Poiché il Giudizio appartiene a D-o

tesi master UCEI di Negev

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    צדקה Tzedaqàh


    Quella di donare ai poveri è una “mitzwàh deoraita”, come è scritto:

    כי לא יחדל אביון מקרב הארץ על כן אנוכי מצווך לאמור פתוח תפתח את ידך לאחיך לענייך ולאביונך בארצך


    Traduzione:
    “Poiché non smetterà di esistere il nullatenente in seno alla terra, pertanto Io ti comando dicendo: apri generosamente la tua mano al tuo fratello, ai tuoi poveri e ai tuoi miseri nella tua terra”.
    (Devarim 15,11)

    Il comandamento consiste nel provvedere al povero per tutte le sue necessità, ovvero: vitto, alloggio e vestiario. Secondo l’halachàh, l’obbligo della tzedaqàh è rivolto a tutti i cittadini, anche al povero che viva egli stesso di tzedaqàh. Pur essendo esente da ma’asser (tassa della decima), egli è comunque obbligato ad offrire tzedaqàh ad altri poveri.
    Rambam descrive la tzedqàh secondo una scala morale di otto gradi. Ogni ebreo è incoraggiato a conseguire il grado più alto:

    1) Donare tzedaqàh, con lo scopo di risollevare chi è caduto economicamente, perché possa riacquisire la sua indipendenza economica. Fare società con lui, fargli un prestito (senza interesse) o donargli una considerevole somma di danaro per creargli un lavoro.

    2) Donare la tzedaqàh ai poveri, senza conoscere l’identità di chi la riceve e chi la riceve non conosce l’identità di chi l’ha data.
    Come dare la tzedaqàh ad un’associazione che distribuisce ai poveri (In questo caso Rambam avverte di accertarsi che l’amministratore sia onesto).

    3) Chi dà la tzedaqàh conosce l’identità di chi la riceve, ma il povero non conosce l’identità di chi l’ha data.

    4) Il povero sa chi è il benefattore, ma il donatore non sa chi è il beneficiario.

    5) Donare alla mano del povero, ancor prima che egli sia costretto a chiedere.

    6) Donare dopo che il povero ne abbia fatta espressa richiesta, conformemente ai suoi bisogni.

    7) Donare con gentilezza, dopo che il bisognoso ne abbia fatta espressa richiesta, ma in misura inferiore ai suoi bisogni.

    8) Donare tristemente e controvoglia.

    (Rambam, Matanot ‘Aniim, 10, 7-14)

    Il grado più alto di tzedaqàh è quello rivolto a chi è rimasto senza nulla, in seguito ad un fallimento economico.
    E’ d’obbligo aiutarlo a risollevarsi dalla sua condizione, attraverso dei prestiti, oppure entrando in società con lui, in modo che non abbia il bisogno di vivere di tzedaqàh e possa così continuare a vivere del frutto del suo lavoro.

    E’ di elevato grado morale dare tzedaqàh in modo anonimo, affinché chi la riceva non ne sia umiliato. Colui che dà non sa chi riceve e chi riceve non conosce la provenienza di chi ha donato. Ancora più meritevole è considerato colui che dà al povero che ne faccia espressa richiesta.
    Non è visto di buon occhio invece, chi dà la tzedaqàh in misura insufficiente o di mala voglia.
    I Saggi hanno posto una siepe intorno alla tzedaqàh, stabilendo un limite all’entità dell’elargizione, affinché non vi sia il rischio che il benefattore possa diventare egli stesso povero, dato che la tzedaqàh, in realtà, non ha una percentuale fissa e ciascuno può dare quanto ritenga opportuno. Il limite imposto dai Saggi è che ognuno non elargisca più di 1/5 del suo guadagno netto. Essi stabilirono anche chi ha la precedenza nel ricevere la tzedaqàh.
    Ad esempio: in primo luogo vengono i componenti familiari, poi i vicini, i concittadini e così via dicendo.

    La tzedaqàh è considerata come la più grande di tutte le mizwot della Toràh:

    צדקה וגמילת חסדים שקולות כנגד כל מצותיה של תורה


    Traduzione:
    “Tzedaqàh e Beneficenza sono considerate le più grandi, tra tutte le mizwot della Torah” (Talmud Yerushalmi, Peà 3a)

    A questo proposito, è bene precisare come il concetto esposto abbia una connotazione totalmente diversa da quello espresso dalla traduzione “carità”.
    La carità è una sorta di benevolenza, di “concessione” al prossimo. Potremmo considerarla una “donazione amorevole e pietosa” che non è affatto obbligatoria, per quanto meritevole.

    Tzedaqàh, dalla radice צדק (Tzedeq: Giustizia), ha in sé non solo il valore morale, ma anche il senso giuridico dell’obbligatorietà della giustizia sociale. La carità non è un diritto di chi la riceve e non è un obbligo per chi la “concede”.
    All’opposto, la tzedaqàh è un obbligo per colui che deve elargirla ed un diritto di colui che ne beneficia.
    La tzedaqàh esprime in sé, oltre che l’amore per il prossimo, anche un contributo alla società, con una tendenza, se non proprio ad eliminare, almeno ad attenuare le disuguaglianze e rende la compagine sociale più nobile ed economicamente più forte.
    Secondo la letteratura talmudica essa è più grande dei qorbanot (Babli, Succàh 49b) e avvicina il tempo della גאולה (Gheulàh).

    Come riporta la Masechet Sanhedrin, una città che non aveva una cassa per i poveri era considerata di un così basso livello morale che ad un talmid chacham era proibito risiedervi. (Sanhedrin 17b)
    Anche i più malvagi ottengono dei meriti, donando la tzedaqàh e addirittura è detto che hanno la facoltà di riscattare se stessi per mezzo delle donazioni ai poveri:

    אדם קונה את עצמו בממון מידי שמים


    Traduzione:
    “Un uomo compra se stesso con denaro, dal (giudizio del ) cielo
    (Mechilta, Mishpatim, 109).

    I Saggi vedono la povertà come una situazione che si ripete e che può far parte della vita di chiunque.
    Pertanto, è necessario che ci sia costantemente il timore di HaShem, poiché la parnassàh ci è data da Lui e che si doni sempre all’indigente, con mano generosa, affinché Egli si ricordi di noi, nel momento in cui la ruota della vita non girerà più in nostro favore.
    Anche il rapporto con la povertà è particolarmente diverso nella mentalità ebraica, rispetto a come è concepito in altre società ed altre religioni.
    Alcune religioni esaltano la povertà come mezzo di salvezza ed esortano i loro fedeli a spogliarsi dei propri beni, allo scopo di guadagnare la vita eterna.
    Nell’ebraismo si tratta esattamente del contrario: ricchezza e benessere sono considerati una benedizione di HaShem, al quale deve andare tutta la gratitudine per quanto ci è dato. La povertà e l’indigenza sono considerate una sventura, nulla affatto una gioia o una speranza, nell’ottica di una presunta salvezza futura.
     
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    Ospitalità


    Il comandamento dell’ospitalità, appartiene alla serie di mizwot della
    גמילות חסדים (ghemilut hasadim) (Beneficenza, donazione amorevole).
    (Shabbat 127b).

    L’ospitalità appartiene al comandamento “Amerai (desidererai) per il prossimo tuo come per te stesso”, secondo la concezione di fare per gli altri tutto ciò che vorresti fosse fatto a te.
    Le regole sull’ospitalità sono fatte risalire ad Avraham Avinu, secondo la sua consuetudine di offrire da mangiare e da bere ai viandanti e di accompagnarli.
    (Rambam, Mishnèh Torah, Hilhot Evel 14,1)

    Chi riceve gli ospiti è obbligato a farlo con gentilezza, anche nel caso si tratti di persone poco affidabili:

    והוי מקביל את כל האדם, בסבר פנים יפות


    Traduzione:
    “E ricevi ogni uomo con gentilezza”
    (Avot 1,15)

    Quando si hanno degli ospiti, si deve mettere a tavola del pane e del cibo, poiché potrebbe trattarsi di poveri affamati e timidi, con pudore a chiedere. E’ molto importante che il pane sia già diviso in parti, onde evitare che l’ospite si vergogni di servirsene.

    הלוא פרס לרעב לחמך ועניים מרודים תביא בית כי-תראה ערם וכסיתו ומבשרך לא תתעלם


    Traduzione:
    “Certamente si fa così: spezza il tuo pane all’affamato e porta a casa i poveri nomadi e quando vedi il nudo lo coprirai, senza tralasciare il tuo parente”.
    (Isha’iahu 58,7)

    Anche se si dispone di servitù, è un comandamento occuparsi personalmente degli ospiti, come fece Avraham Avinu, dando l’esempio per tutte le generazioni. (Bereshit 18)
    Bisogna onorare gli ospiti con il massimo del vitto e dell’alloggio. In particolar modo, il letto deve essere situato nel posto più confortevole. Un buon esempio è dato dalla donna di Shunah con queste parole:

    נעשה נא עלית קיר קטנה ונשים לו שם מטה ושלחן וכסא ומנורה


    Traduzione:
    “Facciamogli di sopra una piccola camera di mura, mettiamogli lì un letto, un tavolo, una sedia e una lampada”.
    (2 Melachim 4,10)

    Questo è il modo migliore e più adatto per accogliere gli ospiti, perché l’ospite generalmente stanco, ha prima di tutto bisogno di riposare dopo il viaggio. Per questa ragione, la prima cosa che bisogna fare, è quella di mettere a sua disposizione un letto in un posto appartato, perché è importante che la sua privacy sia rispettata.
    Accanto al letto ci sarà un tavolo privato per le sue cose personali.

    יהי ביתך פתוח לרווחה, ויהיו עניים בני ביתך.


    Traduzione:
    “Sia la tua casa generosamente aperta e i poveri siano come tuoi familiari”.
    (Avot 1,5)

    La casa dovrà essere aperta a chiunque sia di passaggio e abbia bisogno di ristorarsi. Avraham Avinu, per soddisfare questo principio di accoglienza, costruì la propria tenda, in modo che avesse quattro porte corrispondenti ai quattro punti cardinali, in maniera tale che chiunque ne avesse avuto bisogno, sarebbe potuto entrare dalla porta più prossima.
     
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    שבת Shabbath


    Il riposo settimanale, chiamato שבת (Shabbath), dopo il duro lavoro di sei giorni, fu comandato nel Sinai nella quarta delle dieci parole (Shemot 20,8-12). Per la prima volta lo incontriamo nel Sefer Bereshit (2,1-3):

    ויכלו השמים והארץ וכל-צבאם ויכל אלהים ביום השביעי מלאכתו אשר עשה וישבת ביום השביעי מכל מלאכתו אשר עשה ויברך אלהים את יום השביעי ויקדש אתו כי בו שבת מכל מלאכתו אשר ברא אלהים לעשות

    Vari significati sono stati attribuiti al riposo sabbatico.
    Il primo è il cessare del lavoro creativo da parte di HaShem.
    Il secondo è il fare riposare l’uomo con tutta la sua famiglia e la sua proprietà, servitù e animali compresi.

    Il principio contenuto nello Shabbath è il raggiungimento di un traguardo sociale importantissimo che concede riposo a tutti, senza differenze sociali.
    La cessazione della dura fatica, anche da parte della servitù, non era contemplata nel mondo antico. Questo fenomeno, il cui risultato è la totale eguaglianza fra servo e padrone, non si riscontra in nessun’ altra cultura.
    Fu attraverso le due altre grandi religioni monoteistiche, derivate dall’ebraismo, che il riposo settimanale fu trasmesso all’umanità (pur con grandi limiti).
    Queste religioni, Cristianesimo e Islam hanno imparato e attinto dall’ebraismo, ma non in tutta la sua essenza. Solo nell’ebraismo il vero riposo settimanale è rimasto al massimo grado e della massima importanza. Solo in questo viene raggiunta la massima eguaglianza fra i ceti sociali e il rispetto degli animali da lavoro.
    I figli di Israel cominciarono ad osservare lo Shabbat ancor prima di divenire uno Stato, già nel loro errare nel deserto ed ancor prima del מתן תורה (Matan Toràh), quando cominciò a scendere la manna dal cielo.

    ויהי ביום הששי לקטו לחם משנה שני העמר לאחד ויבאו כל נשיאי העדה ויגידו למשה ויאמר אלהם הוא אשר דבר ה׳ שבתון שבת קדש לה׳ מחר את אשר תאפו אפו ואת אשר תבשלו בשלו ואת כל העדף הניחו לכם למשמרת עד הבקר ויניחו אתו עד הבקר כאשר צוה משה ולא הבאיש ורמה לא היתה בו ויאמר משה אכלהו היום כי שבת היום לה׳

    Traduzione:
    “Così fu al giorno sesto, raccolsero pane supplementare (o il doppio) due misure dell’omer per ciascuno. Vennero tutti i rappresentanti della comunità e riferirono a Moshèh ed egli disse loro:”Questo è ciò che disse HaShem, questo è un riposo assoluto, Shabbat santificato ad HaShem sarà domani. Tutto ciò che vorrete infornare, infornerete e tutto ciò che vorrete cuocere, cuocerete. Tutto il rimanente conservatelo fino al mattino”. E lo lasciarono fino al mattino come aveva comandato Moshèh e non si avariò e non vi furono vermi. Disse Moshéh: “Mangiatelo oggi perché è Shabbat per HaShem”.
    (Shemot 16,22-25).

    Lo Shabbat è sempre stato il giorno in cui viene letta la Toràh in pubblico:

    חדש ושבת קרא מקרא


    Traduzione:
    “Di novilunio e di Sabbath, leggi la Mikrà”
    (Ishaiahu 1:13)

    Il commento alla Toràh era tenuto dai Profeti e di Shabbat è usanza, anche oggi, leggere un passo dei Profeti che consiste nell’haftaràh.

    Il comando dell’osservanza dello Shabbat era un obbligo la cui trasgressione, in alcuni periodi della storia di Israel, poteva comportare la pena di morte. Non era dunque lecito eseguire delle azioni in pubblico che potessero essere interpretate come la trasgressione di una delle 39 melachot.
    Solo il gher toshav non era obbligato ad osservare lo Shabbat, dato che per lui vigeva solo la legislazione noachide. Per lui, l’osservanza era facoltativa ed anzi era d’obbligo, per chi avesse deciso di osservarlo, di fare come minimo, un’azione simbolica di trasgressione di una delle melachot, per distinguersi dall’ebreo, al quale non è permesso svolgere di Shabbath nessuna melachàh. L’osservanza dello Shabbat è una delle condizioni del Patto fra HaShem ed Israel.
     
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    שנת השמטה Shannat hashemitàh
    L’anno sabbatico


    Oltre all’osservanza del giorno di riposo settimanale, la Toràh comanda anche il riposo settennale della terra. Ogni sette anni, ogni lavoro di semina e di raccolto dovrà cessare per un periodo di un anno. Vi sono dunque sei anni in cui è permesso lavorare la terra ed il settimo anno è riposo assoluto, analogamente come per la settimana di giorni. Quest’anno prende il nome di שבת הארץ (shabbat haaretz) o שנת שמטה (shannat shemitàh).

    וידבר ה׳ אל משה בהר סיני לאמר דבר אל בני ישראל ואמרת אלהם כי תבאו אל הארץ אשר אני נתן לכם ושבתה הארץ שבת לה׳ שש שנים תזרע שדך ושש שנים תזמר כרמך ואספת את תבואתה ובשנה השביעת שבת שבתון יהיה לארץ שבת לה׳ שדך לא תזרע וכרמך לא תזמר את ספיח קצירך לא תקצור, ואת ענבי נזירך לא תבצר שנת שבתון יהיה לארץ והיתה שבת הארץ לכם לאכלה לך ולעבדך ולאמתך ולשכירך ולתושבך הגרים עמך ולבהמתך ולחיה אשר בארצך תהיה כל תבואתה לאכל

    Traduzione:
    “E parlò HaShem con Moshèh, nel monte Sinai dicendo: “Parla ai figli di Israel e cosi dirai loro, quando verrete nella Terra che Io do a voi, la terra dovrà riposare uno Shabbat ad HaShem. Sei anni seminerai il tuo campo e sei anni poterai la tua vigna e raccoglierai il suo prodotto, ma nel settimo anno, sarà un riposo assoluto per la terra, uno Shabbat ad HaShem, non seminerai il tuo campo e non poterai la tua vigna, ciò che nasce spontaneo non raccoglierai e le uve cresciute sui rami non potati, non raccoglierai. Questa sarà un’annata di riposo per la terra e dovrà essere uno Shabbat della terra per voi, per il tuo cibo, per il tuo servo, per la tua serva, per il tuo salariato, per i tuoi residenti, i gherim che abitano insieme a te, per il tuo bestiame e per l’animale che è nella tua terra, tutto il suo prodotto servirà per mangiare”. (Waykrà 25,1-7)

    In concordanza con il verso 6, è stata stabilita la halachàh, secondo la quale, nell’anno sabbatico, tutti i campi agricoli sono aperti a chiunque e ognuno può raccogliere e mangiare liberamente. Il proprietario non può impedire di raccogliere, perché durante quest’anno la terra perde i suoi proprietari e diviene proprietà di tutti. Nell’anno sabbatico cade ogni frontiera che divide il povero dal ricco, il servo dal padrone, il gher toshav dal cittadino. In questo periodo, tutte le regole di questo importante anno fanno sì che tutti i residenti divengano uguali.
    Il principio basilare dell’anno sabbatico è il riposo della terra e la completa osservanza delle sue leggi è coronata dalla promessa di un doppio raccolto nel sesto anno, il quale produrrà il consueto raccolto del sesto anno con, in aggiunta, il raccolto per il successivo anno, l’anno sabbatico.
    Secondo la concezione biblica, le regole dell’anno sabbatico hanno lo scopo di ripristinare l’equilibrio naturale e sociale che erano andati perdendosi durante i precedenti sei anni.
    In quest’anno non valgono solamente le regole concernenti la terra, ma anche alcune principali regole relative ai servi e ai prestiti.

    מקץ שבע שנים תעשה שמטה וזה דבר השמטה שמוט כל בעל משה ידו אשר ישה ברעהו לא יגש את רעהו ואת אחיו כי קרא שמטה לה׳.

    Traduzione:
    “Alla fine di sette anni farai shemitàh. Questa è la shemitàh:
    ogni creditore che denuncia il pagamento del debito al suo prossimo, che vi rinunci e non opprima il suo prossimo, perché egli è come suo fratello dato che fu proclamato l’anno della shemitàh”.
    (Devarim 15,1-2)

    In tempi remoti, quasi tutti i debitori, dentro il popolo di Israel, erano poveri ed il prestito concesso loro, da parte dei ricchi, era l’unica fonte disponibile per agevolare la loro vita, fatta di privazioni e preoccupazioni per il futuro. Tale prestito permetteva loro, seppur momentaneamente, di risollevarsi economicamente.
    La שמטת החובות (Shemitat hahovot), ovvero l’annullamento dei debiti al termine dei 7 anni, permetteva, ai poveri indebitati, di ricominciare a lavorare la terra dopo l’anno sabbatico, ma senza il giogo dei debiti che si erano accumulati negli anni precedenti.
    Nel periodo del secondo Tempio, durante la crisi economica di quegli anni, in Eretz Israel, fu fatto presente a Rabban Hillel hazaken che vi erano persone che non volevano più concedere dei prestiti nel periodo che precedeva di poco l’anno sabbatico. Ciò avveniva a causa del timore, da parte dei donatori di prestiti, di perdere il loro denaro, dato che alla fine dell’anno sabbatico i loro debiti sarebbero stati annullati. Pertanto egli stabilì l’ordinanza del “pruzhbull”. Secondo questa, le due parti, il debitore ed il donatore del prestito, firmavano un accordo speciale, nel quale veniva specificato che il debito era stato concesso mediante un consiglio pubblico. Di conseguenza, il suddetto debito era considerato pubblico e, dato che alla fine dell’anno sabbatico venivano annullati solamente i debiti privati, quelli invece verso il pubblico rimanevano e pertanto dovevano essere restituiti. Quest’ordinanza fece sì che i poveri potessero continuare a ricevere i loro importanti prestiti e i donatori potevano continuare a prestare loro, ma senza più il timore di perdere il loro denaro.
    Dopo sette anni sabbatici, al cinquantesimo anno, veniva proclamato il giubileo יובל (yovel).
    In quest’anno, la terra tornava agli originari proprietari, secondo l’antica spartizione territoriale di Yehoshuah bin Nun. Anche i servi dovevano essere liberati.

    והעברת שופר תרועה בחדש השבעי בעשור לחדש ביום הכפרים תעבירו שופר בכל ארצכם וקדשתם את שנת החמשים שנה וקראתם דרור בארץ לכל ישביה יובל הוא תהיה לכם ושבתם איש אל אחזתו ואיש אל משפחתו תשבו

    Traduzione:
    “E farai suonare lo shofar nel settimo mese, nel decimo del mese, nel giorno delle espiazioni farete suonare lo shofar in tutte le vostre terre. E santificherete il 50° anno e proclamerete la libertà sulla terra a tutti i suoi abitanti, esso sarà per voi Yovel e tornerete ognuno alla sua proprietà e ognuno alla propria famiglia”. (Waykrà 25,9-10)
     
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    העבד Il Servo


    Il servo, nel diritto ebraico, non è paragonabile allo schiavo delle legislazioni dei popoli. Anzi, esso non è nemmeno paragonabile al moderno operaio, in quanto il servo ebreo viveva in condizioni di gran lunga superiori e con garanzie maggiori, rispetto all’operaio del XXI secolo.

    Il diritto ebraico prevede lo status di servo עבד (eved). Il Tribunale poteva dichiarare עבד un ladro che non poteva restituire il maltolto e dunque egli veniva da questo venduto ad un padrone che, nel linguaggio moderno, chiameremmo “datore di lavoro”. Ma anche qualsiasi cittadino poteva decidere di vendersi come servo ad un padrone ed ottenere lo status di עבד.
    Rambam specifica che la halachàh non permette all’ebreo di vendersi come servo per l’acquisto, ad esempio, di strumenti di lavoro, ma vi deve essere una ragione di vera povertà. E’ comprensibile come questa halachàh tendesse ad impedire i facili guadagni, raggiungibili ottenendo questo status. Il servo infatti, riceveva anticipatamente una somma di denaro corrispondente ad un contratto di lavoro di sei anni e, allo scadere di questo tempo, egli riacquistava la libertà. Oggi diremmo che l’operaio “ha concluso il periodo lavorativo avendo raggiunto i limiti temporali del contratto”.

    Nella concezione biblica, il servo doveva avere una dignità pari a quella del padrone, a tal punto che i saggi dichiarano:

    כל הקונה עבד עברי כקונה אדון לעצמו


    Traduzione:
    chiunque acquista un servo ebreo è come se egli acquistasse un padrone per sé.
    (Qiddushin 20a)

    Nel mondo moderno, in cui domina il capitalismo e sono bene evidenti le differenze sociali fra datori di lavoro ed operai, è impensabile che l’operaio possa essere agiato come il suo padrone. Al contrario invece, nella disposizione del diritto ebraico, il padrone ha l’obbligo di provvedere al servo, con una casa di un lusso non inferiore alla sua. Il padrone è inoltre obbligato a provvedere a ogni bisogno personale di tutta la famiglia del servo, moglie e figli. Dunque, secondo il diritto ebraico, vitto e alloggio dell’operaio sono completamente a carico del datore di lavoro.
    Il servo (o l’operaio) è obbligato dal suo contratto di lavoro, il quale stabilisce la vendita della sola manodopera.
    Si consideri che, nella società moderna, per la media degli operai, nelle famiglie italiane (ma sicuramente anche europee), è necessario che, per un adeguato sostentamento, lavorino entrambi i coniugi e anche in questo caso molte famiglie riescono malapena a coprire tutte le spese.

    Ora diamo la parola a Rambam, che ci illustra in modo eccelso le regole di questa alta ordinanza:

    טז [ט] כל עבד עברי או אמה עברייה--חייב האדון להשוותן אליו במאכל ובמשקה בכסות ובמדור, שנאמר "כי טוב לו עימך" (דברים טו,טז): שלא תהיה אתה אוכל פת נקייה* והוא אוכל פת קיבר**, אתה שותה יין ישן והוא שותה יין חדש, אתה ישן על גבי מוכין והוא ישן על גבי התבן, אתה דר בכרך והוא דר בכפר או אתה בכפר והוא בכרך--שנאמר "ויצא, מעימך" (ויקרא כה,מא). מכאן אמרו חכמים כל הקונה עבד עברי, כקונה אדון לעצמו.
    יז וחייב לנהוג בו מנהג אחווה, שנאמר "ובאחיכם בני ישראל איש באחיו" (ויקרא כה,מו). ואף על פי כן צריך העבד לנהוג בעצמו מנהג עבדות, באותן העבודות שהוא עושה לו.

    Traduzione:
    “Il padrone è obbligato verso ogni servo ebreo o serva ebrea di renderli uguali a lui nel mangiare, nel bere, nella copertura e nell’abitazione. Come fu detto: ”Perché sta bene con te” (Devarim 15,16): che tu non mangi pane pregiato e lui mangi pane scadente, tu beva vino vecchio e lui beva vino nuovo, tu dorma sui cuscini di piumino e lui dorma su cuscini di paglia, tu abiti nella metropoli e lui abiti nel paesino o tu nel paesino e lui nella metropoli, come fu detto: “e uscirà da te”, in base a ciò dissero i saggi, che chiunque compri un servo ebreo è come se avesse comprato un padrone.

    E’ obbligato a comportarsi con lui con fratellanza. Come fu detto: “Ai tuoi fratelli, figli di Israel, l’uno all’altro” (waykrà 25,46). Nonostante ciò il servo dovrà comportarsi da servo, nel servizio che gli presta”.

    * פת נקייה=pagnotta di farina pura.
    ** פת קיבר=pagnotta con maggioranza crusca.
    (Rambam, hilchot ‘avadim 1,9)
     
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    La condizione della donna


    Nel diritto ebraico civile e penale, la donna è uguale all’uomo.
    Nella liberazione degli ostaggi la donna ha la precedenza all’uomo:

    והאישה קודמת לאיש לכסות, ולהוציא מבית השבי


    Traduzione:
    “La donna ha la precedenza rispetto all’uomo, per quanto riguarda il coprirsi (vestiario) e il liberarla dalla prigionia”
    (Mishnàh horaiot 3,7)

    La donna, in quanto sesso più debole, ha la precedenza nel vestire, nel nutrimento e nel sostegno, rispetto all’uomo.
    La donna ha alcuni particolari diritti, che precedono quelli dell’uomo: le istanze da parte delle donne hanno sempre la precedenza rispetto a quelle dell’uomo.

    ז [ו] היו לפני הדיינין בעלי דין הרבה--מקדימין את דין היתום לדין האלמנה, שנאמר "שפטו יתום, ריבו אלמנה" (ישעיהו א,יז). ודין האלמנה קודם לדין תלמיד חכמים, ודין תלמיד חכמים קודם לדין עם הארץ; ודין האישה קודם לדין האיש, שבושת האישה מרובה.

    Traduzione:
    “Quando davanti ai Giudici si presentano in molti come parti in causa, si dà la precedenza all’udienza dell’orfano rispetto a quella della vedova, come è scritto: “giudicate la causa dell’orfano, occupatevi della contesa della vedova. (Ishaiahu 1,17). L’udienza della vedova ha la precedenza rispetto all’udienza del discepolo dei saggi. L’udienza del discepolo dei saggi ha la precedenza rispetto all’udienza dell’ignorante. L’udienza della donna ha la precedenza rispetto all’udienza dell’uomo, dato che la vergogna della donna è grande”.
    (Rambam, sanhedrin 21,6)

    Per quanto riguarda l’età adulta, essa è conseguita dalla donna a 12 anni, mentre dall’uomo a 13.
    La donna è esentata dall’osservanza di tutte le mizwot positive, relative al Tempo, tranne che per alcune eccezioni, come ad esempio mangiare la matzàh di Pesah, gioire di festa solenne etc.
    Vi sono mizwot per le quali, nonostante esse debbano essere osservate anche dall’uomo, la donna riveste un particolare ruolo, quali: niddàh, challàh, hadlakat nerot Shabbat.
    Le donne non svolgono lavoro di rosh hodesh da tempo immemorabile e questa è un’antichissima usanza riportata nel Talmud Yerushalmi:

    יומא דירחא מנהג


    Traduzione:
    “Giorno della luna è un’usanza”
    (Talmud Yerushalmi Pesahim 4,1)

    Secondo l’haggadàh, è stato stabilito il rosh hodesh, come giorno di riposo per le donne, a causa del merito che ebbero nel loro rifiuto di donare i loro gioielli che sarebbero serviti per la fusione del vitello d’oro.

    Nel diritto noachide la donna è perfettamente uguale all’uomo nel rispetto delle sette mizwot.
     
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    Conclusioni


    Obbiettivo di questo lavoro è di presentare il Diritto ebraico nelle sue peculiarità, che sono tali da renderlo unico nel suo genere.
    A tale scopo, è stato necessario introdurre dapprima alcuni concetti, senza i quali molti aspetti della Legislazione sarebbero potuti apparire come poco chiari.
    In particolar modo, è stato necessario comprendere l’origine del Diritto e le sue Fonti Superiori che trovano nella Toràh scritta e nella Toràh orale i loro cardini, essendo poi la seconda ciò che rende esaustivo, analitico, dettagliato ed effettivo nella sua applicazione, il sistema normativo e senza la quale la prima non potrebbe assolutamente essere compresa.
    Inoltre, il lavoro, l’insegnamento, la custodia della tradizione e la continua discussione dei Maestri e dei Saggi d’Israel, nel corso dei millenni, ha consentito un tramandare esatto delle Norme e delle Tradizioni ma ha avuto anche il merito ed il valore di saper adattare alcune Leggi alle contingenze storiche e ai drammatici problemi determinati dalla diaspora.
    Dunque, se la Toràh scritta è stata la sintesi della Legislazione, il richiamo e l’esortazione costanti a ricordare ed applicare le mizwot, la contemporanea e parallela Toràh orale, depositata esclusivamente presso il Popolo d’Israel e, come tale, non alienabile né manipolabile (in buona o cattiva fede), ad opera di altri popoli o altre religioni, è stato il carattere unico e distintivo del Diritto d’Israel, che ha sviluppato e ampliato la sintesi giuridica in tutti i suoi aspetti.
    Ciò che colpisce in modo spettacolare e che rende tanto moderno e, possiamo senza dubbio definire rivoluzionario, dopo tre millenni e tante vicissitudini, il Diritto ebraico, è l’armonia costante tra “אלה ומוזר” (Norma e Morale).
    Come abbiamo già detto, si tratta di due concetti che fanno parte di due campi distinti e non di rado opposti ed in conflitto tra di loro.
    La Norma scritta, fissa, cristallizzata ed inamovibile, non può prendere in considerazione le ragioni del cuore, della pietà e del sentimento. Essa è razionale.
    La Morale rientra nell’ambito dei principi etici, del sentimento e della considerazione delle fragilità umane: fa parte, per così dire, del “dominio del cuore”.

    Come abbiamo illustrato, una Norma deve essere giusta ed in tal caso, rispondendo all’esigenza della Giustizia assoluta, non potrà derogare in nessun modo.
    Le considerazioni morali, della Misericordia e della Pietà, sono anch’esse informate a principi di Giustizia, ma hanno in sé una elasticità sufficiente a mitigare una pena, laddove le condizioni lo richiedano.
    Essendo al di sopra delle cose umane sono superiori ad esse perché provengono da una Norma Superiore.
    Il valore e il livello di civiltà di un popolo si misurano in relazione alla sua tradizione giuridica e un sistema giuridico onorevole e degno di rispetto da parte dei cittadini, deve poter prevedere le prerogative dell’indulgenza e dei principi morali, oltre che la severità e il rigore assoluto.
    Non a caso, HaShem si manifesta come אלהים “Elohim”, laddove la Sua azione è legislativa e normativa e come Sacro Tetragramma ****, laddove l’attributo della Misericordia prevale sulla precedente (fortunatamente per il genere umano).

    Questa straordinaria impronta morale e di inclinazione alla Misericordia, trova la sua massima espressione nelle Leggi “sociali”, dettate in epoca biblica, analizzate e migliorate dai Maestri, adattate alla Storia e rimaste in vigore da allora fino ai nostri giorni.
    Concetti di grande attualità: difesa delle categorie deboli, rispetto del residente straniero, ospitalità, eguaglianza, diritti della donna, equità del giudizio, applicazione di un diritto giusto e obbligo di non deviare verso la corruzione, istruzione, senso civico e legale del cittadino, principi di convivenza pacifica e rispetto della diversità (sia essa etnica, religiosa, di sesso o di idee), diritti dei lavoratori e riposo settimanale (non solo per l’essere umano ma addirittura per l’animale da lavoro), sono giunti in occidente in epoca molto tarda e relativamente recente e addirittura in alcune società non sono mai arrivati, persistendo tristemente nel nostro pianeta, numerose realtà nelle quali oppressione dei diritti umani, sfruttamento e violenza sono la regola.
    Perfino un corpus giuridico complesso, quale è stato il Diritto romano, padre di tanta legislazione antica e moderna, prevedeva divisione rigida delle classi sociali, schiavitù e pena inflessibile. Anzi, al contrario di quanto è inteso secondo il comune senso di Giustizia, l’appartenenza ad una determinata gens, o il ricoprire un’alta carica, costituivano degli immensi vantaggi nel corso di un processo laddove, nel diritto ebraico, costituiscono un onere da rispettare e, in caso di infrazione, sono considerati un’aggravante e non un privilegio, in primis per i Governanti e i Giudici, categorie che devono essere di esempio fulgido di rigore e probità per l’intera Nazione.
    Nel diritto ebraico non vi è nessuna discriminante sociale, religiosa di etnia o di sesso, in corso di istruttoria ma, per il senso morale al quale la Legge è informata, queste condizioni assumono estrema rilevanza al momento dell’emissione del verdetto e della comminazione della pena, in quanto si terrà conto proprio di tutti quei fattori che costituiscono uno svantaggio per un determinato soggetto, rispetto ad un altro che viva in condizioni diverse e più favorevoli.
    Allo stesso modo, a nostra conoscenza, non esiste nessun altro esempio nella Storia, di uno Stato sovrano che consenta l’istituzione di tribunali speciali, riservati alla tutela dei diritti del residente straniero, che siano costituiti da Giudicanti provenienti dalla stessa categoria degli imputati e che li giudichino secondo le Leggi e gli usi dei paesi di provenienza degli stessi. Al contrario, La Storia ha conosciuto ben altri “Tribunali speciali”, tristemente istituiti con fini opposti.

    Concludiamo dunque questo studio con una considerazione:
    Ciò che rende grande, civile e democratico un Popolo è il suo senso della Giustizia e della Morale, la sua capacità di formare, ampliare e rispettare un codice di Leggi che siano eque e giuste e che prevedano soluzioni adeguate per tutte le circostanze, anche se rare, o addirittura tanto rare da essere praticamente ipotetiche.
    Il Diritto ebraico, antico di oltre 3000 anni, nella sua complessità, resta attuale e moderno, come se fosse stato costituito oggi e, grazie all’alto senso morale sul quale è fondato, non solo costituisce un Unicum nella Storia dell’umanità, ma resta un faro che può illuminare la coscienza di ogni Legislatore.
    Questo elevato senso morale, diretta emanazione della אלה “NORMA SUPERIORE”, che è alla base delle leggi umane e le governa è, in definitiva, ciò che caratterizza e distingue il Diritto ebraico da ogni forma di ordinamento giuridico, appunto perché, come è detto:

    ״כי המשפט לאלהים הוא״

     
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    Bibliografia


    Toràh:
    Bereshit 2,1-3; 9,6; 18,
    Shemot 12,45; 12,48; 16,22-25; 21,6; 20,2-13; 20,8-12;
    20,13; 21,24; 22,20-23; 22,24; 34,27
    Waykrà 5,1; 5,5-13; 19,18; 19,33-34; 25,1-7; 25,9-10; 25,35;
    25,39; 25,41; 25,46; 26,18; 26,23;
    Bamidbar 12,7 ; 14,12; 14,19; 14,20; 23,18-20
    Devarim 1,17 ; 5,6-17; 6,18; 14,21; 15,11; 15,16; 15,1-3; 16,18; 17,20;
    19,21; 23,17; 23,24; 24,14; 24,17; 29,9-13; 32,39; 33,1; 33,21

    Targum pseudoYonathan, Devarim 19,21; Shemot 21,24

    Nevi’im:
    2 Melachim 4,10; 20,31
    Isha’iahu 1:13; 1,17; 58,7
    Yermiahu 31, 32
    Yehezqel 22
    Hoshea 8,12
    Malachì 2,6; 2,10

    ketuvim:
    Tehillim 1,15,24; 82,1-4; 94,5-6; 98,2
    Yov 29,31; 31,13-17
    Mishlè 29,24
    Qohelet 7,20
    2 Divrè haYamim 19,7

    Mishnàh:
    Baba Kama 3,11;
    Horaiot 3,7
    Pirkè Avot 1,1; 1,5; 1,15

    Talmud Yerushalmi:
    Peà 1,1 (3a)
    Pesachim 4,1
    Chaghiga, 2,2
    Qiddushin, 1,2

    Talmud Babli:
    Shabbath 31a; 127b
    Succàh 49b
    Ghittin 37a; 52a; 60b
    Qiddushin 20a
    Baba Kama 27b
    Baba Metzi’a 101a 101b
    Sanhedrin 6b; 7a; 17b; 46a

    Midrash:
    Midrash Tehilim, 90,5
    Midrash Tanchuma, Ki Tissà, 34
    Midrash haGadol, Nizavim, 29
    Echàh Rabbàh, Petichta deRabi Pinchas, 27
    Yalkut Shimoni, Parashat Beha’alotchà 724
    Mechilta derabi Ishmael
    Mechilta, Mishpatim, 109
    Otzar haMidrashim, Leolam, cap. 17, pag. 2749

    Commentatori:
    Ramban, parashat Qedoshim
    Ramban, Sefer haMizwot, 16
    Toràh Temima, Waykrà 26,23
    Rashar Hirsch, commento alla Toràh, Genesi 1,1
    Ohev Israel, Likutim Chadashim,
    Rashì Ghittin 52a
    Rashì Sanhedrin 46a

    Rambam, Mishnèh Torah:
    Hilchot Ghezhelàh 10,5-11
    Hilchot Malvèh 3,1
    Hilchot ‘Avadim 1,9
    Hilchot Issurè bià 14,7
    Hilchot Matanot ‘Aniim 7, 12; 10, 7-14
    Hilchot Evel 14,1
    Hilchot Melachim 10,11; 10,12;
    Hilchot Sanhedrin 21,6

    Rambam, Morèh hanevukim: parte I, cap 71

    Shulchan ‘Aruch
    Yoreh Dea 251,1; Even ha’ezer. 71,1

    Shut haRadbazh (R. David Ben Shlomo Ibn Zimrah)
    parte 3, par. 891

    Da’at haMikrà, Tehilim 82,3, pag.88

    Menachem Elon
    haMishpat ha’Ivrì, p.49; p.51; p.423; pag. 1561

    Seeligman, Mechkarim besifrut haMikrà, pag.150,
    nota 22 e pag.253, nota 2

    Sha’arè lashon, Volume I pag. 275

    Milon Ben Yehudàh; אָלָה pag.228

    Milon Ariel haMaqif
     
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    Rileggendo questa eccellente bibliografia rinnovo i miei complimenti a Negev. La validità di un'opera la si vede dalla sua bibliografia.

    Se volete commentare qualche capitolo potete farlo aprendo una nuova discussione ponendovi i link che ho creato nell'indice del primo post.
    Questa discussione rimarrà chiusa con lo scopo di conservarla intatta allo scopo di consultazione e per agevolare meglio la lettura.

    Intanto ringrazio ancora Negev per avermi consentito di publicare la sua tesi. Pensate che lui, nella sua umiltà, non voleva pubblicarla. Ma non si poteva archiviare una tesi così tecnica e ben fatta. Anzi bisognerebbe studiarla e ampliarla.
    Meno male che alla fine sono riuscito ad ottenere il suo permesso per pubblicarla prima nel nostro forum oltre le tante richieste che ha avuto da parte di varie pubblicazioni e riviste.

    Shalom
     
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23 replies since 25/5/2016, 08:41   3859 views
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