Consulenza ebraica per lo studio del Cristianesimo e dell'Islam

Posts written by bgaluppi

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    Ciao. Non sono l'utente giusto per risponderti, ma qualche spunto credo di poterlo dare e qualcuno mi correggerà se dico cose sbagliate. Ho avuto modo di riflettere in passato su questo episodio e sono giunto a domandarmi: fu Dio ad ordinare quell'esecuzione, o fu Mosè a prendere la decisione, forte della convinzione che fosse la cosa giusta da fare in quel momento? Quando la Bibbia dice: “Dio disse”, “Dio fece”, “Dio ordinò”, è letteralmente Dio a dire, fare e ordinare, o in alcuni casi sono uomini o animali o fenomeni naturali a provocare degli eventi che la Bibbia attribuisce a Dio? Poi bisogna anche rispondere alla domanda: perché fu presa quella decisione?

    Maimonide insegna:

    “Tutto ciò che è creato proviene inevitabilmente da una causa prossima, che l'ha creato; e questa causa ha una causa, e così via, sino a terminare la serie con la Causa prima di ogni cosa — ossia, la volizione e la volontà di Dio. Per questo, a volte nei discorsi dei profeti si omettono tutte queste cause intermedie, e si attribuisce a Dio quest'azione individuale e creata, dicendo che Egli l'ha compiuta. [...] Sappi che tutte le cause prossime dalle quali nasce ciò che nasce – e non c’e differenza che quelle cause siano essenziali e naturali oppure volontarie, oppure accidentali e casuali, intendendo con volontaria la causa di quel fenomeno creato che consiste nella volontà di un uomo, o persino nella volontà di un altro animale – ebbene, tutto questo è attribuito a Dio nei libri dei profeti, e si applica a questa azione l’espressione secondo cui Dio ha fatto questo, o l’ha ordinato, o l’ha detto; per tutte queste cose si usano l’espressione del dire, l’espressione del parlare, l’espressione del comandare, l’espressione del chiamare e l’espressione dell’inviare.” (La guida dei perplessi, II,XLVIII).

    In base a ciò, io ritengo che fu Mosè a prendere quella decisione, che il testo attribuisce a Dio, poiché Mosè rappresentava Dio in quanto Suo profeta. Perché prese quella decisione? Perché era la cosa giusta da fare in quel momento. Chi rappresenta Dio, prende decisioni che sono sempre giuste in quel momento (non necessariamente in senso assoluto): “Le decisioni di un re sono volontà divina; i suoi giudizi non sono mai sbagliati.” (‭Pr 16:10‬). Ma è direttamente Dio o l'uomo a prenderle? In quel momento era particolarmente importante che Israele restasse fedele al Signore. Dunque, la pena di morte per la dissacrazione del sabato doveva essere inflitta perché Israele non si allontanasse di nuovo da Dio: “Toglierai il male di mezzo a te”. Quella fu una decisione necessaria, affinché Israele restasse fedele alla legge. Poco prima, in Nm 14, Israele teme di entrare nella terra di Canaan e mostra di non aver fiducia in Dio. Dio dice: “«Il Signore disse a Mosè: — Fino a quando questo popolo continuerà a rifiutarmi? Perché non hanno proprio fiducia in me, nonostante tutti i fatti straordinari che ho compiuto in mezzo a loro?»”. Mosè chiede e ottiene perdono per il popolo, ma poi Israele disobbedisce di nuovo al divieto di entrare dato, e viene punito con la sconfitta. In seguito a tutto ciò, in Nm 15:30,31, leggiamo: “Se un Israelita o uno straniero compie volontariamente una colpa e così mi offende, dovrà essere escluso dal popolo. Per aver disprezzato la mia parola e aver trasgredito i miei comandamenti, si renderà colpevole e dovrà essere escluso dal popolo.”.

    L'episodio sull'uomo che raccoglieva legna in giorno di sabato è narrato subito dopo queste parole, il che è molto significativo. Sembra quasi un esempio, e c'è anche da chiedersi se sia avvenuto veramente. Credo che quell'uomo fu messo a morte perché, altrimenti, quella violazione poteva essere un pretesto per altre violazioni; e in quel momento Mosè doveva mantenere il popolo sotto controllo. Ma possiamo dire che ogni uomo che ha trasgredito il sabato sia stato messo a morte? Oggi, se uno trasgredisce il sabato, viene messo a morte? E fu proprio Dio ad ordinare l'esecuzione o, piuttosto, fu Mosè a prendere quella necessaria decisione, nella certezza che ciò costituisse la volontà di Dio? Io mi immedesimo anche nella situazione in cui si trovava Mosè, con il popolo che disobbediva quando doveva obbedire e si lamentava di lui e Aronne (Nm 14:10). Inoltre, la Scrittura non commenta sul fatto che quella decisione fosse stata "giusta" in senso assoluto, però fu giusta in senso relativo e lascia la valutazione al lettore. È scritto anche che il popolo, pur conoscendo bene il comandamento, tennero l'uomo sotto sorveglianza e indugiarono prima di emettere una sentenza, “perché non sapevano ancora a quale pena condannarlo.” (v. 34). Non aveva, Mosè, comunicato oralmente le norme sul sabato? E allora perché non sapevano come punirlo e furono di nuovo costretti ad attendere la pronunciazione di Mosè?

    Edited by bgaluppi - 5/2/2018, 10:56
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    Leviticus, io ne ho sentite di tutte... Comunque Besasea è un grande personaggio, mi stupisce che non lo conosciate. Io lo conosco solo con questo alias. È sparito da un po' dal nostro forum, e mi dispiace perché con lui facevamo davvero interessanti discussioni, specialmente ultimamente. Comunque sul forum non troverai nulla su quel tema, perché non ci ha mai resi partecipi dei suoi studi sulla teoria che i vangeli fossero scritti da autori romani, e io ho sempre avuto il dubbio che ci prendesse per il naso... ;)

    Tu, se vuoi, sei il benvenuto. Abbiamo sempre bisogno di un madrelingua che ci aiuti con l'ebraico. Sei madrelingua...?
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    Negev, che Gesù non fosse cristiano non è difficile da capire, visto che il cosiddetto cristianesimo nasce secoli dopo e visto che le dottrine e i dogmi cristiani non hanno nulla a che fare con il messaggio delle Scritture Greche, come mi piace chiamarle. Comunque non intendo entrare in questo argomento, che è stato già ampiamente discusso in Biblistica con un grande conoscitore della lingua e della letteratura ebraiche, che certamente qui conoscerete (alias Besàseà); dalle lunghe discussioni con lui - che certamente non è un simpatizzante di Gesù e dei vangeli, anzi sostiene siano stati scritti dai romani per perseguitare gli ebrei e ha critto approfonditi studi a riguardo - sono nate profonde ed interessantissime discussioni, che sono andate ben oltre la banale tiritera "ebreo vs cristiano" e da cui tutti i partecipanti - di estrazioni culturali e religiose diverse - hanno tratto grandi benefici.

    Dico solo che tra i molti amici ebrei con cui discuto, pochissimi riescono a valutare i vangeli con una mente libera dai dogmi cristiani (derivanti dal pensiero pagano da Babilonia alla Grecia), i quali - volenti o nolenti - hanno influenzato anche il pensiero ebraico. Chi non è ebreo si sente spesso bollare come cristiano, ma anche chi è ebreo spesso non si rende conto quanto il cristianesimo influenzi il suo modo di vedere le cose, per quanto riguarda i vangeli e gli altri scritti in greco. Per questo anche gli ebrei non riescono a valutare i vangeli in un modo che non sia prettamente ebraico o prettamente "cristiano". Esiste un terzo modo per valutarli, ma non intendo affrontare la questione in questo forum.

    Con moltissima stima per il grande lavoro che fate qui e soprattutto nel forum ebraico.

    Edited by bgaluppi - 20/12/2017, 11:32
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    Non sottolineo Gesù come superiore alla Torah, ma volevo mettere in evidenza il fatto che il Gesù dei vangeli vive gli insegnamenti della Scrittura non necessariamente in conformità con la tradizione. E mi pare che i vangeli evidenzino questo, non che critichino l'osservanza tradizionale. I vangeli mettono in evidenza che Gesù si discostava dall'osservanza tradizionale (infatti fu ritenuto eretico). I vangeli sono dei resoconti sulla vita di un uomo che fu condannato per eresia. Non sono testi di letteratura ebraica, sono resoconti scritti in greco da uomini che certamente non erano maestri di Israele, anzi erano discepoli di un condannato per eresia. Non bisogna dunque stupirsi se certi episodi in essi riportati non siano ritenuti conformi alla tradizione, proprio perché lui non fu conforme alla tradizione. Ma ciò che insegna può essere condannato in base alla Torah scritta e ai profeti? Onestamente, non rilevo insegnamenti che non siano conformi a quanto già espresso nella Torah e nei Profeti, dunque in che modo si sarebbe messo al di sopra della Torah?

    Non mi pare che Gesù si metta al di sopra della Torah. Mi pare che separi nettamente la Torah scritta da quella orale, contro la nozione secondo cui ambedue furono rivelate a Mosè nella loro interezza. Però qui entriamo in un altro argomento.

    Sul discorso della messianicità, ho detto che Gesù era convinto di essere il Messia. Non lo proclamava, ma lui ne aveva la convinzione ed insegnava ed agiva su questa base.

    Edited by bgaluppi - 19/12/2017, 20:48
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    CITAZIONE
    le regole dell'osservanza sono una legislazione di nazione come tutte le legislazioni non possono essere cambiate, se non da un organismo superiore a quello che le ha promulgate.

    Capisco, infatti Gesù (così tagliamo la testa al toro, ma mi risulta che Yeshùa sia la pronuncia galilaica del suo nome) disobbedì certamente a certe regole, per questo non fu rispettato. Dunque, non sto dicendo che si comportò in modo conforme alla legislazione in molte occasioni. Lui era convinto di essere il messia, e dunque di avere un'autorità superiore concessagli dall'alto, e visse ed insegnò conformemente a questa sua convinzione. Ma se è possibile criticare certi suoi comportamenti e certe sue affermazioni in base alla legislazione vigente, è possibile fare lo stesso in base ad un'interpretazione meno legalistica della Torah? Di questo ho parlato nel mio ultimo messaggio.

    CITAZIONE
    un maestro non può dare un esempio negativo e immotivato, né giustificare l'infrazione, laddove non si presenti l'assoluta necessità o il pericolo di vita

    Perché parli di esempio negativo? Piuttosto, direi che un maestro non può dare un insegnamento che non sia conforme alla tradizione, secondo quanto mi dici. Ma tu sai che i maestri non interpretano la tradizione allo stesso modo. Allora, giustamente dici, si tratta di scegliere se obbedire o meno; ma obbedire a chi, alla tradizione o a D-o? Perché dalle parole dei profeti, mi sembra che risalti la necessità di un'obbedienza diversa da quella meramente legalistica.

    CITAZIONE
    Non è il raccogliere che costituisce l'infrazione, ma la trasformazione della materia.

    Che intendi per "trasformazione della materia"?

    CITAZIONE
    ma quali sarebbero gli innocenti condannati? Per condannare occorrono un processo, due testimoni oculari, non parenti o collegati tra di loro né con l'imputato e qui non vedo nessuna condanna né innocenti E' una delle solite affermazioni evangeliche gratuite e fuori luogo, che mirano a screditare e disprezzare i maestri farisei

    Qui esageri. Gli innocenti sono τοὺς ἀναιτίους (tus anaitìus), "i senza colpa", ossia i discepoli in questione che raccoglievano e mangiavano pur non essendo in pericolo di vita. Erano colpevoli secondo i farisei che si attenevano alla legislazione, erano privi di colpa secondo Gesù in quanto egli non riteneva quella legislazione attinente e utile al fine di rispettare il comandamento sullo shabbat. Yeshùa sta dicendo: "se aveste vera conoscenza di D-o [che non è legalismo] non accusereste chi non ha colpa". I farisei accusavano in base alla norma giuridica, e Gesù se ne infischiava della norma giuridica e giudicava in base ad una legge intimamente più profonda, che è comunque espressa nella Torah e nel Tanach. I profeti chiamano spesso il popolo ad un'osservanza più intima e meno esteriore. Sono loro che lo dicono, mica io.

    Tu parli di popolo di Israel, accusandomi (anzi, "-ci", ma chi è il "noi"?, perché io parlo per me) di fare di tutta l'erba un fascio e di non sapere nulla di come gli ebrei osservano, mentre invece io parlo del testo da te commentato e di quegli scribi e quei farisei di cui parla il testo nello specifico, e sono perfettamente a conoscenza di come gli ebrei osservano gli insegnamenti (leggo anch'io la magnifica letteratura ebraica antica e moderna, se pur in italiano, e la trovo affascinante e colma di saggezza). Poi, non mi rispondi in merito alle mie osservazioni più generali sul significato dell'obbedienza e alle citazioni bibliche da me proposte. Leggendo Flavio, inoltre, non risulta affatto che tutti i farisei fossero santi, anzi tutt'altro. Dunque, di nuovo, perché fare di tutta l'erba un fascio?

    Io ti rispondo in base al testo di Mt 12, a me non interessa affatto come gli ebrei oggi osservano o non osservano. Tu ne fai una questione personale, travisando completamente quanto osservo, che è in riferimento esclusivo al testo discusso. Mammamia...

    <_<
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    Da tutto ciò, mi pare di capire che Yeshùa non agisse strettamente in base alle tradizioni o ad un'obbedienza esteriore e meccanica, ma piuttosto in base al buon senso e ad un'interpretazione più profonda della Torah. Mi sembra che lui insegnasse che nell'obbedienza non conta tanto il quanto, ma il come. Se ci basiamo sul concetto per cui o si obbedisce a tutto o a niente, qual'è l'uomo che può dire di aver messo in pratica correttamente tutte le 613 mitzvot? Se esistesse un tale uomo, sarebbe il Messia, poiché è detto: “Spirito di saggezza e d'intelligenza, spirito di consiglio e di forza, spirito di conoscenza e di timore del Signore.” (Is 11:2). Ma dubito che un uomo del genere si soffermerebbe su certi cavilli legalistici. Mi pare che Yeshùa, in molti suoi discorsi e atti, volesse insegnare la differenza tra un'obbedienza conforme alla Perfezione e una conforme all'aspetto esteriore, nel senso che non esiste vera obbedienza se non quella interiore, che rivela una intelligenza (da intelligere), una comprensione ed un'attualizzazione profonda dell'insegnamento di D-o. Che vuol dire “santificatevi dunque e siate santi, perché io sono santo”, che D-o ripete più volte (Lv 11:44,45; 19:2;20:26)? Che si deve essere ligi alla tradizione in modo ottuso e meccanico? O che bisogna attualizzare la "conoscenza di Dio", obbedendo non secondo il quanto, ma secondo il come? A cosa giova l'obbedienza esteriore, se nel mio intimo non comprendo l'importanza della purezza a cui D-o chiama i suoi? Per questo D-o, tramite il profeta, dice: “Che m'importa dei vostri numerosi sacrifici?” e “imparate a fare il bene; cercate la giustizia” (Is 1:11,17). Cos'è la vera giustizia, per D-o? Il profeta non condanna il sacrificio, condanna l'ipocrisia dell'uomo che, nella sua impurità interiore, pensa che basti un atto esteriore e meccanicamente ripetuto più volte per renderlo giusto davanti a Dio. Yeshùa insiste esattamente sulla stessa cosa.

    Nello specifico del sabato, la Torah non dice che il comandamento "ama il tuo prossimo come te stesso" (il prossimo è colui che è "vicino" in termini di spazio) non sia applicabile di sabato se non in presenza di una situazione in cui una vita è in pericolo. Sta a noi comprendere e attualizzare il significato profondo di certi insegnamenti. Faccio un esempio. In giorno di sabato trovo un uomo debole e in preda alla fame in un angolo della strada. Se posso aiutarlo solo se è in pericolo di vita, a meno che io non sia un medico, come potrò valutare se quell'uomo sia in pericolo di vita o meno? Non posso. Allora ho due possibilità: o gli preparo qualcosa da mangiare e lo sfamo, adempiendo la mitzvà "amerai il tuo prossimo come te stesso" e le parole del profeta "perché Io desidero misericordia, non sacrifici, e conoscenza di D-o più che olocausti", oppure lo lascerò lì affamato per non rischiare di violare il sabato in base alla tradizione. In quale occasione avrò fatto la volontà di D-o? È questo il senso della parabola del buon samaritano, che nel caso di Yeshùa può essere applicata anche al sabato, in quanto disse: “È lecito fare guarigioni in giorno di sabato?”.

    Nel caso specifico di Mt 12, dunque, Yeshùa non vuole entrare in una diatriba dottrinale, ma mettere in risalto l'ipocrisia degli accusatori, che usano la tradizione a loro uso e consumo senza valutare in profondità l'insegnamento della Torah. Di sabato non può essere fatto alcun lavoro, ma certi lavori si, come nel caso della preparazione dei pani e altri lavori inerenti il rito; i pani sono destinati unicamente ai sacerdoti (questo dice la Torah), ma Davide ne mangiò in base alla tradizione che consentiva di offrire il rimanente ai poveri; la tradizione consentiva, giustamente, di sfamare i poveri con i pani dell'offerta rimanenti, ma non di sfamare qualcuno in giorno di sabato con pochi chicchi di grano raccolti nella mano. Allora, cosa è giusto fare davanti a D-o? È giusto obbedire, ma bisogna capire come obbedire.
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    Continuo la mia risposta. Se mettiamo insieme le parole di Yeshùa di Mt 12:7 e le altre in un contesto e le esaminiamo tutte insieme, ci accorgeremo come Yeshùa, di fatto, non stia mettendo in dubbio certe tradizioni, né stia affermando che esse possano essere anche tralasciate, ma stia dando agli accusatori dei suoi discepoli degli ipocriti:

    1. I discepoli “strappavano delle spighe e, sfregandole con le mani, mangiavano il grano” (Lc 6:1), e vengono accusati in base ad una tradizione.
    2. Yeshùa risponde che anche Davide e i suoi mangiarono “i pani di presentazione che non era lecito mangiare né a lui, né a quelli che erano con lui, ma solamente ai sacerdoti”(Mt 24:4; Lv 24:9) — e che venivano preparati “di sabato in sabato” (1Cron 9:32) pur non essendo consentito, di sabato, fare alcun lavoro — in base alla tradizione che permetteva al cohen di donare ai poveri i pani che rimanevano.

    Dunque, da una parte i discepoli di Yeshùa erano colpevoli di aver violato il sabato per una certa tradizione che non consentiva neppure di sfregare alcune spighe con le mani, dall'altra Davide e il cohen erano innocenti per la tradizione che consentiva al cohen di dare ai poveri ciò che era destinato solo a lui. Alla fine, risponde: “Se sapeste che cosa significa: "Voglio misericordia e non sacrificio", non avreste condannato gli innocenti”, citando Os 6:6.

    Se esaminiamo le parole di Yeshùa attentamente nel contesto, sarà più facile capire il ragionamento sulla base del quale egli prende posizione in difesa dei suoi discepoli.

    Edited by bgaluppi - 19/12/2017, 08:04
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    Ciao Negev. Dici:

    CITAZIONE
    il Nazareno si discostava enormemente dalla tradizione

    Verissimo, dalla tradizione. Infatti, la norma sul divieto di raccogliere spighe di grano è codificata dalla tradizione (se non ricordo male, esistevano anche scuole di pensiero diverse sulla modalità di raccolta), non dalla Torah. Certo, la torah orale va di pari passo con quella scritta, ma c'è da chiedersi: qual'è il principio profondo dello shabbat? Davvero raccogliere due spighe costituisce una violazione? Forse per gli uomini, ma per D-o? Io credo che le parole di Yeshùa, riportate da scarni resoconti scritti in greco in un mondo dominato dal paganesimo, vadano lette andando un po' "oltre". Yeshùa, praticamente, non sosteneva che il sabato non andasse rispettato, ma che il modo in cui veniva tradizionalmente rispettato non era conforme al profondo significato dello shabbat. Questo, naturalmente, costituisce una grossa presa di distanza dalla tradizione, ed è comprensibilissimo che i maestri del tempo ne restassero scandalizzati. Yeshùa risponde anche: “Se sapeste che cosa significa: "Voglio misericordia e non sacrificio", non avreste condannato gli innocenti” (Mt 12:7). Non sono degli atti legalistici a stabilire la colpevolezza o l'innocenza di un uomo davanti a D-o.

    Scusa Negev, devo andare. Ti risponderò anche agli altri esempi che hai portato.
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    Certamente!
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    Si, mìan sabbàton è il primo [giorno] della settimana (qui sabbàton, al plurale, indica la settimana, come in Lc 24:1, μιᾷ τῶν σαββάτων). Ma ciò non ha nulla a che fare con Ὀψὲ δὲ σαββάτων. Piuttosto, l'uso del plurale in riferimento al sabato è usato anche in Lc 4:16 (ἐν τῇ ἡμέρᾳ τῶν σαββάτων, nel giorno del sabato) e At 13:14; 16:13. Non conosco bene l'argomento riguardo all'uso della forma singolare/plurale del termine sàbbaton... Devo approfondire.

    Se effettivamente Yeshùa morì venerdì, devo rivedere diverse cose. Il problema è che, dai calcoli basati sul raffronto dei dati storici con i resoconti dei vangeli, mi risulta che Yeshùa fosse morto l'anno 30, e non era un venerdi.

    Mi autorizzi a citare le tue parole sull'altro forum? Vorrei sottoporle per un'analisi.
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    Aggiungo un versetto, Mt 28:1:

    Ὀψὲ δὲ σαββάτων

    Dopo i sabati, al plurale. Quali sabati? È qui che sorgono i miei dubbi, ed è necessario che approfondisca un po' la cosa per capire il perché di questo uso del plurale. Il termine è usato a volte al singolare, a volte al plurale e può indicare il giorno settimanale, il riposo legato ad una festività, la settimana o la festività intera. Io ho la sensazione che l'agiografo intenda "i giorni di riposo", il primo riferito al 15 e il secondo al sabato settimanale.
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    Abramo, la traduzione ebraica inserisce il termine "venerdì" che non è presente sul testo greco. Lo fa perché lo interpreta giustamente secondo la tradizione ebraica. Ma il greco ha, letteralmente:

    e già sera essendo arrivata, siccome era la preparazione che è la vigilia del sabato

    in greco moderno Paraskeví con lettera maiuscola significa venerdì, ma in greco antico non significa necessariamente venerdi, ma propriamente preparazione, e può essere applicato in vari modi. Essendo quel giorno la vigilia di Pesach (Gv 19:14), io interpreto il termine sàbbaton come il giorno di riposo (15 nisàn), non come giorno settimanale. Però prendo atto del fatto che gli ebrei traducono paraskeuè con venerdì. Devo riflettere un po'. La conversazione mi è stata molto utile. Sull'anno 30 ci risentiamo prossimamente, magari in una discussione dedicata, altrimenti ashkenazi mi riprende subito... :D
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    CITAZIONE
    Per i greci è evidente che quel giorno era Venerdì e hanno posto la maiuscola a Paraskevi.

    Il problema è che, leggendo attentamente e in modo parallelo i vangeli, Yeshùa non poté morire di venerdi. I manoscritti greci non hanno maiuscole. Si scriveva tutto in minuscolo o tutto in maiuscolo (scrittura onciale, fino al IX sec), generalmente senza separazione tra le parole e senza punteggiatura per risparmiare spazio dato il costo dei supporti. Dal IV sec. in poi si iniziò ad usare il corsivo minuscolo, che fu adottato dal IX sec.. Un esempio classico è lo spirito santo, che non ha maiuscole (in quanto il testo è tutto maiuscolo o tutto minuscolo); le maiuscole sono state adottate dai traduttori, per ragioni teologiche. Per cui, paraskeuè non ha maiuscola sul testo originale.

    Per quanto riguarda invece il termine σάββατον (sàbbaton), esso in greco indica: il giorno di riposo, il settimo giorno della settimana, la settimana stessa (declinato sia al singolare che al plurale). Per questo è molto facile fare confusione ed è sempre il contesto che indica il giusto significato. Lc 23:56 dice che dopo aver preparato aromi e profumi si riposarono il sabato. Ma Mr 16:1 dice che comprarono aromi e profumi dopo il sabato. Quindi, come avrebbero potuto riposarsi il sabato se comprarono già gli aromi dopo il sabato? La spiegazione la si capisce dal contesto: un σάββατον indica il giorno di riposo (quello che Giovani chiama "giorno solenne", il 15), l'altro σάββατον indica il giorno della settimana. Infatti, subito dopo, Lc 24:1 dice che il primo giorno della settimana (domenica) le donne si recano al sepolcro, dopo aver osservato il sabato (23:56). Comprendendo il corretto uso del generico σάββατον la cronologia degli eventi diviene chiara.

    In base a questa cronologia, quello non fu l'anno 33, ma il 30 (e i dati astronomici lo confermano). La data del 30 corrisponde anche rispetto alla data della nascita, che può essere compresa attraverso il confronto del resoconto evangelico con i dati storici in nostro possesso.
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    Volevo solo farti notare che ciò che il greco dice è: i corpi non potevano restare appesi perché il giorno dopo era un giorno solenne, sacro.

    Dici “Il 14 di Nissan non è giorno di preparazione perché l'agnello lo si prepara la notte del 15 dopo il tramonto e buio completo del 14.”. Ma scusa, Es 12:6 dice che l'agnello deve essere sacrificato il 14 tra le due sere, non la notte del 15. Tu stesso affermi questo:

    “La "pasqua", ovvero il qorban pesach, non veniva sacrificato il giorno degli azzimi, ma un giorno prima. Questo giorno, 'erev pesach, cade il 14 di Nissan del calendario ebraico e l'offerta veniva compiuta da mezzogiorno al tramonto”.

    Ora, io leggo che l'agnello veniva mangiato nella notte, non preparato. Forse tu per "preparazione" intendi cottura, ma per cuocerlo doveva essere ucciso prima. Se con il buio del 14 e all'inizio della notte (il 15) l'agnello non fosse già preparato (ucciso, spellato), come lo si potrebbe mangiare? Ed è necessario liberarsi di ogni traccia di chametz prima del 15 o anche durante il 15? Io leggo “Mangiate pani azzimi dalla sera del quattordicesimo giorno del mese, fino alla sera del ventunesimo giorno.”; è ovvio che chametz doveva essere eliminato prima del sopraggiungere della sera del 14. Il termine greco paraskeuè indica l'allestimento, la preparazione di qualcosa, con tutti gli annessi e connessi. Ti chiedo: biblicamente parlando, cosa deve essere fatto il 14 per essere pronti a celebrare Pesach a partire dal calare delle tenebre e nella notte del 15?

    Aggiungo che il testo greco non riporta lettere maiuscole. O sono tutte minuscole, o tutte maiuscole, a seconda dei codici. Sono le traduzioni che aggiungono le maiuscole. Sabbaton in greco non indica necessariamente il sabato settimanale, ma anche e soprattutto il giorno di riposo. E gli autori neotestamentari utilizzano il greco, non l'ebraico, i cui termini, certamente, sono più specifici. In greco quella specificità non è trasmissibile.
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    Ciao Abramo. I tre sinottici sono concordi che fosse il giorno di preparazione, non che fosse shabbath hagadol. Il termine παρασκευή infatti, significa propriamente preparazione, apparecchio, allestimento (Rocci). Può essere usato anche in riferimento alla preparazione per una battaglia (armamento). Il dizionario Rocci specifica che presso gli ebrei il termine si riferisce normalmente al giorno settimanale del venerdì, in cui si fanno i preparativi per shabbath. Ma i vangeli sono scritti in greco, e in greco preparazione si dice παρασκευή. Quindi, i vangeli specificano semplicemente che quel giorno era giorno di preparazione. Preparazione di cosa? Di Pesach, παρασκευὴ τοῦ πάσχα (Gv 19:14). Quindi il 14.

    Ora, abbiamo una cronologia degli eventi che deve essere stabilita utilizzando i dati di tutti i vangeli. Mt 28:1 dice che dopo il sabato le donne vanno a vedere il sepolcro; Mr 16:1 dice che dopo il sabato le donne andarono a comprare gli aromi; Lc 23:56 dice che dopo aver preparato aromi e profumi, le donne osservarono il riposo sabatico. Se si considera il sabato come settimo giorno, i conti non tornano. Ma se si considera il termine σάββατον come "giorno di riposo", non necessariamente indicante il settimo giorno della settimana, allora si avrà questa sequenza:

    14 nissàn. Prima del buio Yeshùa è posto nel sepolcro. Giorno di preparazione.
    15 nissàn. “Sabato” inteso come giorno festivo.
    16 nissàn. “Passato il sabato, Maria Maddalena e Maria Giacomo e Salome comprarono aromi” (Mr 16:1). “Poi tornate, prepararono aromi e profumi”. – Lc 23:56.
    17 nissàn. Sabato settimanale. “Il sabato si riposarono, secondo il comandamento”. – Lc 23:56.
    18 nissàn. Primo giorno della settimana (nostra domenica): le donne trovano la tomba vuota.

    Del resto, la Scrittura afferma che il Giorno delle Espiazioni è un sabato (שַׁבַּ֨ת שַׁבָּתֹ֥ון, Lv 16:29-31). In Es 12:16, il primo e il settimo giorno della Festa degli Azzimi sono "sabati", ossia giorni sacri (קֹ֫דֶשׁ) di riposo assoluto. Nei vangeli, il termine greco per rendere "giorno di riposo" è proprio σάββατον.

    Gv 19:31 cosa dice? ἦν γὰρ μεγάλη ἡ ἡμέρα ἐκείνου τοῦ σαββάτου, era infatti importante (solenne, sacro) il giorno quello del sabato. Non dice affatto che era un "grande sabato", ma che quel giorno era solenne e sacro, e per questo i corpi non potevano restare appesi. Il termine μεγάλη ha molti significati: grande in senso spaziale, numeroso in senso quantitativo, grande in senso di età, grande in senso di intensità, grande in senso di qualità e valore. Significa anche "importante", "solenne". È il contesto che ci fa capire il giusto significato. Se avesse detto ἦν γὰρ μέγα ἐκεῖνο τὸ σάββατον avrebbe detto che quello era un grande sabato, un sabato solenne, shabbath hagadol. Ma non dice così, dice che quel giorno di riposo era un giorno solenne, similmente a quanto esprime Lv 16:31: “È per voi un sabato di riposo solenne e vi umilierete; è una legge perenne.”
117 replies since 2/12/2016
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