e dato l’elevato numero di indigenti nella popolazione, potrebbe correre il rischio di esagerare, fino al punto di rimanere senza risorse. (Rashì Ghittin 52a).

    Per ogni obbligo, per il quale non si sia stabilita una somma fissa o una percentuale, vige l’esenzione per l’orfano, in base al suddetto principio.
  4. .

    Il Diritto delle minoranze


    Alle norme morali è riservato un posto centrale nel Tanakh. In esso è sottolineato che gli obblighi morali valgono per tutti i popoli e al Popolo di Israel furono aggiunte altre norme, soprattutto di carattere cultuale.
    Il principio di questa parità è ben evidente nell’ordinamento sociale dello straniero che vive in seno allo Stato ebraico.
    La riforma giuridica dello Stato di Israel del 1980 ha emesso il verdetto di adottare il diritto ebraico come diritto nazionale:

    מתוך עקרון אהבת האדם ושוויונו, בא פסק הדין לדון בעמדתה של מורשת ישראל ויחסה כלפי מיעוט לאומי או דתי המתגורר בחסותו של שלטון יהודי

    Traduzione:
    “Nel principio dell’altruismo e dell’uguaglianza, la sentenza viene a discutere della posizione del patrimonio culturale di Israel e la sua relazione con la minoranza popolare o religiosa che risiede sotto la protezione del governo ebraico”. (Menachem Elon; HaMishpat ha’Ivri, pag. 1561)

    Nel linguaggio comune, גר (Gher) è colui che abita un paese straniero, un immigrato. Nel linguaggio legale, è invece uno straniero che entra a far parte del popolo di Israel e si sottomette alle sue leggi.

    Gli ebrei erano gherim in terra d’Egitto e anche coloro che venivano ad abitare la Terra di Israel erano definiti gherim.

    וכי יגור אתך גר בארצכם לא תונו אתו כאזרח מכם יהיה לכם הגר הגר אתכם ואהבת לו כמוך כי גרים הייתם בארץ מצרים:

    Traduzione:
    “Quando abiterà, nella vostra terra, con te, un gher, non lo ingannerai, sarà considerato un cittadino come voi il gher che abita con voi e amerai (desidererai) per lui come per te, perché gherim eravate nella terra d’Egitto”.
    (Waykrà. 19,33-34)

    וגר לא תונה ולא תלחצנו כי גרים הייתם בארץ מצרים כל אלמנה ויתום לא תענון אם ענה תענה אתו כי אם צעק יצעק אלי שמע אשמע צעקתו וחרה אפי והרגתי אתכם בחרב והיו נשיכם אלמנות ובניכם יתמים

    Traduzione:
    “Non ingannerai il gher e non lo opprimerai, perché eravate gherim in terra d’Egitto. Non angariate ogni orfano o vedova. Se lo opprimerai con angherie ed egli griderà forte a me Io ascolterò molto attentamente il suo grido, tale da accendersi la mia ira che vi ucciderò con la spada, le vostre donne saranno vedove e i vostri figli orfani.”
    (Shemot 22,20-23)

    Il גר תושב (Gher Toshav), secondo Rav Meir, è colui che si è impegnato a non praticare il culto straniero.
    I Saggi invece, affermano che è colui che ha accettato di osservare tutte le mizwot della legge noachide.

    Egli appartiene ai “חסידי אומות העולם” (hasidè ummot ha’olam) e anche se non è circonciso viene accettato davanti ad un Bet Din di tre rabbini.
    (Rambam, issurè bià 14,7)
    E’ colui che riconosce che le mizwot noachidi erano già in vigore ancor prima del Matan Toràh ed in forza di questo fatto egli vi si sottomette.
    Chi invece decide di abitare insieme al popolo di Israel per ottenere qualche vantaggio, è semplicemente considerato un saggio dei goym.
    Egli si chiama gher toshav (da “ישב = risiedere), perché è permesso al Bet Din di autorizzarlo a risiedere presso il popolo di Israel.
    Anche per gli Ishmaeliti vale lo statuto di gher toshav, poiché è noto che non sono idolatri.
    E’ una mizwàh far risiedere il gher toshav dove egli ritenga vi sia un buon posto per lui, soprattutto laddove possa trovare un buon lavoro.
    E’ proibito farlo risiedere in periferia: egli dovrà ottenere una buona residenza all’interno (בקרבך) delle città, tranne che a Gerusalemme, la quale è riservata al Popolo per ragioni di sacralità. Si pensi, ad esempio, alle tre “regalim”, durante le quali la città è particolarmente affollata, per l’arrivo di ebrei provenienti da tutto Eretz Israel per i festeggiamenti (ai quali il gher toshav non è obbligato).

    Altra motivazione sta nel fatto che, che risiedendo in periferia, potrebbe allearsi con il nemico ed attaccare la città.
    Egli dovrà abitare insieme con il popolo di Israel ma non potrà costruire città proprie.
    Dovrà essere aiutato, affinché trovi il posto migliore per lui, in buona salute e con una buona פרנסה (parnassàh: sostentamento).

    E’ obbligo per ogni ebreo aiutare il gher toshav “לחיותו” (affinché egli viva), in ogni situazione di degrado o pericolo, alla pari di un cittadino ebreo.

    Se è malato dovrà essere aiutato, affinché riceva le dovute cure, come è scritto:

    וכי-ימוך אחיך ומטה ידו עמך והחזקת בו גר ותושב וחי עמך


    Traduzione:
    “Se il tuo fratello si impoverirà e la sua forza verrà meno, chi è con te, lo sosterrai, straniero o risiedente che vive con te”.
    (Waykrà 25,35)

    E’ un comandamento procurargli le cure gratuitamente ed è permesso trasgredire lo Shabbath per far nascere i suoi figli.
    Secondo Ramban questo è un comandamento positivo (Sefer haMizwot, 16).

    Tutto ciò che non è kasher per l’ebreo ed è kasher per il gher toshav, potrà da questi essere ricevuto in regalo.

    Secondo la Toràh, al gher toshav è permesso consumare carne non kasher, come è scritto:

    לא תאכלו כל נבלה לגר אשר בשעריך תתננה ואכלה או מכר לנכרי


    Traduzione:
    “Non mangerete animali non kasher, li donerai al gher che sta nelle tue città e li mangerà, oppure la venderai al nokrì”
    (Devarim 14,21)

    Non è permesso quindi vendere al gher toshav ma si potrà vendere al commerciante straniero di passaggio.
    Quando si presenta l’occasione di vendere il prodotto della terra ad un commerciante straniero di passaggio e vi è anche un gher toshav che lo richieda, questi ha la precedenza e non si potrà vendere a lui il prodotto, ma dovrà riceverlo in dono.
    E’ permesso vendere beni immobili al gher toshav e ci si dovrà comportare con lui con rispetto e gentilezza, come nei confronti dell’ebreo.

    La tzedaqàh offerta dal gher toshav appartiene ai poveri di Israel, dato che egli trae il suo nutrimento da Israel e dato che l’ebreo ha degli obblighi verso di lui.
    (Rambam, melachim, 10,12).

    E’ proibito abusare economicamente del gher toshav, anche nel caso che si tratti di un servo fuggito dal suo padrone. Colui che ne abusa trasgredisce il principio “lo tonennu” ( non lo ingannerai):

    עמך ישב בקרבך במקום אשר יבחר באחד שעריך בטוב לו לא תוננו


    Traduzione:
    “Con te risiederà, vicino a te, nel posto che sceglierà all’interno di una delle tue città, in modo che egli sia soddisfatto, non lo ingannerai”.
    (Devarim 23,17)

    Chi trattiene il salario del gher toshav contravviene all’obbligo di “lo ta’ashok”:

    לא תעשק שכיר עני ואביון מאחיך או מגרך אשר בארצך בשעריך ביומו תתן שכרו ולא תבוא עליו השמש כי עני הוא ואליו הוא נשא את נפשו ולא יקרא עליך אל ה׳ והיה בך חטא

    Traduzione:
    “Non deprederai il salariato povero e il nullatenente dei tuoi fratelli o dei residenti stranieri che abitano nel tuo paese, all’interno delle tue città. In giornata gli darai il suo salario, prima che tramonti il sole, perché egli, essendo povero, aspetta questo per mantenersi. Che non gridi ad HaShem contro di te e ti sia attribuita una trasgressione”.
    (Devarim 24,14)

    Il Tribunale ebraico ha l’obbligo di costituire dei Giudici che abbiano l’incarico speciale di giudicare secondo le sette mizwot di Noah, in quanto il gher toshav appartiene ad un’altra giurisdizione e richiede un’adeguata competenza. E’ possibile che tali Giudici appartengano alla classe del gher toshav, oppure che siano individui nominati dal Tribunale ebraico, specializzati su questa differente legislazione.
    (Rambam, Melachim 10,11).

    La costituzione di un Tribunale con la competenza della legge noachide è un obbligo primario della classe del gher toshav e, solo nel caso che questa non abbia la sufficiente capacità e competenza, interverrà il Tribunale ebraico per aiutare a raggiungere tale scopo.
    Si tratta di un concetto estremamente rivoluzionario, nell’ambito giuridico, che non trova riscontro neanche oggi, come allora, in nessun altro sistema giuridico al mondo. Nessuna nazione e nessuno stato permetterebbero, nei propri domini, la presenza di forme di giudizio, gestite da giudici e tribunali, altri che quelli istituzionali del paese sovrano.

    Nel caso vi sia una contesa fra un ebreo ed un gher toshav, il Tribunale di competenza è sempre quello del gher toshav. (Rambam, Melachim 10,12).

    Il servo ebreo non può vendersi al gher toshav, egli può vendersi ad un altro ebreo o al גר צדק (gher tzedeq), come è scritto:

    וכי ימוך אחיך עמך ונמכר לך לא תעבד בו עבדת עבד


    Traduzione:
    “Se il tuo fratello che è con te si impoverisce e si venderà a te, non gli farai fare lavori da servo”.
    (Waykrà 25,39)

    L’anno sabbatico non è in vigore per il gher toshav come non lo è per i goym in generale.

    מקץ שבע שנים תעשה שמטה וזה דבר השמטה שמוט כל בעל משה ידו אשר ישה ברעהו לא יגש את רעהו ואת אחיו כי קרא שמטה לה׳ את הנכרי תגש ואשר יהיה לך את אחיך תשמט ידך

    Traduzione:
    Alla fine di sette anni farai shemitàh. Questa è la shemitàh:
    ogni creditore che denuncia il pagamento del debito al suo prossimo, che vi rinunci e non obblighi il suo prossimo, perché egli è come suo fratello, dato che fu proclamato l’anno della shemità. Il Nokrì potrai obbligarlo, ma dovrai rinunciare a tutti gli obblighi verso il tuo fratello.
    (Devarim 15,1-3)

    Il gher toshav non ha l’obbligo di mangiare il Qorban Pesah ed è dunque proibito offrirglielo come è scritto:

    תושב ושכיר לא יאכל בו


    Traduzione:
    “Il residente e il commerciante non lo mangeranno”
    (Shemot 12,45)

    L’avvertimento di non consumare il Pesah è rivolto all’ebreo, affinché questi non inviti il gher a mangiarlo.
    Tale avvertimento non è affatto rivolto al gher toshav e se egli vuole mangiarlo, dovrà farsi circoncidere:

    וכי יגור אתך גר ועשה פסח לה׳ המול לו כל זכר ואז יקרב לעשתו והיה כאזרח הארץ


    Traduzione:
    “Quando uno straniero abiterà con te e farà il Pesah ad HaShem si circonciderà ogni maschio ed allora si avvicinerà a farlo e sarà considerato come un cittadino del Paese”.
    (Shemot 12,48)

    Divenendo così un “גר צדק” (Gher Tzedeq) e acquistando il diritto di cittadinanza.

    Il Din del Gher Toshav è a tutti gli effetti come il din del nokrì.
    Secondo l’halachàh, il gher toshav non ha l’obbligo di osservare lo Shabbat.
  5. .

    L’Uguaglianza degli esseri umani


    L’uguaglianza si basa sul fatto che tutti gli essere umani, a qualunque ceto sociale appartengano, sono figli della stessa madre e dello stesso padre. Come dice Giobbe, tutti siamo stati formati allo stesso modo, nello stesso tipo di grembo materno e su questo principio egli basa la sua condotta verso i suoi servi e verso le classi deboli:

    אם אמאס משפט עבדי ואמתי ברבם עמדי
    ומה אעשה כי יקום אל וכי יפקד מה אשיבנו
    הלא בבטן עשני עשהו ויכננו ברחם אחד
    אם אמנע מחפץ דלים ועיני אלמנה אכלה
    ואכל פתי לבדי ולא אכל יתום ממנה


    Traduzione:
    “Se ho disprezzato la causa del mio servo e della mia serva nella loro contesa con me, cosa farò se si alzerà D-o [nel giudizio] quando mi esaminerà, cosa gli risponderò? Non è nel grembo che ha fatto me e ha fatto lui? Ci ha stabilito in un unico grembo. Se ho evitato di soddisfare i desideri dei bisognosi e se ho fatto attendere la vedova, se ho mangiato il mio pane da solo e non lo abbia mangiato anche l’orfano”.
    (Yov 31,13-17)

    Secondo le parole del profeta Malachì, tutti siamo figli dello stesso padre e pertanto creati dallo stesso Creatore:

    הלוא אב אחד לכלנו הלוא אל אחד בראנו

    Traduzione:
    “Non abbiamo forse un solo padre? Non ci ha forse creati un solo D-o?”
    (Malachì 2,10)

    Questi principi sono stati applicati nella Toràh, anche alle leggi dei servi, leggi che possono essere paragonate a quelle moderne dei lavoratori e sono addirittura superiori ad esse mentre, al contrario, nell’oriente antico erano normali la schiavitù e l’oppressione.
  6. .

    La ricompensa e la punizione


    Il discorso morale nel Tanakh pone l’accento principalmente sulla ricompensa per le opere buone e la punizione, come conseguenza naturale delle opere malvagie. Nel libro dei proverbi e nel resto dei libri sapienzali, la ricompensa è concepita come la conseguenza naturale dell’azione e non propriamente attraverso l’intervento divino.
    Ci sono nel Tanakh, tzadiqim esemplari ma, nonostante ciò, non esiste nella mentalità del Tanakh l’ideale del giusto che non abbia mai peccato.

    כי אדם אין צדיק בארץ אשר יעשה טוב ולא יחטא


    Traduzione:
    “Non c’è uomo giusto sulla terra, che faccia il bene e non pecchi”.
    (Qohelet 7,20)

    Una lista di azioni morali, presentate come esemplari, si possono osservare nelle lunghe confessioni di Yov (cap. 29-31), nei Tehilim 1,15, 24 etc, e nei rimproveri di Yehezqel (cap. 22)
  7. .

    דינים Dinim


    IL concetto ebraico di דינים è trattato principalmente nel seder nezikin.
    I Dinim si dividono in “dinè mammonot” e “dinè nefashot”.
    Spesso, con “Dinè mammonot” ci si riferisce al diritto civile, ma tra le due categorie non vi è un’esatta corrispondenza. Questi infatti incorporano un numero maggiore di norme, un campo ancor più vasto, ma che non comprendono parte dei “dinè mishpahàh” (diritto di famiglia) e dei “dinè ribit” (diritto relativo all’interesse).

    “Dinè nefashot” comprendono una parte del diritto penale, ma non comprendono quella parte del diritto penale che non preveda una punizione corporale.
    Un esempio che vada oltre questo sistema giuridico è dato dall’ordinanza di Usha che ha stabilito l’obbligo del padre di provvedere al mantenimento dei figli fino all’età di sei anni. Per il resto degli anni, essi sono sotto la cassa pubblica della Tzedaqàh. La continuazione del sostentamento, dopo i sei anni di età, è trattato nei “dinè tzedaqàh”. Si tratta quindi di un esempio nel quale i “Dinè mammonot” (diritto civile in generale), comportano delle implicazioni con i “dinè mishpahàh” (diritto di famiglia).
    (Shulchan ‘Aruch, Yoreh Dea 251,1; Even ha’ezer. 71,1)

    I “dinè mammonot” si rifanno al principio:

    המוציא מחבירו עליו הראיה


    Traduzione:
    “Chi intende togliere all’amico, a lui spetta la prova”
    Baba Kama 3,11

    La prova spetta all’accusa: chi ritiene di essere proprietario di qualcosa, indebitamente posseduta da un altro, a lui spetta la prova.

    e si estende in:

    אין הולכין בממון אחר הרוב

    Traduzione:
    “Nelle questioni monetarie non si va secondo la maggioranza”.
    (Baba Kama 27b)

    In tutte le altre controversie (non monetarie), il verdetto viene emesso in base alla maggioranza dei Giudici, mentre invece nel caso di contestazioni di tipo monetario, il verdetto viene emesso in base ad una vera ed inconfutabile prova.

    Nel caso di “Dinè nefashot” e, particolarmente, in caso di condanna a morte, si va secondo la maggioranza (dei Giudici) e con normative molto vincolanti.

    שפך דם האדם באדם דמו ישפך כי בצלם אלהים עשה את האדם


    Traduzione:
    “Chi versa il sangue dell’uomo, dall’uomo il suo sangue sarà versato perché ad immagine divina ha fatto l’uomo”. (Bereshit 9,6)

    L’uomo è צלם אלהים ovvero egli è l’immagine, il rappresentante del Giudice Supremo e ha dunque piena delega di applicare la pena di morte, nel caso in cui ci si renda colpevole di assassinio.
    La pena di morte non poteva però essere applicata con facilità.
    Questo procedimento giudiziario estremo, ha bisogno di prove concrete. Non sono sufficienti gli indizi, anche se sono molto logici e fortemente significativi. Oltre le prove, sono necessari due testimoni oculari che abbiano visto l’esecuzione dell’assassinio durante il suo svolgersi. Ma anche essendo presenti questi elementi difficili e determinanti, il Bet Din non ppteva ancora agire, nel caso non avesse precedentemente emesso un avvertimento all’imputato. L’omicidio premeditato consta infatti di azioni preliminari che alcuni testimoni possono aver visto o sentito (ad es. minacce) e rispetto alle quali abbiano avvertito le autorità competenti. Se il delinquente era stato molto abile a nascondere il suo odio premeditato, in maniera da non lasciare indizi evidenti, non avrebbe potuto ricevere l’avvertimento dal Tribunale, avvertimento che è elemento determinante ed indispensabile per emettere una condanna a morte. La mancanza di atti preliminari può essere intesa come assenza di premeditazione e quindi l’assassinio viene definito come omicidio involontario e per il trasgressore è prevista la detenzione nella città rifugio. Tale detenzione non ha però lo scopo di isolare forzatamente l’omicida involontario dalla società, ma di proteggerlo dal “goel dam”, il liberatore del sangue.
  8. .

    la coscienza legale del cittadino


    Il sistema giuridico ebraico richiede che ogni cittadino venga istruito sulle norme che è obbligato a rispettare. La stessa morale intrinseca nelle norme giuridiche, viene proposta al cittadino ebreo sotto forma di insegnamento. Una volta che questi abbia perfettamente appreso l’insegnamento di base su cui poggia ogni norma, egli sarà in grado di mettere in pratica tutta la legislazione ebraica. Questo è il senso delle parole del Profeta (Yermiahu 31,32), secondo cui le leggi saranno scritte nel cuore:

    נתתי את תורתי בקרבם ועל לבם אכתבנה

    Traduzione:
    “Ho dato la mia Toràh in mezzo a loro e la scriverò nel loro cuore”

    Tale insegnamento è la Toràh, la cui Legislazione non può prescindere dall’istruzione rivolta ad ognuno.
    Un insegnamento che istruisce alla fedeltà e all’onestà, che sono i pilastri su cui poggiano la società e il diritto ebraico.

    La massima espressione dell’onestà è richiesta ai rapporti commerciali:

    אמר רבא בשעה שמכניסין אדם לדין אומרים לו נשאת ונתת באמונה קבעת עתים לתורה עסקת בפו"ר צפית לישועה פלפלת בחכמה הבנת דבר מתוך דבר

    Traduzione:
    “Disse Raba, nell’ora in cui viene fatto entrare un uomo nel giudizio, gli si dice: “Ti sei preso e hai dato (negli affari commerciali) fedelmente? Hai stabilito i tempi per studiare la Toràh? Ti sei occupato di perù-urvù (fecondare e moltiplicare)? Hai sperato nella salvezza? Hai studiato approfonditamente con saggezza? Sei stato saggio nelle tue conclusioni?”
    (Shabbat 31a)

    I concetti di “fedeltà” e “onestà”, nell’accezione comune, si riferiscono all’ambito della sfera morale. Differentemente, in senso ebraico, essi appartengono, non solo al campo dei valori morali, ma significano profondo rispetto delle mitzwot (ossia dei precetti) e, di conseguenza, per definizione, rientrano ampiamente nell’ambito giuridico, ovvero dei “Dinim”.
  9. .

    Gli impegni e i rapporti commerciali


    Consideriamo una delle situazioni più ricorrenti nel diritto: l’impegno contrattuale, in base al quale gli individui si impegnano a mantenere, per il futuro, le promesse concordate. Nel diritto ebraico è importante che vengano rispettati diligentemente, non solo i patti scritti ma anche quelli stipulati verbalmente e ciò anche nel caso che in futuro non si realizzino le condizioni inizialmente previste. L’impegno preso oralmente ha un alto peso, come è scritto:
    מוצא שפתיך תשמר ועשית
    “Osserverai ciò che esce dalle tue labbra e lo farai”. (Devarim 23,24)

    In relazione ai contratti stipulati verbalmente, il diritto ebraico pone l’accento sull’obbligo dell’onestà delle parti, perché ognuna di esse tenga fede alle promesse.

    Per insegnare l’obbligo di mantenere le promesse, i saggi usano spesso le parole di Bil’am nella Parashat Balaq, ove, a dare l’esempio, è proprio HaSHem:

    וישא משלו ויאמר קום בלק ושמע האזינה עדי בנו צפר לא איש אל ויכזב ובן אדם ויתנחם ההוא אמר ולא יעשה ודבר ולא יקימנה הנה ברך לקחתי וברך ולא אשיבנה

    Traduzione:
    “Innalzò il suo Mashal e disse: Alzati Balàq e intendi, ascolta verso di me figlio suo, di Tzippòr.
Non è una persona umana, altolocata D-o, da non mantenere le promesse, non è un essere umano che possa retrocedere, come chi disse e non farà, promise e non manterrà la promessa. Ho accettato di benedire e ho benedetto e non posso più ritirare [benedizione].
    (Bamidbar 23,18-20)

    Il Mashal contiene parole di saggezza, atte ad insegnare e adopera il metodo del confronto. Qui viene messo a confronto il Governante dell’universo, con un semplice governante umano. Quest’ultimo è il modello del personaggio politico che ha l’abitudine di promettere, ma restìo a mantenere le sue promesse.
    L’umano retrocede, non tenendo fede alle sue promesse, mentre invece D-o non retrocede mai ed Egli qui, per Bil’am, è il massimo esempio di chi non viene mai meno al Suo impegno.
    Nei suddetti attributi divini espressi da Bil’am, alcuni commentatori non hanno solo visto il semplice compimento delle promesse, ma un alto esempio morale, atto ad incoraggiare a mantenere la promessa, anche quando l’altra parte contrattuale l’abbia spudoratamente violata.

    Il verso in questione vuole sottolineare la consuetudine umana che tende a liberarsi dagli impegni presi, ma Egli D-o non è come gli umani, Egli mantiene sempre le promesse e vuole essere imitato in questo.
  10. .
    Adam, come nome proprio (autodeterminato) lo è dal verso 4:25 in poi. Nelle ricorrenze precedenti ha l'articolo determinativo (האדם) tranne qualche caso per indicare indeterminazione e non autodeterminazione.
    Nel verso 5:2 è specificato che sia l'uomo che la donna vengono chiamati Adam:
    זכר ונקבה, בראם; ויברך אתם, ויקרא את-שמם אדם, ביום, הבראם
    Con haAdam si intende chiaramente l'umanità come in 6:1 : ויהי כי-החל האדם, לרב על-פני האדמה

    Shalom
  11. .

    Il principio di convivenza


    La concezione del principio di convivenza, su cui si basa il diritto ebraico, può prevedere un intervento imprevisto da parte del prossimo. Si prenda il caso del proprietario di un immobile che abbia dei difetti, che potrebbero creare problemi di tipo economico allo stesso proprietario, qualora non si intervenga in tempo debito. Un conoscente potrebbe prendere l’iniziativa di sovvenzionare i lavori all’insaputa o senza il consenso del proprietario. Questa azione è mossa da un principio di amore che richiede un intervento pratico il quale esprime, nella sua essenza, che il cittadino è interessato alla situazione economica del proprio prossimo e desidera partecipare con i propri mezzi per migliorarla. Secondo il diritto ebraico, questa possibilità è ammessa e non è considerata una violazione di proprietà, né di alcun altro genere.
    Le intenzioni di chi vuole contribuire, tendono a proteggere gli interessi del proprietario e non a violarli. Con questo tipo di concezione della società, ogni contribuente non dovrà temere ad esempio, di essere citato in giudizio, come violazione della proprietà altrui. Ogni qual volta si presenti l’occasione di fare del bene al prossimo, ciò è permesso e auspicabile ed è perfettamente legale, perché si integra perfettamente nel principio generale dell’amore fraterno. Esso, naturalmente, è mirato a conseguire un miglioramento della società.

    Al contribuente interessa l’aver fatto del bene al proprietario e non deve sperare in una ricompensa. Il proprietario può decidere di pagare una parte delle spese, oppure l’intera somma o quanto egli vorrà e ciò potrà essere concordato fraternamente, con la supervisione del Tribunale, per ottenere un risultato equo. Il beneficiario non può però essere obbligato a pagare, ma ogni contribuente può ben sperare che prima o poi si possa vedere il frutto della sua iniziativa.
    Ciò incrementa indubbiamente la partecipazione fraterna ed è l’espressione della fratellanza in sé, che sono la massima applicazione del principio generale e basilare di amare il prossimo come se stessi.
    (Baba Metzi’a 101a 101b, Rambam, Ghezhelàh 10,5-11)

    All’opposto, nel diritto di altri popoli, chi prende l’iniziativa di apportare un miglioramento alla proprietà altrui, non può avere il diritto di ricevere un indennizzo parziale o totale, per i lavori effettuati. Ciò in base alla concezione secondo la quale nessuno può avvalersi dell’arbitrio di prendere iniziative in affari di altri, né di interessarsi dei problemi che riguardano la proprietà altrui, pena il rischio di una denuncia per violazione della proprietà privata.
    Questo perché la comune concezione di fratellanza, che già in generale è inferiore moralmente a come essa è concepita nel diritto ebraico, non è presa in nessuna considerazione in ambito strettamente legale, proprio perché si tratta di un concetto morale e non giuridico.

    Un’altra importante e sostanziale differenza nel diritto ebraico è che esso si fonda principalmente sui doveri, mentre il diritto dei popoli è basato principalmente sui diritti.
  12. .

    Il concetto di eguaglianza


    La procedura giuridica ebraica differisce in modo sostanziale rispetto al diritto degli altri popoli. Mentre in quest’ultimo sono gli avvocati dell’accusa e della difesa a condurre gli interrogatori e a richiedere le prove a carico di ogni parte, nel diritto ebraico sono invece i Giudici a dirigere gli interrogatori e a richiedere le prove a ciascuna delle parti. Questo metodo è di gran lunga più efficiente, perché principalmente tende ad eliminare il problema della contraffazione delle prove e la falsa efficienza di una retorica ingannevole. Il verdetto dovrà essere equo nel suo massimo grado possibile. In esso si dovrà anche tenere conto dell’appartenenza di ceto sociale di ciascuna delle due parti.
    Il concetto di eguaglianza non può prescindere dal considerare le potenziali possibilità o impossibilità a compiere determinate azioni, che possono essere molto diverse in base alla classe sociale di appartenenza.
    Un ricco dispone di molte risorse ed i valori che egli attribuisce alle cose sono di gran lunga differenti rispetto al povero. Se dunque un povero dovrà essere multato, dovranno essere tenute in considerazione le sue effettive possibilità, in base al valore che queste hanno per lui, poiché dispone di scarse risorse. Questo principio valeva ad esempio, nelle regole del culto dei sacrifici. Nel caso di un povero che non avesse avuto la possibilità economica di offrire un animale costoso, l’obbligo, da parte del Bet Din, era di presentare un’offerta adeguata alla sua disponibilità e condizione. (Waykrà 5,5-13)
    Pertanto, il concetto di eguaglianza non può essere vero ed esatto se non implica dapprima in sé un’eguaglianza di valori. Nel diritto dei popoli, al contrario, una sanzione pecuniaria ha lo stesso valore per tutti i soggetti, in quanto non prende in considerazione i valori secondo le possibilità di ciascuno. Vi è quindi l’illusione di conseguire un’eguaglianza assoluta mentre, al contrario, con questo metodo non si applica una punizione equa, poiché il benestante, potrà considerare irrisoria una sanzione e, non ricevendo una lezione adeguata e una sanzione proporzionale al suo status economico, continuerà a manifestare la tendenza a trasgredire nuovamente, data l’inefficienza della punizione.
    Si consideri anche che un ricco potrà disporre di avvocati prestigiosi e di fama, con la possibilità di gestire molto più agevolmente la procedura giuridica a suo favore, pur essendo egli trasgressore in maniera certamente non diversa dall’indigente.
    Nel diritto ebraico invece, il concetto principe è il conseguimento della Verità e questo compito è riservato ai Giudici, i quali gestiscono tutta la procedura in modo attivo, mentre le due parti in causa rimangono passive ed attente alle richieste dei magistrati. Compito basilare della procedura giuridica ebraica è quello di conseguire una completa eguaglianza delle parti in causa.
    Davanti ai Giudici (in fase istruttoria), le due parti sono perfettamente uguali.
    Dinanzi a loro in udienza, non c’è né ricco né povero, né padrone né servo, né piccolo né grande: unico obbiettivo è una perfetta indagine della verità.
    Diversamente, al momento della promulgazione della sentenza, sarà emesso un verdetto che prenda in debita considerazione le diseguaglianze di ceto sociale e di condizione economica, affinché il Giudizio sia il più equo possibile.

    Un’ulteriore differenza sostanziale fra il diritto ebraico e quello dei popoli, è riscontrata nel principio, nel diritto ebraico, secondo il quale l’uomo fu creato ad immagine di D-o e pertanto, in virtù di questo concetto, ogni uomo ha l’obbligo di mantenere elevato il proprio onore e quello del suo prossimo in quanto tale.
    Se ad esempio, durante un’indagine sia richiesta una perquisizione, questa dovrà essere eseguita in maniera tale che l’indagato non debba sentirsi umiliato.
    Il compito di ricerca della verità e dell’identificazione dei colpevoli non ha la liceità di violare l’onore del sospettato. Il sospetto non è mai una giustificazione, se tende a violare l’alto principio dell’onore dell’uomo in quanto uomo. Ciò vale sia per l’accusa che per l’accusato. Le due parti dovranno fare di tutto per salvaguardare l’onore e la dignità dell’indagato.

    Nel diritto dei popoli, la Morale e la Legge appartengono a due campi diversi mentre nel diritto ebraico, questi due campi sono perfettamente integrati. La procedura giuridica dei popoli si fonda sulla legge stabilita e nulla può aver luogo se non espressamente scritto in un dato comma. Le considerazioni morali hanno valore relativo e, nel caso che si sovrappongano alla legge scritta o che vadano in conflitto con questa, sarà la norma scritta che predominerà.
    Nel diritto ebraico, all’opposto, si tende a conseguire il diritto equo in ogni circostanza e quindi si può derogare dalla legge scritta, sostituendo ad essa una derivazione da una Norma Morale Elevata che abbia relazione con l’indagine. Esso obbedisce perfettamente al principio generale:

    ועשית הישר והטוב

    “Farai ciò che è diritto e buono”. (Devarim 6,18)
    La Norma Morale ha sempre la precedenza, quando la circostanza lo richieda. (Ramban, Parashat Qedoshim).
    Già dal periodo biblico, i popoli intravedevano un’alta morale e pietà nel diritto ebraico.
    Ad esempio, i servi del re di Aram così si esprimevano riguardo ai Re di Israel:

    ויאמרו אליו עבדיו הנה נא שמענו כי מלכי בית ישראל כי מלכי חסד הם נשימה נא שקים במתנינו וחבלים בראשנו ונצא אל מלך ישראל אולי יחיה את נפשך

    Traduzione:
    “I suoi servi gli dissero: ecco, per favore, abbiamo sentito che i Re della casa di Israel sono Re di bontà, permettici per favore di metterci dei sacchi nei nostri lombi e corde sulla nostra testa e usciamo incontro al Re di Israel, che forse non ti salvi la vita”.
    (1 Malachim 20,31 )

    Secondo il diritto ebraico sono più importanti il principio del perdono e della riconciliazione, rispetto alla ricerca e all’applicazione di una pena esemplare.
    In altri termini, il verdetto dovrà perseguire la pace e la riconciliazione delle due parti in causa.
    L’applicazione del diritto ebraico dunque ha la massima efficienza, perché integra in sé anche i principi morali su cui si basano tutte le sue Leggi. Dato che l’origine di tale diritto è attribuito a D-o nella Rivelazione del Sinai, i cittadini hanno la tendenza a rispettarlo e a mettere in pratica i loro doveri con un alto senso di timore della Divinità. Come abbiamo precedentemente sottolineato, il principio che è alla base del diritto ebraico è: “Ama per il prossimo tuo come per te stesso”, cui segue solennemente la firma con il nome sacro di HaShem: “Anì ****” “Io sono HaShem”.
    Colui che comanda è il Sommo Legislatore, la massima autorità in assoluto, oltre la quale non vi può essere alcun tipo di appello:

    אני אמית ואחייה
    מחצתי ואני ארפא
    ואין מידי מציל



    Traduzione:
    “Io farò morire e farò vivere, ho colpito ed Io guarirò e non c’è chi potrà salvare dalla mia mano” (Devarim 32,39)
  13. .

    Il Valore dell’essere umano


    Il Principio alla base dell’Ebraismo è l’idea che l’uomo sia stato creato ad immagine di D-o, “בצלם אלהים”.

    La Toràh inizia con il racconto della Creazione e con questo ci indica i principi generali su cui si fondano la morale e la legislazione ebraica.
    Il valore dell’uomo in quanto uomo, è sempre presente in ogni cognizione morale e legislativa, la quale regola tutto il sistema in tutte le sue forme. L’uomo, creato ad immagine di D-o, esprime il più alto concetto di eguaglianza e di amore verso l’uomo, esclusivamente in quanto tale. Tutti gli esseri umani derivano da un solo uomo, appartengono alla stessa famiglia umana e sono dunque tutti fratelli. Questo concetto è penetrato nel cuore dell’umanità attraverso le religioni che derivano dall’ebraismo. Il mondo ha imparato la moralità e l’amore dall’ebraismo, ha attinto molti principi morali dai Profeti di Israel, ma non ha saputo stabilire un sistema giuridico all’altezza degli alti principi morali della religione di Israel. La morale dei popoli è stata gestita per lo più dalle religioni dominanti e spesso imponenti; ma il loro sistema giuridico non rispecchia in pieno gli alti principi morali.

    Al contrario, tutto il sistema giuridico ebraico si fonda sugli insegnamenti della Toràh, la sua Morale superiore e le sue Norme.

    ואהבת לרעך כמוך (Waykrà 19,18), “Ama il prossimo tuo come te stesso” o, più precisamente, come lo intende il Midrash: “ama (desidera) per il tuo prossimo come per te stesso”, è la base della morale e del diritto ebraico.


    לעולם יהיה אדם אוהב את הבריות, שנאמר ואהבת לרעך כמוך ומ״ש לרעך ולא אמר את רעך בא ללמד שחייבה תורה לאהוב ולחמוד לחברו כל מה שהוא אוהב וחומד לנפשו.

    Traduzione:
    “Che l’uomo ami sempre le creature, come fu detto: “amerai il prossimo tuo come te stesso. Ciò che fu detto è: לרעך ( per il tuo prossimo) e non את רעך (il tuo prossimo), viene ad insegnare che la Toràh ha obbligato ad amare e desiderare per l’amico, tutto ciò che si ama e si desidera per se stessi”.
    (Ozar haMidrashim, Le’olam, cap. 17, pag. 2749)

    Questo comandamento d’amore è il riflesso di un comandamento più grande, il comandamento che comanda all’ebreo di amare D-o con tutto se stesso.
    Amare D-o significa amare le sue leggi di amore, significa amare l’uomo in quanto Sua immagine.
    In quanto tale, l’uomo non può essere umiliato, offeso o maltrattato. La proibizione dell’assassinio è strettamente legata al principio secondo cui l’uomo è l’Immagine di D-o (Bereshit 9,6).
    Il comandamento “amerai per il prossimo tuo come per te stesso” si sviluppa e sta alla base di tutte le proibizioni di compiere qualsiasi azione che ferisca la persona altrui.
    I comandamenti della Toràh sovrintendono anche ai sentimenti del cuore quali: desiderio, amore, odio e vendetta per impedire, già alla radice, la tendenza verso le trasgressioni, quale conseguenza della loro influenza sul comportamento umano.

    Ad esempio:
    לא תחמוד (= non seguirai i tuoi desideri) è la proibizione di compiere qualunque azione volta a ottenere la proprietà altrui. Questa è solo l’ultima delle cinque parole nella seconda delle due tavole, ordinate secondo una scala graduale di gravità:

    לא תרצח (non assassinerai)
    לא תנאף (non commetterai adulterio)
    לא תגנב (non ruberai)
    לא תענה (non testimonierai [il falso])
    לא תחמוד (non seguirai i tuoi desideri)

    Questi alti comandamenti morali, da cui derivano i loro articolati precetti, sono alla base di tutto il diritto ebraico per il quale, l’applicazione delle relative punizioni, in caso di violazione, consiste nella “purezza del mishpat”, che è ricordata nel Tanakh in vari modi: proibizioni di deviare il din, avvertimento contro la corruzione, obbligo di giudicare con equità anche i più deboli della società: i poveri, gli orfani e le vedove. Nelle dispute legali vi è l’alto obbligo di ogni cittadino, che ne abbia le capacità, di aiutare i poveri e gli oppressi.
    Questi comandamenti sono rivolti principalmente alla coscienza del cittadino. Essi sono scritti, in forma di principi morali, nel cuore di ogni uomo, perché possa usare l’attributo della pietà:

    אם כסף תלוה את עמי את העני עמך לא תהיה לו כנשה לא תשימון עליו נשך אם חבל תחבל שלמת רעך עד בא השמש תשיבנו לו כי הוא כסותה לבדה הוא שמלתו לערו במה ישכב והיה כי יצעק אלי ושמעתי כי חנון אני

    Traduzione:
    “Se presterai denaro al mio Popolo, al tuo povero, che è con te, non ti comporterai con lui come da creditore. Non addebiterai a lui interesse. Se con forza prenderai il vestito del tuo prossimo, fino al tramonto del Sole glielo restituirai perché questo è la sua unica coperta, è il vestito sulla sua pelle, con cosa si coricherà? Ed avverrà che se griderà a Me, ascolterò, perché Io sono Pietoso.
    (Shemot 22,24)
  14. .

    Il Re e il Gran Sinedrio



    הוא נקרא אלהים וקרא למשה אלהים שנאמר ראה נתתיך אלהים לפרעה ואמר הקדוש ברוך הוא למשה מלך עשיתיך שנאמר ויהי בישורון מלך

    Traduzione:
    “ Egli è chiamato Elohim e chiamò Moshèh Elohim, come fu detto: “vedi, ti ho costituito elohim a Par’ò e disse il Santo Benedetto Sia a Moshèh: ti ho fatto Re, come fu detto: vi sia un Re in Ieshurun.
    (Yalkut Shimoni, Parashat Beha’alotchà,724)

    האדם אם הוא מלך או שר נקרא גם כן בשם אלהים

    l’uomo, se è un Re o un Ministro, è anche chiamato con il titolo “Elohim”.
    (Ohev Israel, Likutim Chadashim, Parashat Waerà)

    Il Re aveva l’obbligo di scrivere per sé un Sefer Mishnèh Toràh e di leggervi tutti i giorni della sua vita, “perché non si insuperbisca deviando dai comandamenti a destra o a sinistra”. (Devarim 17,20)

    Da quanto si evince da Yehoshua 1:18, il Re aveva dei poteri particolari e la trasgressione dei suoi decreti comportava la pena di morte. (haMishpat ha’Ivrì,p.49) .
    Egli godeva di alti poteri nell’ambito legislativo, giudiziario ed esecutivo. In modo particolare, qualora fosse richiesto un intervento immediato, era facoltà del Re di decidere in tempi brevi, sorvolando su ogni complicazione burocratica. Aveva anche il potere di condanna a morte, perfino nei casi in cui mancasse anche uno solo degli elementi principali, senza il quale il Sinedrio non era in grado di comminare la condanna. Vi è dunque una sostanziale differenza fra il mishpat del Sinedrio ed il mishpat hamelech.

    Mentre da un lato, il Sinedrio aveva sempre l’obbligo di applicare il “mishpat tzedeq”, ossia la Giustizia secondo Norma giusta, dall’altro il Re aveva l’obbligo di gestire la società di cui era responsabile. Queste due importanti istituzioni avevano dei poteri complementari ed insieme governavano la società ebraica del Regno.

    Il Sinedrio doveva rispecchiare la Giustizia suprema, divina, come è scritto:

    “ושפטו את העם משפט צדק”

    “E giudicarono il popolo con giusto Diritto” (Devarim 16,18)

    mentre il Re aveva l’obbligo di sorveglianza su di esso, affinché l’eccessivo senso della Giustizia non eccedesse in inflessibilità o non mettesse in pericolo il Regno.
    In determinate circostanze, il Re poteva adottare delle eccezioni, rifacendosi al diritto straniero ed applicandolo secondo la contingenza o l’urgenza, risolvendo in tal modo questioni complicate, oltre a tutte quelle situazioni che non erano di stretta competenza del Sinedrio.

    השיפוט לפי הדין הוא ״נשגב במעלתו״, ו״צודק בעצמו״ אך לא תמיד הוא גם מתקן את ענייני החברה וצרכי השעה; משום כך יש שמשפטי עמים אחרים פותרים בעיה חברתית מסוימת בצורה הולמת יותר מאשר הדין שבהלכה. התאמה זו של הדין לצרכי השעה ולתיקון הסדר החברתי נעשה על ידי משפט המלך. משום כך מערכת המשפט העברי בכללותה אינה חסרה דבר, ״כי כל מה שיחסר התיקון הנזכר (= של הסדר החברתי) היה משלימו המלך״.

    Traduzione:
    “Il giudizio secondo il diritto (della halachàh) è “di alto grado morale” e “giusto in sé”, però non sempre risolve anche gli affari della società e le necessità del momento. Pertanto, il diritto di altri popoli risolve un dato problema sociale in un modo più adatto del diritto della halachàh. Questo adattamento del diritto, secondo le necessità del momento, e la risoluzione dell’ordine sociale, veniva effettuato per mezzo del “mishpat hamelech”.
    Pertanto, il sistema del diritto ebraico nel suo insieme, non manca di nulla, “poiché tutto ciò che veniva a mancare nella suddetta risoluzione (dell’ordine sociale) veniva completato dal Re”.
    (Menachem Elon, haMishpat ha’Ivrì, pag.51)

    I Giudici, rispetto al Re, avevano obblighi maggiori e più stringenti, riguardo al diritto della halachàh.
    A causa di questa sua indipendenza, al Re era riservato un particolare monito della Toràh:
    “לבלתי רום לבבו” “che non si insuperbisca” (Devarim 17, 20), affinché il suo essere cosciente di non dover rispondere agli stessi obblighi dei giudici e la sua maggiore libertà ed indipendenza nel giudicare, non lo portassero ad eccessi e abusi, fino a deviare dalla via della Toràh.
    In determinati casi, la giurisdizione era di esclusiva competenza del Re. Egli era il giudice supremo del tribunale militare ed esercitava il suo potere senza l’intervento del Sinedrio, il quale era concepito come la Corte Suprema della Nazione. Il Sinedrio aveva potere esclusivo sui cittadini israeliti, mentre i casi riguardanti tutti gli altri residenti, in particolare nel diritto penale, erano sotto la esclusiva giurisdizione del sovrano, il quale giudicava avvalendosi soprattutto dei rapporti internazionali con i paesi dei quali gli imputati erano cittadini.
    Per i cittadini stranieri, era in vigore un differente tipo di diritto, che prevedeva la nomina, da parte del Sinedrio, di un Tribunale di pari condizione e provenienza degli accusati. Questa peculiarità, unica nel suo genere, sarà analizzata a proposito del diritto relativo allo status di “gher toshav”.
    Esistono però dei casi in cui il Re conferiva al Sinedrio il potere di agire per proprio conto, in maniera indipendente. Questo tipo di delega spesso comportava delle decisioni e potevano crearsi delle situazioni di eccessiva rigidità nell’applicazione del giudizio, creando problemi e conflitti che mettevano in cattiva luce il Sinedrio agli occhi dei cittadini, i quali lo avevano sempre concepito come il Tribunale di somma giustizia divina.
    Nei periodi della diaspora e nei periodi in cui il Popolo non aveva un Re, i Giudici potevano permettersi delle liceità di modi, usualmente riservati esclusivamente al regnante. Questo, perché tale caratteristica è prevista nel diritto ebraico che, come abbiamo visto, completa il suo campo d’azione in quei casi in cui il diritto della halachàh si riveli poco efficiente a causa di elementi giuridici che si discostano troppo dalla sua effettiva competenza.
    In una Beraita, attribuita a Rav Eli’ezer Ben Ya’aqov, sono riportati due casi in cui il Bet Din aveva giudicato avvalendosi della suddetta liceità:

    תניא ר''א בן יעקב אומר שמעתי שבית דין מכין ועונשין שלא מן התורה ולא לעבור על דברי תורה אלא כדי לעשות סייג לתורה ומעשה באחד שרכב על סוס בשבת בימי יונים והביאוהו לבית דין וסקלוהו לא מפני שראוי לכך אלא שהשעה צריכה לכך שוב מעשה באדם אחד שהטיח את אשתו תחת התאנה והביאוהו לבית דין והלקוהו לא מפני שראוי לכך אלא שהשעה צריכה לכך:

    Traduzione:
    “Rabi Eli’ezer ben Ya’aqov dice: “ho sentito che il Bet Din infligge colpi e castighi che non appartengono alla Toràh e (ciò avveniva) non per trasgredire alle parole della Toràh, ma per fare una siepe intorno alla Toràh. C’è il fatto di uno che cavalcava un cavallo di Shabbath, nel periodo dei Greci. Lo portarono nel Bet Din e lo lapidarono, non perché è così da farsi, ma perché tale era la necessità del momento. Un altro caso di un uomo che ebbe rapporti sessuali con sua moglie sotto un fico e lo portarono al bet din e lo castigarono con le frustate, non perché era così da farsi ma perché era la necessità del momento”.
    (Sanhedrin 46a)

    Cavalcare di Shabbath infatti, non comporta la pena di morte ed avere rapporti con la propria moglie sotto un fico, non è proibito dalla Toràh. Ma data la situazione che si era venuta a creare a causa dell’oppressione greca, in un’epoca nella quale i comandamenti avevano perso il loro valore ed il popolo si era dato a facili trasgressioni, se non si fosse intervenuti con una certa durezza e determinazione, altri limiti sarebbero stati oltrepassati con maggiore facilità, con un’inevitabile caduta in trasgressioni molto più gravi.
    Il caso dell’uomo che cavalcava di Shabbath, doveva essere punito in modo esemplare, in maniera tale da incutere tanto timore nel popolo, da indurlo ad una seria riflessione sulle conseguenze di un comportamento troppo permissivo e tale da dissuaderlo da quel comportamento scellerato.
    Anche un rapporto sessuale fuori di casa, poteva incitare il popolo a trasgressioni più gravi ed era quindi necessario porre un limite, comminando una punizione esemplare.
    La “necessità del momento”, in cui il Re disponeva di pieni poteri, consisteva anche nella costruzione di una “siepe”, per proteggere la Toràh in casi come questi, in cui le oppressioni e le dominazioni straniere non possono e non devono giustificare in nessun modo le violazioni.

    Così commenta Rashì:

    אלא שהשעה צריכה לכך. מפני שהיו פרוצים בעבירות שהיו רואין לוחצן של ישראל שהיונים הם גוזרים עליהם גזירות והיו מצות בזויות בעיניהם

    Traduzione:
    “Perché così era la necessità del momento: perché erano soliti trasgredire con facilità, vedendo le oppressioni degli Israeliti da parte dei Greci i quali promulgavano loro editti ed i comandamenti erano da loro disprezzati”.
    (Rashì in Sanhedrin 46a)

    D’altro canto, infliggere la pena delle frustrate per una trasgressione per la quale la Toràh non la prevede o, peggio ancora, infliggere la pena di morte, sono atti gravissimi che equivalgono ad annullare la procedura esecutiva descritta nella Toràh.
    Secondo R. David ben Zimrah applicare la pena di morte per una trasgressione per la quale la Toràh non la preveda, equivale alla violazione del sesto principio del Diritto Ebraico: “לא תרצח”, ma i Saggi che stabilivano la halachàh ritenevano opportuno adattare il diritto penale, allo scopo di far fronte ai cambiamenti nelle situazioni storiche, sociali, religiose e morali del Popolo. (Menachem Elon; “Hamishpat haivrì” pag.423)

    Nel Talmud Yerushalmi, viene trattato il principio della “necessità del momento” e fino a quale misura possa essere applicato.

    תני א"ר אלעזר בן יעקב שמעתי שעונשין שלא כהלכה ועונשין שלא כתורה עד איכן ר' לעזר בי רבי יוסי אמר עד כדי זימזום רבי יוסה אומר בעדים אבל לא בהתרייה מעשה באחד שיצא לדרך רכוב על סוסו בשבת והביאוהו לב"ד וסקלוהו והלא שבות הוית אלא שהיתה השעה צריכה לכן שוב מעשה באחד שיצא לדרך ואשתו עמו ופנה לאחורי הגדר ועשה צרכיו עמה והביאוהו לב"ד והלקוהו והלא אשתו הוות אלא שנהג עצמו בבזיון:

    Traduzione:
    “R. El’azar ben Ya’aqov diceva: “Ho sentito che infliggono punizioni non secondo la halachàh, infliggono punizioni non secondo la Toràh; ma fino a quanto (ciò è permesso)?”
    R. L’azar della scuola di Rabi Yose disse: “Anche fino a che sembra una cospirazione. Rabi Yosa disse: per mezzo di testimoni sì ma non soltanto per deduzioni logiche”.
    C’è un fatto di uno che andava cavalcando il suo cavallo di Shabbath, lo condussero al Bet Din e lo lapidarono; ma non si tratta di Shevut? (Shevut: proibizione sabbatica rabbinica).
    Si, ma era invece la necessità del momento che lo richiedeva. C’è ancora un altro fatto di uno che andava con sua moglie per strada, girarono dietro il recinto ed ebbe rapporti sessuali con lei. Lo condussero al Bet Din e lo punirono con le frustrate; ma non era sua moglie? Sì, però si era comportato in modo osceno”. (Yerushalmi, Chaghiga, 2,2)

    Edited by Abramo - 29/5/2016, 08:10
  15. .

    Etimologia e significato dei termini אלהים e אלה



    Il termine אלהים deriva dalla radice אלה, il cui senso base del verbo, è “giurare”.

    L’atto del giurare biblico, da parte della Divinità, corrisponde al legiferare.
    Egli, HaShem, emana le leggi e “giura” con la sua firma: “אני ה׳” “Ani HaShem”. Chi non rispetta le Sue leggi, anche se in segreto e quindi non condannabile da un tribunale umano, va incontro ad una punizione inflitta direttamente dalla Divinità.
    Il sostantivo אָלָה, che deriva anch’esso dalla stessa radice e designa una norma superiore che contiene in sé la punizione come conseguenza della sua trasgressione, allarga così il campo semantico del verbo in “legiferare”.

    Secondo Rav Shimshon Rafael Hirsch, “Elohim” deriva da אלה e significa governante, legislatore e giudice. Haelohim sono dunque i legislatori e i giudici della società umana, nel piccolo mondo dell’uomo. Egli fa notare che la stessa radice אלה è anche quella del pronome dimostrativo אֵלֶּה (elle=questi, queste), riferito a persone o cose, sia a nomi maschili che femminili. “Elle”, questi, in senso assoluto, è riferibile a tutte le cose, come se esse fossero riunite insieme in un solo termine. “Questi” rappresentano una società organizzata, fatta di ordinamenti giuridici che la regolano.
    (Rashar Hirsch, commento alla Toràh, Genesi 1,1).

    Il senso base del sostantivo אָלָה è “norma giuridica” ed esso si estende in un campo semantico più vasto acquistando, in base al contesto, il senso di Giuramento, Patto e “Maledizione”.

    Secondo il Milon Ben Yehudàh
    i seguenti termini, in diverse lingue, sono sinonimi ed il termine אָלָה è da intendersi con “serment”, “vertrag”, “schwur”, “pacte”, “oath”, “covenant”. In senso ristretto אָלָה è dunque la punizione, la conseguenza della violazione del patto.
    (Milon Ben Yehudàh; אָלָה pag.228).

    Varie definizioni sono state date al sostantivo אָלָה.
    Riportiamo quella del dizionario Milon Ariel haMaqif:

    אלה: שבועה שיש בה קללה נגד מישהו המפר אותה

    Traduzione:
    “Giuramento che ha in se una maledizione contro chi lo viola”.

    I.L. Seeligmann nega il senso di “maledizione” al termine אָלָה ed anche altri studiosi hanno proposto interpretazioni diverse da quelle tradizionali.
    (Seeligman, Mechkarim besifrut haMikrà, pag.150, nota 22 e pag.253, nota 29).

    Noi invece riteniamo importanti le interpretazioni tradizionali e queste ci aiutano a comprendere il vero senso dei termini biblici; ma il senso di questo termine è perfettamente deducibile dal contesto di alcuni versi.

    Come si evince dal seguente verso di Mishlè, אָלָה è la Legge, la cui conoscenza rende coscienti della trasgressione e della conseguente punizione:

    חולק עם גנב שונא נפשו אלה ישמע ולא יגיד

    Traduzione:
    “Chi divide con il ladro odia se stesso e anche se fosse a conoscenza dell’alàh non la direbbe”.
    (Mishlè 29,24).

    Il termine אָלָה, in questo contesto, acquista il senso di “Legge” e, più propriamente, della punizione che questa prevede per i trasgressori: chi divide con il ladro diviene suo complice. Tale complicità consiste nel fatto che egli sa che l’azione che il ladro sta commettendo è punibile dalla Legge, ma non fa opera di persuasione per convincerlo a desistere, anzi si unisce a lui per dividere la refurtiva.
    La Toràh condanna questo tipo di comportamento: il comportamento immorale di chi è a conoscenza di una “voce della legge” e della punizione da essa prevista:

    ונפש כי תחטא ושמעה קול אלה והוא עד או ראה או ידע אם לוא יגיד ונשא עונו


    Traduzione:
    “Chi trasgredirà pur avendo sentito la voce dell’alàh ed egli è testimone o ha visto o ha saputo, se non lo dirà, diverrà colpevole della sua trasgressione”. (Waykrà 5,1)
    La voce dell’alàh è la sua dichiarazione pubblica:

    אתם נצבים היום כלכם לפני ה׳ אלהיכם … לעברך בברית ה׳ אלהיך ובאלתו אשר ה׳ אלהיך כרת עמך היום למען הקים אתך היום לו לעם והוא יהיה לך לאלהים כאשר דבר לך וכאשר נשבע לאבתיך לאברהם ליצחק וליעקב
    ולא אתכם לבדכם אנכי כרת את הברית הזאת ואת האלה הזאת

    Traduzione:
    “Voi tutt’oggi siete presenti davanti ad HaShem vostro Legislatore… per entrare nel Patto di HaShem tuo Legislatore e nella sua alàh, che HaShem tuo Legislatore concluse con te oggi, affinché tu divenga Suo Popolo ed Egli sarà per te Legislatore, come ti ha detto e come ha giurato ai tuoi antenati, ad Avraham, a Itzchaq e a Ya’aqov.
    Non con voi solamente Io concludo questo patto e questa alàh”.
    (Devarim 29,9-13)

    ובאלתו: זה שנאמר ואם באלה לא תשמעו לי אמר להן הברית הזאת כרותה היא עמכם מהר חורב שנאמר אשר כרת אתם בחורב

    Traduzione:
    “E nella sua alàh: è come fu detto: e se in queste non mi ascolterete, disse loro, questo patto è concluso con voi dal monte Horev, come fu detto: che concluse con loro in Horev”.
    (Midrash haGadol, Nizavim, 29)

    Secondo questo passaggio del Midrash haGadol, la alàh è la punizione, inflitta direttamente dalla Divinità, che fa parte dell’elenco delle punizioni descritte nella Parashàh Bechukkotai. Quando il tribunale degli umani perde la sua efficienza per eccessiva corruzione, HaShem stesso scende per educare il popolo, infliggendogli tutta una serie di punizioni che alla fine lo riporteranno sulla retta via. Tali punizioni sono impropriamente dette “maledizioni”.

    La “maledizione” nell’ebraismo altro non è che la punizione che consegue alla trasgressione della Toràh. Essa è la conseguenza della violazione del Patto stipulato con HaShem.
    Pare che il Midrash in questo caso, vocalizzi il termine אלה non come pronome dimostrativo (אֵלֶּה), ma come אָלָה. Non si dovrebbe leggere “beelle”, ma “baalàh”, come anche fa notare Rav Baruch Epstein, nel suo commento alla Toràh.
    (Toràh Temima, Waykrà 26,23).

    Pertanto “ואם באלה לא תשמעו לי” è anche da intendersi: “e se non mi presterete attenzione in base all’alàh”, ovvero alla “Legge” che, nella sostanza, altro non è che un giuramento solenne pronunciato da D-o, che prevede quelle punizioni in essa descritte in caso di violazione. Ma il testo della Toràh riporta così la suddetta citazione:

    ואם עד אלה לא תשמעו לי


    che i massoreti, concordemente al targum, vocalizzano:

    וְאִם עַד אֵלֶּה לֹא תִשְׁמְעוּ לִי

    Traduzione:
    “E se fino a queste non mi ascolterete”
    (Waykrà 26,18)

    Il Midrash riporta altre due vocalizzazioni del termine עד di questo verso:
    1)* עֵד=testimone, testimonianza (cfr. 1*)
    2)** עֹד: ancòra (cfr. 2**)

    רבי אליעזר אומר אין הקב״ה מביא פורעניות על ישראל עד שמעיד בהן תחילה הה״ד: ואם עד אלה

    Traduzione:
    1)* Rabbi Eli’ezer dice: Il Santo Benedetto Sia non manda disgrazie su Israel fino a che prima non testimonia contro di loro, come è scritto:

    ואם עֵד אלה



    רבי יהושע אומר שלא יהו ישראל אומרים כלו מכות עוד אין לו אחרות להביא עלינו ת״ל: ואם עד אלה, אם עוד אלה יש לו אחרות

    Traduzione:
    2)** Rabi Yehoshua dice: che non dicano Israel cessarono le punizioni, non ne ha più da portare a noi, cioè a dire: ואם עֹד אלה, se ancora queste, ne ha di altre.
    (Echàh Rabbàh, Petichta deRabi Pinchas, 27)
    Pertanto, in conformità anche con il senso espresso nel Midrash haGadol, l’espressione di questo verso, se vocalizzato come vuole il Midrash Rabbàh: עֵד אָלָה acquista il senso di: “Testimonianza di Legge”.

    Midrash haGadol:
    וְאִם בְּאָלָה לֹא תִשְׁמְעוּ לִי

    Traduzione:
    “E se, in base alla Legge, non mi presterete attenzione…”

    Midrash Rabbàh:
    וְאִם עֵד אָלָה לֹא תִשְׁמְעוּ לִי

    Traduzione:
    “E se, (nella maniera della) testimonianza di Legge,
    non mi presterete attenzione…”

    עֵד אָלָה è qui un espressione avverbiale come עֵד שֵׁקֶר:

    לא תענה ברעך עד שקר
    “Non testimonierai contro il tuo prossimo, falsa testimonianza”.
    (Shemot 20,13).

    in cui il termine עֵד è un sostantivo astratto con il senso di “testimonianza”.

    Edited by Abramo - 29/5/2016, 08:04
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